Lingua   

Rojava

Kardeş Türküler
Lingue: Turco, Arabo, Curdo


Kardeş Türküler

Lista delle versioni e commenti


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Tencere tava havası
(Kardeş Türküler)
Helperistakan
(Muhammad Abbas-Bahram)


Rojava


Due gruppi musicali hanno composto due brani per Rojava e Kobane.

Il primo è KaraGüneş (Sole Nero) che ha realizzato già in Italia un tour nel 2013 ed il 27 Ottobre del 2014 inizierà con il suo nuovo tour "Tra barbarie e Rivoluzione" in diverse città dello Stivale. Il brano composto si chiama Kobane'ye (a Kobane).

L'altro brano invece è stato composto dal gruppo musicale Kardeş Türküler e si chiama Rojava. Mentre il primo è privo di parole questo invece comprende delle parole in Turco, Curdo ed Arabo. Ecco cosa dicono le parole che si sentono nel brano:

"Il dolore e la nostalgia sono ovunque
Che è successo agli abitanti di Aleppo, Homs e Hamal?
Che è successo, cosa è stata fatto ai Palestinesi, Siriani, Ezidi ed Armeni?
O voi che spargete la morte nella terra!
In che cielo credete?
Dov'è il vostro cuore, o voi che guardate questo terrificante dolore?"


Due canzoni per Rojava e Kobane
Werin Rojava
Berxwedana gelan e
Derbas bikin sinoran
Kobanê li ser pîyan e

Canê canê cana min
Ya merheba Rojava
Tu hewara gelan î
Hem bi derman î
Ehlen û sehlen
Rojava

Rojava'ya gel
Halkların direnişine
Sınırları geç
Kobanê ayakta

Can can
Ya merhaba Rojava
Halkların çığlığı
Hem dermanı
Ehlen u sehlen Rojava

الألمُ والهجرانُ في كلِّ مكان.
ماذا وقع لأهل حلب وحمص وحماه؟
ماذا وقع للفلسطينيين، للسريان، والإيزيديين، والأرمن؟
أنتم يا من تنشرونَ الموتَ في الأرض،
بأيِّ سماءٍ تؤمنون؟
أنتم يا من تتفرجونَ على الألمِ الرهيب
أي قلوبٍ لكم؟

Acı ve hicran her yerde
Halep, Homs ve Hamalılar'a ne oldu?
Filistinliler'e, Süryani, Ezidi, Ermeniler'e ne oldu (ne yapıldı)?
Ey toprağa ölüm yayan sizler
Hangi semaya-gökyüzüne inanıyorsunuz?
Bu korkunç acıyı seyredenler, kalbiniz nerede?

inviata da adriana - 29/1/2015 - 18:50


Les Kurdes nous défendent tous
par Charb directeur de Charlie Hebdo 22/10/2014

«Je ne suis pas kurde, je ne connais pas un mot de kurde, je serais incapable de citer un nom d’auteur kurde. La culture kurde
m’est totalement étrangère. Ah, si ! il m’est arrivé de manger kurde… Passons. Aujourd’hui, je suis kurde. Je pense kurde, je parle kurde, je
chante kurde, je pleure kurde. Les Kurdes assiégés en Syrie ne sont pas des Kurdes, ils sont l’humanité qui résiste aux ténèbres. Ils défendent leur vie, leur famille, leur pays, mais qu’ils le veuillent ou non, ils représentent le seul rempart contre l’avancée de l’“État islamique”. Ils nous défendent tous, non pas contre un islam fantasmé que ne représentent pas les terroristes de Daech, mais contre le
gangstérisme le plus barbare. Comment la prétendue coalition contre les égorgeurs serait-elle crédible, alors que, pour des
raisons différentes, beaucoup de ses membres ont partagé avec eux (et partagent encore pour certains) des intérêts stratégiques, politiques, économiques ? Contre le cynisme et la mort, aujourd’hui, il y a le peuple kurde. »

29/1/2015 - 20:04


Qualche indicazione su questa canzone in preparazione di una traduzione completa:

a) Le lingue sono tre: curdo, turco e arabo.
b) La traduzione indicata nell'introduzione si riferisce esclusivamente all'ultima strofa in lingua turca.
c) Dal testo è stata eliminata la dicitura "sözler" che, in turco, significa semplicemente "parole, testo".
d) Nel testo, le prime due strofe sono in lingua curda, la terza è in turco, la quarta in arabo e la quinta e ultima (quella tradotta) è di nuovo in turco.

Riccardo Venturi - 30/1/2015 - 00:14



Lingua: Francese

Werin Rojava
Venez à Rojava

Berxwedana gelan e
C'est la résistance des peuples

Derbas bikin sinoran
Passez les frontières

Kobanê li ser pîyan e
Kobanê révolte(lit: Kobanê se tient debout)


Canê canê cana min
Mon bien-aimé, mon précieux

Ya merheba Rojava
Salut Rojava

Tu hewara gelan î
Tu es le cri des peuples

Hem bi derman î
et leur guérison

Ehlen û sehlen
Bienvenue

Rojava








الألمُ والهجرانُ في كلِّ مكان.
Il y a de la douleur et de l'abandon partout

ماذا وقع لأهل حلب وحمص وحماه؟
Qu'est-ce qui est arrivé à ceux qui habitaient Alap Homs et Hama?

ماذا وقع للفلسطينيين، للسريان، والإيزيديين، والأرمن؟
Qu'est-ce qui est arrivé aux palestiniens, assyriens, ezidis, arméniens?

أنتم يا من تنشرونَ الموتَ في الأرض،
O vous qui étalez la mort dans la terre

بأيِّ سماءٍ تؤمنون؟
Auquel ciel croyez vous?

