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História pra ninar gente grande

Estação Primeira de Mangueira
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OriginalTraduzione italiana e note / Tradução italiana e notas / Italian t...
HISTÓRIA PRA NINAR GENTE GRANDENINNA NANNA PER ADULTI
  
Brasil, meu négoBrasile, tesoro mio,
Deixa eu te contarLascia che ti racconti
A história que a história não contaLa storia che la Storia non racconta
O avêsso do mesmo lugarL'opposto dello stesso posto
Na luta é que a gente se encontraÈ nella lotta che ci si trova
  
Brasil, meu dengoBrasile, dolcezza mia
A Mangueira chegouÈ arrivata la Mangueira
Com versos que o livro apagouCon versi cancellati dai libri
Desde 1500Fin dal 1500
Tem mais invasão do que descobrimentoC'è più invasione che scoperta
Tem sangue retinto pisadoC'è sangue negro calpestato
Atrás do herói emolduradoDietro l'eroe incorniciato
Mulheres, tamoios, mulatosDonne, tamoios [1], mulatti
Eu quero um país que não está no retratoVoglio un paese non da cartolina
  
Brasil, o teu nome é DandaraBrasile, il tuo nome è Dandara [2]
Tua cara é de caririHai la faccia da cariri [3]
Não veio do céuNon è venuta dal cielo
Nem das mãos de IsabelE né dalle mani di Isabel [4]
A liberdade é um dragão no mar de AracatiLa libertà è un drago nel mare di Aracati [5]
  
Salve os Caboclos de JulhoSalve, Meticci di Luglio [6]
Quem foi de aço nos anos de chumboEcco chi fu d'acciaio in quegli anni plumbei
Brasil, chegou a vezBrasile, stavolta è ora
De ouvir as Marias, Mahins, Marielles, MalêsDi Ascoltare le Marie, le Mahin, le Marielle, i Malês [7]
  
Mangueira, tira a poeira dos porõesMangueira, spolvera gli scantinati
Ô, abre alas pros teus heróis de barracõesOh, apri i porticati dei templi ai tuoi eroi da baraccone
Dos Brasis que se faz um país de Lecis, JamelõesDel multiforme Brasile [8] che diventa un paese di Leci [9], di Jamelão [10],
São verde-e-rosa as multidõesSono verdi e rosa, le folle.
[1] I Tamoios erano la tribù indigena che abitava la costa da Santos a Espírito Santo (ci andarono giù pesi i colonizzatori portoghesi con la nuova toponomastica cattolica...) al tempo della “scoperta”, nell'esatto anno 1500. I Tamoios erano una tribù di etnia Tupi: tutte le tribù (Tupiniquim, Tupinambá, Potiguara, Tabajara, Caetés, Temiminó, Tamoios...) parlavano la medesima lingua, ma non risulta che si riconoscessero in un'identità comune. Praticavano tutte un'agricoltura piuttosto avanzata. Tra tutte le tribù, i Tamoios si facevano notare per il loro spirito bellicoso e per il valore in guerra.

[2] Dandara è stata una guerriera afro-brasiliana del periodo coloniale del Brasile. Faceva parte del Quilombo dos Palmares, un insediamento di afro-brasiliani liberatisi da soli dalla schiavitù nell'attuale stato di Alagoas, dopo una rivolta e una dura lotta. Dandara fu catturata il 6 febbraio 1694, e si suicidò piuttosto che tornare ad essere schiava. Rimane una figura misteriosa: non molto si sa della sua vita, nonostante si siano formate su di lei leggende che narrano tutto e il contrario di tutto. Era la sposa di Zumbi dos Palmares, l'ultimo re del Quilombo, da cui aveva avuto tre figli. La lotta di liberazione del gruppo di schiavi venne condotta da uomini e donne per difendere Palmares, il luogo dove si erano rifugiati e stabiliti nella Serra da Barriga (un'area quasi inaccessibile a causa della vegetazione impenetrabile). Padrona delle tecniche della Capoeira, combatté in parecchie battaglie; si ignora se fosse nata in Brasile o in Africa.

[3] Il riferimento è agli indios della famiglia linguistica cariri (diversa da quella Tupi), formata da diverse etnie che occupavano una grossa area del Nordest brasiliano. Il testo si riferisce più in particolare alla Confederação dos Cariris, nota anche come “Guerra dei Barbari” (Guerra dos Bárbaros), un movimento di resistenza indigena al dominio portoghese a cavallo tra il XVI e il XVII secolo. Furono coinvolte soprattutto etnie cariri dell'attuale stato del Ceará, ma anche del Rio Grande do Norte, del Pernambuco e del Paraíba.

