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װאַרשע

Bentsion Vitler [Ben-Zion Witler] / בנציון וויטלער
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Traduzione inglese dal sito di Wolf Krakowski.
VARSAVIAWARSAW
  
Nel mio cuore brucia un focherelloIn my heart burns a flame
per ciò che non c'è più. *1.For that which is no longer—
La via Krochmalna, la via Nalewki,Krochmalne and Nalewki Streets,
la via Smocza, la via Lazieński. *2And Smocza and Lazienski.
Chassidim, benpensanti,Hasidim, the well-to-do,
sionisti e bundisti *3Zionists, Bundists
si battagliavano senza sosta.Struggled ceaselessly.
Voglio provare a dimenticare, oggi,Today I will try to forget
quel che il nemico ti ha fatto,What the enemy did to you,
e dirti adessoAnd I assure you
con fiducia sconfinata:With boundless confidence:
  
Varsavia mia, sarai di nuovoMy Warsaw, you will once again be
una città ebraica come allora.A Jewish city as before.
Varsavia mia, sarai di nuovoMy Warsaw, you will once again be
piena di fascino e grazia ebraica. *4Full of Jewish charm and grace.
  
Sotto gli alberi verdiUnder green trees
i piccoli Mosè e Salomoni *5Moysheles and Shloymeles
vivranno e sogneranno come prima.Will live and dream as before.
Fabbrichette, laboratori,We will rebuild
scuole e sinagoghe, *6Factories, workshops,
noi le ricostruiremoSchools and synagogues.
per avere come un tempoWisdom and culture
saggezza e cultura. *7Once again shall flourish.
Com'era bella la tua vita ebraica!How beautiful your Jewish life used to be!
  
Varsavia mia, sarai di nuovoMy Warsaw, you will once again be
ebraica davvero come allora.Truly Jewish as before.
Varsavia mia, sarai di nuovoMy Warsaw, you will once again be
piena di fascino e grazia ebraica.Full of Jewish charm and grace.
NOTE alla traduzione

[1] Alla lettera: “per ciò che è via” [avek].

[2] Nella canzone, Ben-Zion Witler nomina parecchie delle strade del ghetto di Varsavia, col loro nome polacco (“yiddishizzato” nel testo originale, ma riportato qui nella forma polacca autentica). Una di esse è famosissima nella letteratura mondiale: nella via Krochmalna, infatti, dal 1908 al 1917 aveva abitato (al n° 10) il futuro vincitore del Premio Nobel per la letteratura Isaac Bashevis Singer (il quale, peraltro, ha sempre scritto in yiddish). Singer è stato l'autentico cantore della via Krochmalna e della vita che vi si svolgeva.

[3] Qui sono nominate le principali correnti della vita della Varsavia ebraica: i chassidim (ebrei ortodossi), i “benpensanti” (nigidim) che erano i principali oppositori dei chassidim e desideravano l'integrazione con la vita nazionale polacca, i sionisti che propugnavano il ritorno in Palestina e i “bundisti”, vale a dire i socialisti del Bund (“Lega”) seguaci di Theodor Herzl. Quel che è da mettere però in risalto, è che tutti questi termini sono espressi mediante dei diminutivi (come fossero “chassidini, benpensantucci, sionistini, bundistelli” eccetera). Si tratta di una cosa del tutto propria dello yiddish, lingua nel quale il diminutivo esprime tutto e tutto viene espresso mediante diminutivi. E', naturalmente, una cosa del tutto intraducibile: in yiddish il diminutivo -oltre ad essere usato in senso proprio- esprime tutta una serie di sentimenti che vanno dalla comunanza all'ironia, dall'affetto alla critica, dallo spregio alla complicità; e altri ancora. Non è raro che gli abitanti dei ghetti e degli shtetl parlassero di se stessi, ed anche tra loro, come yidelekh (singolare: yidl), vale a dire “ebreucci”. E' possibile mettere il suffisso del diminutivo, in yiddish, a ogni cosa: sostantivi, aggettivi, avverbi (yitstl “proprio ora, ora-ora”) e persino verbi. Il fatto che l'autore qui usi il diminutivo indica, chiaramente, quel senso di comunità che esisteva nel quartiere ebraico di Varsavia; ma anche l'affetto ed il rimpianto che, in quel momento, l'autore provava per qualcosa di irrimediabilmente scomparso.

[4] Il termine kheyn è ebraico: “fascino, grazia”. O meglio, tutte e due le cose assieme. Altra parola legata indissolubilmente all'ambiente, e quindi del tutto intraducibile; la si potrebbe rendere meglio, forse, col francese “charme”.

[5] “Mosè” (Moyshe) e “Salomone” (Shloyme) sono fra i nomi ebraici più comuni e indicano quindi gli “ebrei” tout court. Anche qui, naturalmente, messi al diminutivo (Moyshelekh, Shloymelekh). La cosa non significa necessariamente che si tratti di bambini, anche se è possibile; è, ancora una volta, segno di comunanza e affetto per le figure che popolavano il quartiere.

[6] Altra serie di diminutivi. Per “fabrikelekh” si può usare almeno in un caso il diminutivo italiano “fabbrichette”: in spazi ristrettissimi come quelli dei ghetti era impossibile avere alcunché di grande. Per “laboratori” (ovvero: piccoli laboratori) lo yiddish usa un ebraismo, melokhe (al diminutivo: melikhl, plurale melikhelekh). Il termine significa però anche "lavoro, impiego" tout court, e si potrebbe quindi rendere anche con "lavoretti": una parola davvero "napoletana", che indica l'arte di arrangiarsi. Quel che viene tradotto con “scuole”, khadorimlekh è in realtà il kheyder (plurale: khadorim, altro ebraismo), vale a dire le scuole tradizionali religiose ebraiche nelle quali si insegnavano ai bambini la lingua ebraica e il Talmud in preparazione al bar mitzvà. Nei ghetti dell'Europa orientale, i bambini andavano a scuola, in generale, a quattro anni di età. Viceversa, il termine di derivazione tedesca, shul (da Schule), indicava generalmente la “sinagoga”: alle sinagoghe era annessa la scuola superiore, quella dove si perfezionavano il Talmud e la Torah.

[7] L'ebraismo khokhme è una parola nella quale è presente davvero l'anima dello scomparso ebraismo est-europeo. Il termine significa, infatti, sia “saggezza” (come qui ho tradotto), sia “scherzo, ironia”. Come dire: l'unica vera saggezza si manifesta con l'ironia, e l'ironia è segno di acquisita saggezza. Non c'è da aggiungere altro. Si noti l'uso parallelo della parola tedesca Kultur: anche nel ghetto di Varsavia, gli ebrei tendevano alla cultura secolarizzata e all'inserimento nelle correnti culturali europee, che significavano principalmente: acquisizione della lingua e della cultura tedesca. La maggior parte degli ebrei est-europei studiavano e conoscevano perfettamente il tedesco, strumento necessario per l'arricchimento culturale; lo parlavano però, di solito, con un terribile accento yiddish, in particolare con la famosa "erre moscia" ashkenazita che è trasmigrata come caratteristica fonetica nell'ebraico moderno.

Il modo in cui sono stati ripagati è evidente.


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