أنتم يا من تتفرجونَ على الألمِ الرهيب
qui regardez cette douleur terrible

أي قلوبٍ لكم؟
Où est votre coeur?

inviata da a - 10/7/2015 - 00:45


W le donne del Rojawa

coralba.giannico@hotmail.it - 3/11/2015 - 07:17


DOPO GLI ACCORDI PETROLIFERI TRA CURDI E USA: SITUAZIONE DISPERATA O SOLO CONFUSA?

(Gianni Sartori)

Preferivo esimermi. Attendere che ulteriori sviluppi spostassero altrove il problema – anzi i problemi, molteplici – e la situazione evolvesse – o degenerasse - al punto che tutto veniva rimesso in discussione (a volte capita, è già capitato).
Invece...invece comincio da un aspetto secondario.
Devo amaramente constatare che proprio non c'è speranza di salvezza – nemmeno tardiva - per quella parte della Sinistra nostrana che ha scelto definitivamente – magari richiamandosi a una presunta coerenza ideologica m-l - la geopolitica, gli schieramenti (per capirci, stare sempre e comunque con la Russia, la Cina, Assad, magari anche Teheran...se continua così pure Erdogan, temo) a scapito del Diritto dei popoli. Pur con tutte le contraddizioni e incongruenze che lo caratterizzano (vedi le strumentalizzazioni di quello che uno studioso catalano ha definito “indipendentismo a geometria variabile”).

Non scenderò tuttavia al livello di certi “ricercatori antimperialisti” che - oltre a gettare merda sui Curdi e sull'esperienza libertaria-consiliare del Rojava - ne invocano periodicamente la “punizione” (per non aver aderito in toto al regime di Damasco). Soltanto mi permetto di chiedere cosa si dovrebbe allora pensare del sostegno (chiesto e apprezzato) dato da Erdogan a Maduro. Sia chiaro. Anche se non è nemmeno lontanamente all'altezza di Chavez (che, per inciso, ritengo sia stato eliminato, fatto ammalare... indovinate da chi) Maduro rimane comunque un garante della resistenza antimperialista – quella autentica, non da salotto - del suo Paese. Gli accordi con il regime di Ankara – o anche con quello di Teheran– sono forse inevitabili per il futuro di un Venezuela in grado di sopravvivere alle mire statunitensi.
Ma perché quello che vale per uno Stato non dovrebbe valere per una Nazione – quella curda – senza Stato?
In attesa di chiarimenti, proseguo nel mio modesto tentativo di orientarmi nel Groviglio.

Utilizzando come bussola quanto ha scritto recentemente Davide Grasso, sicuramente un profondo conoscitore della questione curda nell'ambito del Nord Est siriano.

SDF e NES sotto il tiro incrociato di Ankara e Damasco

Parlando delle “notizie poco esaltanti che giungono dalla Siria nord-orientale sotto il controllo delle Forze siriane democratiche che difendono l'Amministrazione autonoma del nord-est”, Davide non esita nel citare per prima la firma del contratto con una compagnia petrolifera statunitense, la Delta Crescent Energy LLC (già inquietante di suo per quel nome così evocativo, Delta).
Non meno grave l'altra notizia, le proteste – presumibilmente alimentate dai Servizi di Damasco – dei primi di agosto contro le SDF in alcuni villaggi arabi della provincia di Deir el-Zor. A un mese di distanza la situazione è ulteriormente peggiorata e dalle proteste si è passati ad azioni armate in cui hanno perso la vita esponenti delle SDF. Da notare che alcuni siti della soidisant sinistra antimperialista di cui sopra ne stanno dando resoconti entusiasti, ancora prima di sapere con certezza se fossero effettivamente opera di arabi incazzati con i curdi (semplifico ovviamente), di elementi residuali di Daesh o di ascari jihadisti sul libro paga di Ankara. Tanto per dire dello stile di certa gente.
Da parte mia, volendo cercare analogie e precedenti, mi pongo un dubbio puramente accademico. Ossia se queste milizie arabe si configurino come una versione odierna mediorientale di quelle staliniste del PSUC (che, ricordo, difendevano la proprietà privata contro le collettivizzazioni degli anarchici in Catalunya e Aragona) o piuttosto degli ufficiali ex zaristi reclutati da Trotzki per reprimere i marinai proletari di Kronstadt e i contadini poveri seguaci di Nestor Makno.
Ci torneremo comunque.
A trasformare, in maniera forse irreversibile, la situazione rispetto a due anni fa – secondo Davide Grasso, ma la cosa è condivisibile - l'invasione turca di Afrin nel 2018 e di Tell Abyad e Serekaniye nel 2019. Invasioni a cui Damasco non seppe - e non volle - opporre adeguata resistenza (usando l'aviazione per esempio).
In compenso, sia Russia che Stati Uniti in qualche modo le resero possibili, quando addirittura non le favorirono.
Nel tentativo di contrastare ulteriori attacchi da parte della Turchia, le SDF avevano consentito la presenza di unità militari russe e siriane a Manbij, Kobane (do you remenber ?) e Ain Issa, aree precedentemente occupate dagli statunitensi. I quali, nel quadro di una spartizione territoriale (balcanizzazione?) rimanevano insediati a Derik, Hasakah e Deir el-Zor a presidio – non certo disinteressato - dei pozzi petroliferi.
Si è poi visto come gli accordi tra Russia e Turchia, per pattugliamenti congiunti, non rallentassero più di tanto gli attacchi di Erdogan – e dei suoi mercenari jihadisti – sia contro le SDF, sia contro i civili. Arrivando, con la chiusura della diga di Alouk, a privare un milione di persone del bene essenziale dell'acqua.
Ovviamente Damasco (mentre lascia volentieri ai turchi il lavoro sporco, il tentato genocidio dei curdi) non aspettava altro per lanciare minacce di future rappresaglie nei confronti di chi avesse continuato a collaborare con la NES.
Risaliva al dicembre del 2019 la visita a Qamishlo di Ali Mamlouq, capo dei servizi siriani (e noto per essere venuto, discretamente, a Roma nel 2018 per confrontarsi con i colleghi italici). Qui – a Qamishlo - si era confrontato con alcuni capi clan arabi del Rojava a cui veniva imposto di lasciare le istituzioni, sia civili che militari, della Nes.
Azzerando così quanto andava emergendo nei colloqui in corso già da tempo a Damasco. Ovvero la prospettiva di una Siria democratica in cui, nel quadro di una maggiore autonomia, si sarebbero integrate sia la Nes che le Sdf. Di queste ultime poi si richiedeva il puro e semplice autoscioglimento. Quasi contemporaneamente - gennaio 2020 – a Mosca si incontravano servizi segreti turchi e siriani (nemici sul campo, almeno ufficialmente, ma sostanzialmente concordi nel togliere di mezzo comunque e dovunque i Curdi) per definire una comune strategia.
All'incontro avrebbe preso parte Hakan Fidan, comandante in capo del MIT (Milli Istihbarat Teskilati) l'agenzia turca di intelligence.
Stando all'agenzia siriana SANA si sarebbe discusso apertamente della “possibilità di lavorare insieme contro le YPG, la componente siriana dell'organizzazione terrorista (sic!) PKK a est dell'Eufrate”. Sempre dal comunicato di SANA si apprendeva che il responsabile dei Servizi siriani presente a Mosca (ancora Ali Mamlouq ?) chiedeva ai turchi di riconoscere la sovranità, l'indipendenza e l'integrità della Siria. Ma solo – sottinteso - dopo aver “bonificato” il nord est da quei fastidiosi Curdi, magari con una sostituzione etnica da manuale (come del resto sta già avvenendo).
Visto e considerato che l'agenzia in questione (SANA) è di fatto portavoce del regime siriano (e in quanto tale citata regolarmente dai nostrani “antimperialisti” anti curdi e filo Assad), adesso ne sappiamo qualcosa in più sui veri progetti di Damasco.
Lo dico anche a beneficio di quella sinistra (neostalinista o rosso-bruna) che – in mancanza di Pol Pot - si è riciclata sulla via di Damasco (e talvolta anche di Teheran).