Lo storico Luiz Antônio Simas li ha descritti come “valorosi combattenti contro la presenza portoghese. Furono decimati in una guerra condotta dai bandeirantes comandati da Domingo Jorge il vecchio, lo stesso che combatté a Quilombo dos Palmares” (v. nota 2). Secondo Leandro Vieira, l'autore di questo testo, “I cariri erano talmente coraggiosi e ben organizzati, che lo stato coloniale dovette richiamare le truppe che combattevano a Quilombo dos Palmares per contenere l'avanzata degli indios”.

In ultimo, da segnalare la curiosa evoluzione del termine cariri nei dialetti del Brasile settentrionale: significa “sforzo, fatica”. Un'evoluzione nata probabilmente dalle fatiche durate per sconfiggere i cariri secoli prima.

[4] Nel 1888, l'anno prima della fine dell'Impero Brasiliano (l'imperatore Pedro II fu deposto nel 1889, se ne andò in esilio a Parigi e fu instaurata la Repubblica), la principessa Isabel firmò la cosiddetta Lei Áurea (Legge Aurea) con la quale si aboliva la schiavitù in tutto il Brasile. Ma già quattro anni prima, nel 1884, lo stato del Ceará la aveva abolita motu proprio; rimando a questo punto alla successiva nota 5.

[5] Francisco José do Nascimento, noto come “Chico da Matilde” (“Cecco della Matilde”, si direbbe in italiano; la Matilde era sua madre), di mestiere faceva il pilota di zatteroni. Vissuto tra il 1839 e il 1914 nello stato del Ceará (v. nota 4), fu un combattente per l'abolizione della schiavitù. Si guadagnò l'appellativo di “Drago del Mare” (Dragão do Mar), cui si fa preciso riferimento nel testo, dopo aver guidato una rivolta di piloti di zattere per impedire che i porti del Ceará fossero utilizzati per l'imbarco e lo sbarco degli schiavi. La sua frase più celebre fu: “Nei porti del Ceará non si imbarcano più schiavi”. Era nato a Canoa Quebrada, nel distretto di Aracati (il “Mare di Aracati” nel testo); oltre a guidare la rivolta degli zatteristi, accolse schiavi in casa sua e agì per la diffusione del movimento abolizionista nel Ceará, facendogli acquistare una grande forza e rendendolo una figura mitica. E' grazie a lui, e non alle “mani di Isabel” (v. sempre la nota 4) che la schiavitù fu abolita in Brasile e, primo di tutti (1884) proprio nel Ceará. Chico da Matilde è ancora oggi un simbolo di resistenza popolare. A Fortaleza, il centro artistico e culturale della città è stato chiamato Centro Dragão do Mar in suo onore.

[6] Con “Meticci di Luglio” si fa riferimento agli indigeni che lottarono nella guerra di indipendenza brasiliana nello stato di Bahia. Tuttora, in questo stato, il “caboclo” (propriamente: “bruno, abbronzato”, dal tupi caaboc) è il simbolo dell'indipendenza dalla corona portoghese. Il Brasile la ottenne il 2 luglio 1823 (per questo i meticci, o indigeni, sono “di Luglio”), anche se era stata proclamata un anno prima, nel 1822, da Dom Pedro I che assunse poi nientepopodimeno che il titolo di Imperatore. In quell'anno si svolsero battaglie sanguinose contro i portoghesi che non accettavano la secessione della colonia.

La storica Heloisa Starling ha affermato che “nel Bahia si trattò di un movimento molto interessante, perché ebbe una chiara partecipazione popolare. Il Bahia è orgoglioso di avere riunito indios, schiavi liberati, bianchi e vari settori della società brasiliana nella lotta che portò al 2 luglio. Il meticcio è una rappresentazione simbolica della presenza degli indios in questa lotta.”

[7] Prima di ogni altra cosa, è in questo verso (quasi interamente dedicato a figure femminili) che si fa l'unico reale riferimento a Marielle Franco.

Non ho reperito purtroppo nessun dato certo su “Maria”. Si tratta comunque quasi sicuramente di una schiava.

“Mahin” è Luiza Mahin, considerata come un'importante leader nei movimenti contro la schiavitù nello stato di Bahia all'inizio del XVIII secolo, e combattente nella rivolta dei Malês (v. infra), un'insurrezione di schiavi che scoppiò a Salvador de Bahia nel 1835. “Mahin” non è un cognome, ma un appellativo etnico: si riferisce ai Mahi, popolazione africana del Benin, dalla quale Luiza discendeva. Non si sa se fosse nata in Brasile o nella Costa da Mina, la regione africana sul Golfo di Guinea dalla quale proveniva la maggior parte degli schiavi deportati in Brasile e nel resto dell'America Latina.

