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En arribent a Peccais

anonimo
Lingua: Occitano


Lista delle versioni e commenti



‎[fine 800]‎
Canto in occitano dei lavoratori provenienti dalle Cévennes, nel Massiccio Centrale francese, ‎impiegati come giornalieri nelle saline di Peccais, nei pressi di Aigues-Mortes, in Linguadoca.




Molti degli immigrati italiani che lavoravano nelle saline di Peccais/Aigues-Mortes erano ‎piemontesi e sicuramente capirono e forse anche intonarono questa canzone dei loro compagni ‎francesi…‎

Nella salina, stampa dell’epoca.‎<br />
Nella salina, stampa dell’epoca.‎

Peccato che nel corso de La Guerre de Cent mille ans che i ricchi fanno ai poveri spesso la solidarietà di classe ha ‎lasciato il posto al razzismo e allo scontro tra gli sfruttati…‎
Così avvenne nell’agosto del 1893 ad Aigues-Mortes: 9 morti accertati, parecchi dispersi, un ‎centinaio di feriti, tutti lavoratori italiani immigrati, massacrati a colpi di pietre e randelli dai loro ‎compagni francesi e dagli abitanti del luogo.‎
Questa la ricostruzione dell’episodio dalla pagina su cui ‎ho anche trovato questo canto, sul sito dello scrittore siciliano Enzo Barnabà che, insieme allo ‎storico francese Gérard Noiriel, si è occupato di questo triste e terribile episodio quasi dimenticato ‎sotto le sabbie della politica e del tempo.‎
Al proposito si vedano: E tutti va in Francia; Gérard Noiriel, “Le massacre des Italiens”, Fayard, 2010; Enzo ‎Barnabà, “Morte agli italiani!”, Infinito edizioni, 2001.‎

Hanno fatto in modo di occupare letti vicini nel camerone dell’ospizio. Gli altri ‎sono stati condotti alla stazione e fatti salire su un treno che li ha riportati in Italia. Loro quattro ‎facevano parte di coloro che erano troppo malconci per poter partire; man mano che, dopo lunghe ‎ore di tormenti, andavano sfuggendo agli aggressori venivano portati in quel sinistro edificio dove ‎si erano ritrovati. Provengono dalla stessa zona ed in salina lavoravano insieme. Sono Andrea ‎Marino di Vinadio, Giovanni Giordano di Vernante, Antonio Cappello di Tenda, Angelo Camerano ‎di Borgo S. Dalmazzo. Il più vecchio è Giovanni che ha ventiquattro anni, il più giovane è Andrea ‎che di anni ne ha appena diciotto.‎

In primavera, avevano lasciato i loro paesi per “andare all’avventura” in Francia. Così facevano in ‎tanti: per rimpinguare col lavoro stagionale i meschini proventi dei campi o per sfuggire ‎definitivamente alla vita grama cui sembravano predestinati. Andrea, Giovanni ed Angelo avevano ‎attraversato il tunnel del Tenda aperto da dieci anni, il primo a piedi, l’altro sul carro di un ‎contadino che si recava a Briga e l’ultimo, il più fortunato, sulla corriera (dodici lire per il posto di ‎seconda classe, sette cambi di cavalli e quattordici ore di viaggio per percorrere i 118 chilometri che ‎lo separavano dal mare). Per tutti e quattro, infatti, la prima tappa era stata Nizza. Poi, in treno, ‎verso la grande città industriale: Marsiglia. Qui avevano trovato lavoro; chi in una fabbrica di ‎laterizi, chi come manovale nell’edilizia, chi nell’industria chimica. A luglio avevano saputo che ad ‎Aigues-Mortes, un paese al di là della pianura della Camargue, reclutavano operai per la stagione ‎del sale e che, lavorando sodo, in un paio di settimane si potevano mettere da parte anche duecento ‎lire: di che tornare in paese con un vestito e un paio di scarpe nuove.‎