Ma, oltre che con gli attacchi di Ankara e con le minacce di Damasco, nell'ultimo periodo l'Amministrazione autonoma ha dovuto fare i conti con una grave crisi economica e alimentare.
Sia per l'occupazione di ampi territori agricoli da parte dell'esercito turco, sia per la contemporanea distruzione tramite incendi dei campi di grano – e quindi con la perdita dei raccolti - da parte jihadista (residui dell'Isis o mercenari di Ankara). Ad aggravare ulteriormente la situazione, prima il lockdown (da marzo a maggio, poi ripreso in agosto) per il Covid-19 e poi, in giugno, il Cesar-Act di Trump (ulteriori sanzioni per chi mantiene relazioni commerciali con la Siria).
Con effetti devastanti nel Nord Est siriano (sopratutto per la svalutazione). Con gravi difficoltà sia a livello sanitario che alimentare e – di conseguenza – il diffondersi di scoraggiamento, delusione e rabbia, anche nei confronti delle aspettative suscitate dal Confederalismo democratico.

Una penuria generale che non si poteva superare con le scarse quantità di petrolio che la Nes finora riusciva comunque a estrarre in autogestione (con raffinerie scarsamente produttive, ma in compenso altamente inquinanti) e acquistato per lo più da Damasco.
A esasperare ulteriormente la popolazione, l'introduzione – per quanto parziale – della coscrizione obbligatoria. Per non parlare della drammatica, rischiosa situazione dei campi di prigionia - gestiti dalla Nes - dove sarebbero rinchiusi oltre 60mila aderenti all'Isis, famigliari compresi. Vorrei soltanto sottolineare a chi – infame – li accusa di maltrattamenti o peggio nei riguardi delle popolazioni arabe che i Curdi nel Nord est della Siria hanno abolito la pena di morte. Anche nei confronti dei criminali islamisti, nonostante le tacite richieste di tanti paesi occidentali che avrebbero apprezzato l'eliminazione dei loro concittadini integrati in Daesh e che ora rifiutano di riprendersi.
E in questa situazione convulsa, ovviamente, sia i residui dell'Isis che il regime di Damasco soffiano sul fuoco.
Ricordava poi Davide Grasso che “migliaia di comuni popolari, femminili o miste, sono state sciolte”. In particolare da parte degli occupanti turchi che hanno sostituto l'Amministrazione autonoma con un Governo ad interim dei Fratelli musulmani. “Rigorosamente unisex” vuol precisare. Quelle che ancora sopravvivono nei territori liberi “vedono nelle commissioni e nelle assemblee alternarsi la determinazione a continuare l'opera di cambiamento a forme di scoramento che minano il superamento delle dinamiche di delega al movimento e ai suoi militanti. Un problema endemico per lo sforzo rivoluzionario come tale, che si infittisce nella penuria materiale e in uno scenario dove la continua violenza non sembra rendere percepibile una via d'uscita”.
Situazione difficilmente sostenibile, per lo meno a lungo termine e che ha già avuto spiacevoli conseguenze. Alcune, come si diceva, di cui si sarebbe fatto volentieri a meno.
Per esempio dover “fare i conti con l'opposizione conservatrice interna alla destra curda, fortemente contraria al socialismo confederale, invitata per la prima volta a mesi di colloqui con l'Amministrazione per proporre una maggiore unità, maggiore sostegno internazionale e l'ottenimento di una voce ai colloqui di pace delle Nazioni Unite”.