La biografia di Luiza Mahin si confonde tra storia e leggenda. Sarebbe stata comunque una schiava che era riuscita a comprarsi la libertà pagandola con il suo commercio di specialità gastronomiche a Salvador, che lei stessa preparava con sapienza culinaria. Luiza Mahin è ritratta nel romanzo storico Um defeito de cor di Ana Maria Gonçalves, e oggetto di studi storici da parte di João José Reis, l'autore del saggio Rebelião escrava no Brasil. Il fatto è che Reis, il maggiore studioso della rivolta dei Malês, non ha reperito alcun riferimento certo su di lei, intendendo un riferimento documentale; a suo parere, Luiza Mahin può essere “un misto tra una figura realmente esistita, fantasia narrativa e mito libertario”.

Il poeta abolizionista Luiz Gama tentò di farla passare per sua madre in una lettera in cui la descriveva come una donna “dalla pelle nerissima e secca” e con “denti bianchissimi come la neve”, “superba, geniale, insofferente e vendicativa”. Ma secondo la storica Heloisa Starling, si tratterebbe di una pura invenzione di Luiz Gama. Luiza Mahin resta comunque una figura simbolica e importante per il movimento abolizionista.
Con Malês (termine derivato dalla lingua hausa málami “professore; signore”, o dallo yoruba imale “musulmano”) si indicavano, nel Brasile del XIX secolo, i negri musulmani che conoscevano la lingua araba e la sapevano scrivere. Quasi sempre erano assai più istruiti e colti dei loro padroni e, nonostante la loro condizione di schiavi, non erano affatto sottomessi. Nella storia brasiliana, sono stati i protagonisti della “Rivolta dei Malês” che ebbe luogo nel 1835 nel Bahia, dove viveva la loro maggior parte.

Tra il XVI e il XIX secolo non esistette alcuna libertà religiosa in Brasile. Chi non era cattolico, doveva convertirsi; la repressione fu durissima. In un primo momento, i Malês resistettero alla conversione forzata, cercando di mantenere la loro fede e la loro cultura. Si servivano principalmente di una resistenza spirituale (dissimulazione religiosa), già utilizzata dai musulmani sciiti: l'al' tagiyya (“guardarsi” in arabo), così chiamata dai teologi islamici.

I Malês erano stati deportati in Brasile a cominciare dalla fine del XVIII secolo, venduti dai vincitori di guerre locali. Una gran quantità arrivò in seguito alla guerra dichiarata nel 1804 dallo sceicco Usman Dan Fodio (1754-1817), leader islamico dei Ful (fulani, fulƂe nella lingua locale) contro gli Hausa. Quasi tutti erano originari del Sudan, ed appartenenti a vari gruppi etnoculturali. In Brasile furono conosciuti, oltre che come Malês, anche come Mussurumim. Si convertirono fintamente al cattolicesimo, continuando a praticare in segreto la loro fede ancestrale.

La rivolta del 1835 scoppiò durante il Ramadan. Sconfitti e massacrati per le strade di Salvador, dovettero lottare in diversi casi anche contro l'ostilità di altri schiavi. Tra i superstiti, molti riuscirono a tornare in Africa, stabilendosi nel Benin. Tra chi rimase in Brasile, alcuni se ne andarono a Rio de Janeiro, e altri rimasero a Salvador dove persero gradualmente la loro identità culturale e religiosa, e la conoscenza dell'arabo.

[8] Così ho reso l'originale dos Brasis, letteralmente “dei Brasili”, che però presenta un verbo al singolare (que se faz um país). E' un Brasile veramente multiforme quello che si presenta qui davanti agli occhi; multiforme ma che è un tutt'uno inestricabile.

[9] Il riferimento è a Leci Brandão.

[10] Qui il riferimento è invece a Jamelão, vale a dire José Bispo Clementino dos Santos (1913-2008), un altro importantissimo e tradizionale interprete di sambas-enredo della scuola Mangueira. Ne fu interprete dal 1949 al 2006, e dal 1952 interprete principale. E' morto all'età di 95 anni pur essendo diabetico grave e iperteso. In queste due figure, Leci e Jamelão, Leandro Vieira riassume il “multiforme Brasile”, la sua storia cancellata e le sue lotte, e contemporaneamente fa un omaggio al samba di scuola Mangueira visto come espressione e fabbrica di resistenza sociale e memoria storica. Non è un caso che a Jaír Bolsonaro il samba piaccia molto poco.


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