Lunedì 7 agosto, sul vagone che li porta verso le paludi salmastre, si sono fiutati, riconosciuti e sono ‎diventati amici. L’indomani, a Peccais fanno parte della stessa squadra: cinque franchi al giorno ‎undici ore di lavoro estenuante. Accanto a loro, un gruppo di operai provenienti dalle Cévennes, ‎sfoga la propria rabbia intonando un feroce canto occitano che parla con eloquenza anche al loro ‎cuore: “En arribent a Peccais”.‎

Tutto cambia il 16 agosto, quando si passa alla fase successiva. Adesso si lavora a cottimo e gli ‎operai vanno su e giù come automi spingendo carriole stracolme. C’è tensione perché alcuni ‎francesi,cui quel mattino è stata negata l’assunzione, si sentonodefraudati di un lavoro che pensano ‎spetti prioritariamente a loro. I pimo (questo lo sprezzante epiteto riservato ai piemontesi), inoltre, ‎vengono accusati di imporre ritmi infernali a causa della loro sete di guadagno. Qua e là scoppiano ‎litigi per futili motivi. Durante la pausa di mezzogiorno, una pietra colpisce il capanno degli italiani ‎che interrompono il pranzo e vanno a chiedere conto e ragione ai colleghi transalpini che stanno ‎mangiando nella loro baracca. Ha luogo una sorta d’assedio al grido di “Viva l’Italia, abbasso la ‎Francia!”. Tra i più esaltati proprio Giovanni Giordano che strilla più degli altri agitando un ‎forcone. L’intervento della forza pubblica riporta una calma che si rivelerà soltanto apparente e che ‎non permetterà in ogni caso la ripresa dell’attività.‎

L’indomani mattina gli italiani aspettano gli operai francesi per cominciare il lavoro. Giungono ‎invece i gendarmi che li rinchiudono nella loro baracca per proteggerli da una banda di ‎malintenzionati che stanno arrivando dal paese. Eccoli, infatti, spuntare all’orizzonte. Man mano ‎che si avvicinano ci si rende conto che si tratta di una vera e propria folla che urla parole di morte, ‎armata di quanto ha potuto trovare: randelli, forconi, sassi. Qua e là si vede luccicare anche qualche ‎pistola e qualche fucile. I gendarmi vengono travolti e la baracca presa d’assalto. Sfondato il tetto, ‎inizia una spietata lapidazione. Angelo si accascia al suolo con la spalla frantumata da una grossa ‎pietra.‎

Dopo un’ora di quel sadico tiro al bersaglio, si riesce a calmare gli assalitori offrendo loro ‎l’espulsione degli italiani, che saranno subito accompagnati alla stazione. Il ripugnante corteo parte ‎allora in direzione della città con i feriti sorretti dai loro compagni. I più scalmanati si insinuano tra ‎i gendarmi e colpiscono con violenza. Giovanni con un piccolo gruppo fugge in direzione delle ‎vigne che si vedono in lontananza. Vengono inseguiti. Il giovane vernantese viene acciuffato, ‎buttato a terra e randellato brutalmente. “Non è morto” esclama uno degli aggressori dopo alcuni ‎minuti “bisogna finirlo” – “No, basta” gli risponde un altro impietosito. E vanno via lasciandolo ‎tramortito in una pozza di sangue.‎

Il corteo avanza a fatica. Quando le mura della città cominciano a farsi più nitide e si spera che il ‎calvario stia per finire, si vede uscire dalla Porta della Regina una grossa banda preceduta da un ‎tamburo e da una bandiera. Presi tra due fuochi, per gli italiani non c’è scampo. Antonio, il ‎tendasco, viene colpito da un forcone, cade a terra e si finge morto accanto a corpi ansimanti. Dopo ‎una buona mezz’ora di caccia all’uomo, si riesce a mettere assieme quello che resta del gruppo e si ‎riparte alla volta della stazione. Sotto le mura però, una nuova frotta di aggressori si scaglia ‎all’attacco. “Enormi pietre vengono lanciate da ogni lato” scriverà un magistrato “ad ogni passo si è ‎obbligati a lasciare per terra vittime indifese che forsennati, con indicibile efferatezza, finiranno a ‎randellate”. E ancora: “Come bestie portate al macello, gli italiani si sdraiano sulla strada, sfiniti, ‎aspettando la morte, lapidati, storditi, lasciando ad ogni passo uno dei loro”. Tra di essi, Andrea il ‎ragazzo di Vinadio.‎