Nelle aree confinanti con i territori oltre l'Eufrate controllati da Damasco, vengono segnalate serie difficoltà incontrate dalle milizie femminili YPJ (Yekineyen Parastina Jin, Unità di Difesa delle Donne). Si tratta di aree in cui - talvolta perlomeno - la popolazione aveva accolto con favore la presenza islamista e dove tuttora si contano centinaia di omicidi per mano delle cellule superstiti dell'Isis.
Qui i notabili del luogo, rappresentanti di una cultura patriarcale e maschilista, hanno organizzato manifestazioni pretendendo - e ottenendo - che dai programmi scolastici venisse abolita la Jineoloji (“scienza donna”).
Il misterioso assassinio di Mutshar Hammoud al-Hifil (per certi aspetti un omicidio eccellente – di Stato ? - una possibile provocazione per innescare la ribellione anti-curda) aveva provocato le manifestazioni del 4 agosto con la partecipazione di centinaia di membri dei clan Al-Aqaidat e Al-Shaitat (entrambi filo-Assad). Veniva attaccato con le armi anche un presidio delle SDF, composto – come si vede nei video - da giovanissimi ragazzi del luogo che dopo aver lasciato il villaggio vi erano ritornati in serata imponendo il coprifuoco e operando alcuni arresti.
Va dato per scontato che l'operazione contro le SDF abbia avuto il sostegno, morale e materiale, del regime siriano. E' confermato che il giorno precedente si era tenuta una riunione congiunta tra le Forze di difesa nazionale di Damasco ed esponenti dei due clan coinvolti nelle proteste armate.

A dare ampio risalto a questi eventi, peraltro minori se si considera il contesto attuale, sia i media siriani che quelli iraniani. Oltre – ca va sans dire – ai nostrani portavoce di Teheran e Damasco.

Tutto questo a pochi giorni di distanza (poi, come ho detto, la situazione è andata degenerando ulteriormente) dall'annuncio del contratto tra l'Amministrazione autonoma e Delta Crescent. Stando alle dichiarazioni del co-presidente Abed Hamed Al-Mehbash, varie aziende (anche russe, non solo statunitensi) avevano presentato i loro progetti su invito dell'Amministrazione. Progetti sia per l'ammodernamento degli impianti, sia per l'estrazione del petrolio.
“Uno scenario – ricordava Davide Grasso – diverso da quello a cui si è assistito nei territori del regime, in cui il 6 giugno l'esercito russo ha espulso manu militari i soldati siriani dal sito petrolifero di Al-Wand erigendo barricate difese da mitragliatrici pesanti e posizionando mezzi blindati attorno alla struttura...”.

Detto questo, per quanto frutto della necessità, l'accordo di Hasakah tra i i Curdi e gli USA rimane pur sempre un esempio di ingerenza straniera, un nodo difficile da sciogliere (o anche un rospo da ingoiare, non intendo minimizzare) per chiunque creda nell'Autodeterminazione dei Popoli. O per chi semplicemente vedeva - e ancora vede - nell'esperienza del Confederalismo democratico uno spiraglio percorribile di giustizia e libertà. Non solo per i Curdi, naturalmente.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 30/8/2020 - 21:56


Gianni Sartori - 19/12/2020 - 13:39


L’AIA: GIOVANI CURDI ENTRANO NELLA SEDE DELL’ORGANIZZAZIONE PER LA PROIBIZIONE DELLE ARMI CHIMICHE (OPCW)

Gianni Sartori

Il 3 dicembre una cinquantina di appartenenti a TCS e TEKO-JIN (i movimenti delle Gioventù Curde in Europa) hanno voluto denunciare con un atto spettacolare di disobbedienza civile l’utilizzo di armi chimiche (un crimine di guerra secondo le Convenzioni internazionali) da parte dell’esercito turco nel Kurdistan del Sud (in territorio iracheno) e il sostanziale silenzio delle agenzie internazionali.
L’Aia, nei Paesi Bassi, è stata teatro di un vero e proprio assalto al palazzo dove risiede l’Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons (OPCW), oggetto il 16 novembre di un’analoga manifestazione alla cui conclusione uno striscione di denuncia veniva appeso alla facciata.
Come ha precisato un esponente di TCS l’occasione era stata fornita dallo svolgimento del 26° incontro indetto dalla OPCW e sostanzialmente si riproponeva di “ricordare all’organizzazione i suoi doveri, anche a nome dell’Iniziativa contro le armi chimiche in Kurdistan, chiedendole di indagare in merito a centinaia di attacchi chimici, opera dell’esercito turco, nel Kurdistan del Sud da aprile”.
Inizialmente i curdi si erano radunati pacificamente davanti alla sede, ma dopo i tentativi della polizia di sgomberare i marciapiedi sono entrati nel palazzo occupandolo.
Molti di loro si sono poi incatenati alle inferriate e alla recinzione. Conteggio finale, oltre una cinquantina di arresti (per “intrusione”) e una decina di feriti. 
Da tempo le accuse (peraltro documentate visto che il Congresso nazionale del Kurdistan - KNK - è in possesso di campioni contaminati provenienti dalle aree colpite) dell’utilizzo di armi chimiche da parte di Ankara nelle regioni di Avasin, Zap e Metina circolano con insistenza, ma rimanendo inascoltate.
L’OPCW, in quanto organizzazione indipendente creata per sorvegliare il rispetto delle norme da parte degli Stati che hanno firmato la Convenzione, dovrebbe intervenire e stabilire anche tempi e modi per la distruzioni di tali armi fuorilegge.
Nel loro comunicato i giovani curdi hanno ribadito di “esigere che l’OPWC, l’ONU e la Croce Rossa Internazionale inseriscano tale utilizzo di armi chimiche all’ordine del giorno” mettendo in campo un’inchiesta indipendente e “sanzioni nei confronti del governo di Erdogan”. Invitando quindi le organizzazioni internazionali chiamate in causa a esaminare il materiale contaminato in possesso del KNK che può metterlo a disposizione.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 5/12/2021 - 16:54


L’ASSALTO AL CARCERE FORSE ORCHESTRATO DA ANKARA E DAMASCO

Gianni Sartori

Lo davamo per scontato. Intravedere dietro l’attacco di Daesh al carcere di Sina (nel quartiere di Gweiran/Xiwêran della città di Hassaké) la complicità di Ankara era tutto meno che un esercizio di fantasia. Ma a quanto sembra la manina inopportuna non era l’unica.

In base ai primi accertamenti, le fonti curde hanno denunciato un ruolo, oltre che dell’intelligence turca, anche di quella siriana.

Iniziato il 20 gennaio, l’assalto operato dallo Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Daesh) veniva se non stroncato sul nascere, perlomeno ridotto ai minimi termini. Purtroppo aveva avuto il tempo di provocare “danni collaterali” non irrilevanti. Sono almeno una cinquantina (ma il bilancio potrebbe accrescersi) i caduti tra membri di FDS, Asayish e civili curdi accorsi volontariamente per contrastare l’operazione jihadista.

Dopo mesi di sostanziale menefreghismo per la sorte delle popolazioni (curde, ma non solo) del nord e dell’est della Siria sottoposte all’occupazione o comunque agli attacchi dell’esercito e dell’aviazione turca, l’Occidente è parso ridestarsi e prendere coscienza che la minaccia dell’Isis/Daesh non era stata definitivamente cancellata.

Per cui, non detto ma pensato, anche la presenza curda recuperava spessore e spazio sui media. Perlomeno come argine al fanatismo degli estremisti islamici.

Se pur lentamente, emergono le prime connessioni - interne ed estere - che hanno reso operativo il progetto per liberare i circa 5mila detenuti (membri o sostenitori di Daesh) rinchiusi a Sina. E tutte invariabilmente conducono ad Ankara o a Damasco. O magari a entrambe.

Si tratta di elementi, indizi riguardanti le riunioni preliminari, le varie fasi di pianificazione, gli obiettivi individuati dalla banda degli assalitori. Non si sarebbe trattato quindi di un’azione pianificata esclusivamente dall’Isis, ma di una complessa operazione con il sostegno - come dire: bilaterale - proveniente dall’esterno del gruppo jihadista (per quanto questo sia presumibilmente infiltrato come un colabrodo da servizi vari).

A quanto sembra, condizionale sempre d’obbligo, l’operazione potrebbe essere stata decisa e pianificata in Turchia.

I membri di Daesh catturati dalle FDS avrebbero confessato che era stata preceduta da una lunga preparazione (almeno sette -otto mesi) e che le riunioni di pianificazione si sarebbero tenute a Serêkaniyê (Ras al-Ain) ossia in un’area attualmente sotto occupazione turca. Vi avrebbero partecipato membri di varie “cellule dormienti” sia locali che provenienti dalla Turchia. E tutte indistintamente sarebbero state rifornite di adeguati armamenti.

Dato che tra i prigionieri si trovavano diversi esponenti di alto livello dell’organizzazione terrorista, è evidente che l’operazione rivestiva una certa importanza.

Per prima cosa, con qualche mese di anticipo, vari esponenti dell’organizzazione terrorista, sia individualmente che in piccoli gruppi, erano venuti ad abitare nel quartiere di Gweiran / Xiwêran, dove sorge la prigione (una ex scuola provvisoriamente adibita a carcere) e in quello di Heyî Zihur.

Nel comunicato delle FDS del 25 gennaio si legge che “almeno 200 esponenti dello stato islamico si erano installati a Serêkaniyê, Girê Spî e Ramadî, in particolare nel quartiere di Gweiran e nei dintorni del carcere”. 

Contemporaneamente anche i detenuti si organizzavano per la rivolta.

Va ribadito che in maggioranza si tratta di persone addestrate alla guerra e di origine straniera (“muhajir” ossia “migranti”, termine utilizzato per indicare i miliziani stranieri che combattono per Daesh). Persone che - in genere - i rispettivi Paesi di provenienza si rifiutano di riportare in patria.

Il primo veicolo imbottito di esplosivo era stato posto in prossimità dello svincolo di una condotta petrolifera (moltiplicando quindi la potenza dell’attentato) mentre venivano bloccate le strade d’accesso al carcere.

Altri veicoli, ugualmente riempiti con materiale esplodente, colpivano la porta della prigione e l’edificio delle Forze di autodifesa ( Erka Xweparastinê).

Entravano allora in azione anche le “cellule dormienti” precedentemente installate nel quartiere. Catturando alcuni civili (da usare come ostaggi o scudi umani) e abbattendo un muro della prigione con una ruspa. Una volta entrati, distribuivano le armi ai detenuti islamisti e prendevano altri ostaggi tra il personale del carcere.

La priorità per le FDS e per le forze della sicurezza interna (Asayish) è stata quella di proteggere i civili. Nel contempo circondavano (bloccandone a loro volta le vie d’accesso) e mettevano in sicurezza (procedendo all’evacuazione degli abitanti) i quartieri di Gweiran e di Heyî Zihur.

Al momento sarebbero circa 200 (per almeno tre quarti facenti parte delle “cellule dormienti” esterne al carcere) gli esponenti di Daesh uccisi in cinque giorni di combattimenti. Alcune centinaia degli evasi poi sono già stati ripresi.

Quello che sta emergendo, sia dalle prove raccolte che dalle testimonianze e dagli interrogatori, è un probabile ruolo di Ankara e Damasco nell’orchestrare il grave episodio.

Tra gli “indizi” (ma messi tutti in fila acquistano le sembianze di prove) a sostegno della tesi di un diretto coinvolgimento di Turchia e Siria: le armi - della NATO - con numeri di serie turchi trovate in mano ai terroristi dell’Isis; la registrazione di telefonate dei membri di Daesh in prigione con la Turchia; le confessioni di quellicatturati mentre cercavano di rientrare a Serêkaniyê (sotto l’ombrello turco); le carte d’identità siriane di recente emissione in mano ai miliziani jihadisti; l’incremento di attività del regime siriano nella regione… 

Altri elementi, altre prove, assicurano le FDS saranno presto messi a disposizione dell’opinione pubblica. Nel giro di qualche giorno.

Stando ai piani preliminari, l’attacco avrebbe dovuto svolgersi ancora in ottobre o novembre, in coincidenza con un ennesimo attacco turco nel nord e nell’est della Siria e con il previsto rafforzamento dei suoi presidi e avamposti militari nelle zone già occupate.

Proprio in ottobre Erdogan si era consultato sia con Biden che con Putin ed è plausibile pensare che non ne abbia ottenuto il tacito assenso per l’ulteriore invasione.

Un contrattempo (per Ankara e Daesh beninteso) a cui se ne aggiunse presto un altro. Quando le FDS avevano individuato e arrestato alcune “cellule dormienti” a Hesekê e Raqqa ricevendo da uno dei caporioni arrestati la confessione che il loro obiettivo era il carcere di Hesekê. Un progetto quindi apparentemente disinnescato dall’operazione delle FDS, ma in realtà solo rinviato.

Altra coincidenza. Con un tempismo perfetto, al momento dell’attacco jihadista al carcere, l’esercito e l’aviazione turchiattaccavano simultaneamenteZirgan, Tel Tamer (da dove avrebbero potuto intervenire agevolmente in sostegno a Daesh) e Ain Issa causando vittime tra i civili.

Questo per quanto riguarda Ankara. E Damasco?

Rimane sempre a guardare mentre il territorio della Siria viene occupato da forze straniere? In realtà prima dell’attacco jihadista si era registrata un’intensa attività militare dell’esercito siriano proprio a Hesekê. Ma soprattutto era andata intensificandosi una violenta campagna diffamatoria nel confronti dell’amministrazione autonoma (AANES) delle FDS sui media siriani filogovernativi. Inevitabile collegare tutto ciò ai recenti incontri tra il MIT (intelligence turca) e il Mukhabarat (intelligence siriana).

Un riavvicinamento tra i rispettivi servizi (ostili e su fronti opposti per molte questioni, ma sostanzialmente concordi nei confronti del “pericolo curdo”) che li aveva visti confrontarsi alla fine di dicembre (stando almeno a quanto riportava la stampa turca) in Giordania, ad Aqaba. Sempre basandoci su quanto scrivevano i giornali turchi, nel corso della riunione si sarebbe discusso anche di “operazioni congiunte nel nord-est della Siria” e in particolare di “un’operazione militare turca per la profondità di 35 chilometri in revisione agli accordi di Adana; la sollevazione delle tribù (in chiave anti curda, ca va sans dire, come ci aggiornano regolarmente alcuni siti rosso-bruni italici nda) a Deir ez-Zor, Hesekê  e Raqqa; la liberazione dei detenuti nelle prigioni e la ricostruzione di Aleppo”. 

Sempre sulla stampa turca - e quindi la cosa va presa con beneficio d’inventario - si suggeriva che Mosca e Damasco apparivano interessati, favorevolmente, alle richieste turche.

UN COMPLOTTO ANNUNCIATO CONTRO L’AMMINISTRAZIONE AUTONOMA

Qualche giorno prima, il 22 dicembre 2021, c’era stata la dichiarazione congiunta dell’ultima (per ora, siamo già alla diciassettesima) riunione di Astana tra Russia, Turchia e Iran.

Con cui si stabiliva che le parti interessate erano concordi nell’”opporsi alle attività separatiste che minacciano la sicurezza nazionale dei paesi vicini all’est dell’Eufrate”. Inoltre venivano definite “illegali” (anzi, un vero e proprio “sequestro”) i redditi provenienti dal petrolio siriano. Con un evidente riferimento al fatto che i curdi, dovendo comunque sopravvivere e tenere in piedi l’amministrazione autonoma, le milizie di autodifesa e soprattutto garantire prezzi calmierati (sia del pane che del combustibile) alla popolazione, si rivendono il petrolio. Del resto perché non dovrebbero farne uso visto che sgorga su quei territori dove convivono con arabi, turcomanni, armeni e altre popolazioni? Territori, ricordo, liberati dalla presenza di Daesh soprattutto grazie al sacrificio di migliaia di curdi delle YPG.

Per chi vuole intendere, se pur dietro un linguaggio formalmente corretto, il messaggio era chiaro.

Ora, secondo i curdi, in questa dichiarazione si intravedono i presupposti per un autentico complotto contro l’amministrazione autonoma (AANES) e il Rojava. In caso di vittoria dell’operazione al carcere di Hesekê è probabile che la Turchia sarebbe intervenuta da Tell Tamer (da nord) mentre Damasco avrebbe attaccato da Tabqa, Raqqa e Deir ez- Zorsud (da sud). Così come si era probabilmente stabilito nell’incontro tra il MIT e il Mukhabarat.

Magari con la scusa di porre fine al massacro (facilmente prevedibile se Daesh non fosse stata fermata in tempo) da loro stessi promosso, previsto e forse pianificato.

Se la pronta, coraggiosa risposta delle FDS ha impedito comunque un disastro ben peggiore, rimane il dubbio che a conti fatti quanto è accaduto possa ugualmente portare acqua al mulino dei due regimi.

Potrebbe infatti fornire il pretesto (non solo a Damasco e Ankara, ma anche a Mosca e Teheran) per accusare l’amministrazione autonoma di incapacità e inadeguatezza. Di essere esposta ai rigurgiti di Daesh. Prima alimentati e innescati, poi strumentalizzati come alibi per “riportare l’ordine” in Rojava.

A nostra consolazione, va ricordato che i curdi hanno dimostrato ancora una volta di essere un osso duro. Non solo per i cani rabbiosi di Daesh, ma anche per i mastini di Ankara e Damasco.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 25/1/2022 - 14:49


NEL ROJAVA CONTINUA LO STILLICIDIO: ALTRI CURDI (COMBATTENTI E CIVILI) ASSASSINATI DAI DRONI TURCHI






Gianni Sartori






Non è semplice seguire il quasi quotidiano stillicidio di attacchi turchi contro i curdi in zone densamente popolate del Rojava (nonostante gli accordi del 2019, sottoscritti da USA e Russia in quanto garanti, per un cessate-il-fuoco). Tra i feriti che soccombono nei giorni successivi in qualche ospedale e i comunicati delle FDS che rivelano i nomi delle vittime identificate, si rischia semplicemente di perdere il conto.

Nell’ultimo, per ora, massacro operato dall’esercito di Ankara (il 10 agosto nel villaggio di Mulla Sibat, nei pressi di a Qamishlo) hanno perso la vita due combattenti delle Forze Democratiche Siriane (Djwar Kobani e Jia Qamishlo) e un civile (Adeeb Youssef) che si prodigava per soccorrerli.

Contemporaneamente l’esercito turco bombardava ripetutamente una quarantina di villaggi nella regione di Jazira e uccideva almeno una dozzina di persone in quella di Ayn Issa. Molti di più i feriti, tra cui donne e bambini.



Il 9 agosto erano state uccise quattro persone (e molte altre ferite) per un attacco con i droni sulla strada di Hîzam (sempre nel Rojava). In precedenza altre quattro, in circostanze analoghe, nel quartiere di Sîna a Qamishlo.

Tra i feriti l’esponente del PJAK ((Partiya Jiyana Azad a Kurdistanê – Partito per una vita libera in Kurdistan) Yusif Mehmud Rebanî (Rêzan Cawîd), poi deceduto.

Si trovava nel Rojava per conoscere di persona le realizzazioni del Conferalismo democratico e dell’Autonomia., Fondato nel Kurdistan “iraniano” (Rojhelat) nel 2004, il PJAK dal 2007 fa parte del Koma Civakên Kurdistan (Unione delle comunità del Kurdistan), così come il PKK, il PYD, il Partito per una soluzione democratica del Kurdistan “iracheno” (Bashur) e altre organizzazioni della società civile curda.



L’8 agosto i droni avevano colpito nei pressi del villaggio di Cirnikê a Qamishlo. In un comunicato le Forze democratiche siriane (FDS) dichiaravano che 4 membri delle forze di autodifesa erano stati uccisi e 3 feriti. E continuava sostenendo che “l’esercito invasore turco ha recentemente cercato di creare paura e caos nel nostro popolo con attacchi pesanti e disumani. Come Forze democratiche siriane ribadiamo ancora una volta che proteggeremo il nostro popolo e le sue conquiste in ogni circostanza, non importa quale sia il costo, e vendicheremo i nostri martiri”.

Una dichiarazione, sia in curdo che in arabo, del Consiglio per gli affari interni della regione di Cifre era stata letta dai co-presidenti Kenan Berekat e Hemrîn Elî. Appellandosi alla comunità internazionale e in particolare al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per condannare“questi atti immorali contro l’umanità” e per una interdizione ai droni e agli aerei turchi nello spazio aereo del Rojava. Allo scopo di impedire “il massacro quotidiano di civili e combattenti”.

Rivolgendosi al proprio popolo, i due co-presidenti avevano chiesto di “affiancarsi all’amministrazione autonoma e ai combattenti nello spirito della Resistenza e della guerra
popolare rivoluzionaria”.


Il 6 agosto veniva colpito dai droni un veicolo civile nel quartiere di Al-Sina a Qamishlo (quattro morti, di cui due bambini e due feriti gravi)

Il giorno prima, sempre per gli attacchi dei droni, avevano perso la vita quattro combattenti delle FDS: Hevin Osman (nome di battaglia: Dilsuz Terbaspi), Ali al-Muslat, Maher al-Ozbah e Mohiuddin Ibrahim.

Invece il 4 agosto a essere bombardata era stata la città di Tall Rifat nel cantone di Shehba, nel nord della Siria. Risultato, una decina di feriti gravi tra cui diversi bambini: Dîna Osman (6 anni), Mehmedû Xerîb Mamo (6 anni), Hisên Cemal Qasim (7 anni), Avrîn Ebdurehman Heyder (13 anni), Arîvan Mihemed Ebdo (15 anni), Ronahî Silo (27 anni) et Hisên Beyrem Eglo (43 anni).

Per quanto isolata rispetto al resto delle ragione autonoma, Tall Rifat è ancora amministrata dall’AANES. Ma purtroppo questa città -insieme a Mambij -sembra già essere nel mirino di Erdogan come prossima tappa dell’invasione turca. Nel cantone di Shehba hanno trovato rifugio gran parte degli sfollati (rifugiati interni) provenienti da Afrin, invasa nel 2018.

A Tall Rifat il 19 luglio 2022 un drone turco aveva ucciso anche due soldati dell’esercito di Damasco.

Ancora nell’area di Shehba, il 26 luglio, era stata gravemente ferita mentre lavorava nei campi una ragazza di diciassette anni, Fehime Fewzi Reşo. Immediatamente trasportata in un ospedale di Aleppo, era deceduta il 1 agosto.

Sempre il 26 luglio nel cantone di Shehba venivano colpite e ferite altre sei donne (quelle accertate) che si trovavano al lavoro nelle campagne.

E, procedendo a ritroso, si potrebbe continuare a lungo. Negli ultimi mesi, forse in vista di un’ulteriore invasione, la Turchia ha intensificato gli attacchi contro il Nord e l’Est della Siria.

Nel frattempo vanno aumentando anche le violazioni dei diritti umani nelle aree già sotto occupazione turco-jihadista.

Tutto questo nell’indifferenza - ca va sans dire - della comunità internazionale e senza che le due grandi potenze qui presenti (non certo disinteressatamente) intervengano imponendo una no-fly zone per fermare la mano, o meglio i droni, di Erdogan.
Come da manuale prosegue l’espulsione forzata della popolazione curda che Ankara intende sostituire con coloni sunniti (siriani, ma non solo, anche palestinesi) attualmente in Turchia.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 11/8/2022 - 11:39


ANCORA BOMBE TURCHE SUL ROJAVA
Gianni Sartori


Sia come sia, alla fine il criminale attentato di Istanbul del 13 novembre (su cui aleggia il legittimo sospetto di un’operazione da manuale di “strategia della tensione” del tipo “falsa bandiera”) ha fornito a Erdogan il pretesto che gli mancava. Consentendogli di rompere gli indugi e riprendere i bombardamenti sul nord della Siria in maniera estesa e intensiva.

Già nella tarda serata del 19 novembre fonti locali denunciavano come diverse località curde in aree frontaliere con la Turchia fossero bersaglio dell’aviazione turca.

In particolare nelle regioni di Kobane, Tirbespiye, Derik e Shehba. 

Stessa musica nel nord dell’Iraq (Bashur) dove i caccia di Erdogan colpivano le regioni di Qandil, Shengal e Sulaymaniyah.

Più intensi comunque - almeno in questa fase - i bombardamenti nel nord della Siria dove si sono protratti incessantemente per tutta la notte tra sabato 19 e domenica 20 novembre.  Puntando con ogni evidenza soprattutto a obiettivi civili come ospedali e scuole.

Tra le prime vittime finora accertate, due civili che viaggiavano in auto nei pressi del villaggio di Teqil Betil a Dêrik.

Dopo questo primo attacco i bombardamenti riprendevano mentre la gente si prodigava nell’aiutare i numerosi feriti.

Nel secondo bombardamento su Teqil Betil altre sette persone perdevano la vita (tra cui il giornalista Isam Ebdullah dell’agenzia di stampa Hawar News).

Altre sei vittime (3 civili e tre soldati siriani) nel corso dei bombardamenti su alcuni magazzini per la conservazione del grano nei villaggi di Til Hermel e di Dehril Ereb (Dahir al-Arab, a nord di Zirgan nella regione di Hassaké). E anche in questo caso si contano numerosi feriti.

Sempre nel corso della notte tra il 19 e il 20 novembre l’aviazione turca ha infierito a lungo nella regione di Kobane.

Bombardando la strada che porta a Jarablus, il quartier di Kaniya Kurdan, il villaggio di Helinc e soprattutto Miştenûr.

Questa città, così come le colline circostanti, sono state nuovamente bombardate nella mattinata del 20 novembre con la conseguente totale distruzione dell’ospedale.

Invece gli attacchi sul villaggio di Şewarxa (distretto di Şera di Afrin) sembravano indirizzati (non è dato di sapere se intenzionalmente) sulle posizioni delle truppe di Damasco. Qui avrebbero perso la vita una decina di militari a cui vanno aggiunti numerosi feriti.

Il Consiglio Democratico Curdo in Francia (CDK-F) ha emesso un comunicato di ferma condanna. Esortando inoltre le Nazioni Unite, la Coalizione internazionale anti-EI, l’Unione Europea, la Francia e gli Stati Uniti ad agire affinché il loro alleato turco “si comporti coerentemente con i propri impegni internazionali, in conformità con il Diritto internazionale, mettendo fine agli attacchi contro il popolo curdo”.

Nel comunicato si sottolinea come “ancora prima di aprire un’inchiesta, il regime turco ha accusato le Unità di difesa del popolo e delle donne del Rojava (YPG-YPJ) e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Nonostante le Forze democratiche siriane (FDS) e il PKK avessero duramente condannato l’attentato e smentito qualsiasi implicazione”.

Quella in corso non è certo la prima campagna di aggressione nei confronti del popolo curdo (e, temo, difficilmente sarà l’ultima). Campagna che, secondo il CDK-F, avrebbe lo scopo di “distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica turca dalla crisi che tormenta il Paese da almeno due decenni”.

Quanto al Bashur (il Kurdistan posto entro i confini iracheni), dal 17 aprile viene ripetutamente attaccato e - stando ai dati forniti dai curdi - qui sarebbero state impiegate le armi chimiche in ben 2700 occasioni. Non solo. L’esercito turco avrebbe dato alle fiamme i cadaveri dei suoi stessi soldati per mascherare in qualche modo il numero effettivo delle perdite subite.

E’ presumibile che al recente G20 di Bali, Erdogan abbia ottenuto l’atteso “semaforo verde” per attaccare nuovamente e in grande stile il Rojava. Da chi? Sempre presumibilmente, da quella Coalizione internazionale contro l’Esercito islamico (e soprattutto dagli USA) che stavolta  potrebbe girarsi dall’altra parte. Non sarebbe la prima del resto.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 20/11/2022 - 18:48




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