Adesso, nel camerone dell’ospizio, si raccontano quello che hanno visto e non sanno dar risposta ‎agli interrogativi che si pongono. Nel cortile sono allineati sette cadaveri. È la notte del 18 agosto. ‎L’afa e i dolori che trafiggono le loro membra non danno tregua. La luce fievole della candela lascia ‎intravedere i volti tumefatti di due compagni (“non potevano aprire gli occhi né parlare e quasi non ‎avevano più figura umana”, dirà il console italiano). I rantoli ininterrotti aggiungono sofferenza alla ‎sofferenza. ‎

Verso la mezzanotte, si sentono rumori provenienti dal cortile. Giovanni riesce ad avvicinarsi alla ‎finestra. Vede e riferisce. È arrivato un prete accompagnato da un uomo e seguito da due carretti. In ‎gran fretta, le salme vengono benedette, le bare inchiodate e senza indugio, clandestinamente, il ‎lugubre, assurdo corteo si avvia alla volta del cimitero. I quattro amici non possono immaninare che ‎al processo che si svolgerà in dicembre nessuno degli assassini sarà punito. Il solo colpevole che la ‎corte d’assise individuerà sarà proprio Giovanni Giordano, beffardamente condannato per resistenza ‎alla forza pubblica.‎

Ha un senso evocare oggi questi drammi di collettiva follia che si sono svolti nel 1893? […] ‎
A una simile domanda, lo storico non può rispondere che affermativamente. E non solo per l’ovvio ‎richiamo all’onestà intellettuale: nessuna pagina di storia, per nessun motivo, può essere insabbiata; ‎gli armadi devono contenere abiti e non scheletri. La memoria è anche trampolino verso il futuro. ‎Ricordare permette infatti di esaminare nella giusta luce nodi del presente. E poi, siamo sicuri che il ‎sonno delle erinni che ci portiamo dentro sia ormai divenuto eterno? Che le terribili dee non ‎possano risvegliarsi quando meno ce lo aspettiamo?





Ils ont fait en sorte d’occuper des lits voisins dans la grande salle de l’hospice. ‎Les autres ont été emmenés à la gare où on les a fait monter dans un train qui les a reconduits en ‎Italie. Eux quatre faisaient partie de ceux qui étaient trop en piteux état pour pouvoir partir ; au fur ‎et à mesure qu’après de longues heures de tourments ils échappaient à leurs agresseurs, ils étaient ‎emmenés dans ce sinistre bâtiment où ils s’étaient retrouvés. Ils proviennent de la même région et ‎au salin ils travaillaient ensemble. Ce sont Andrea Marino de Vinadio, Giovanni Giordano de ‎Vernante, Antonio Cappello de Tende et Angelo Camerano de Borgo S. Dalmazzo. Le plus âgé est ‎Giovanni qui a vingt-quatre ans, le plus jeune est Andrea qui n’en a que dix-huit.‎

Au printemps, ils avaient quitté leurs villages et ils étaient partis pour l’aventure en France. Ceux ‎qui pratiquaient cela étaient nombreux: afin de renflouer les revenus dérisoires des champs par le ‎travail saisonnier ou bien échapper à jamais à l’existence lamentable à laquelle ils semblaient ‎prédestinés. Andrea, Giovanni et Angelo avaient traversé le tunnel de Tende, qui était ouvert depuis ‎dix ans ; le premier à pieds, le second dans le chariot d’un paysan qui se rendait à la Brigue et le ‎dernier, le plus chanceux, en diligence (douze lires pour la place de deuxième classe, sept relais de ‎chevaux et quatorze heures de voyage pour parcourir les 118 kilomètres qui le séparaient de la ‎mer). Nice, en effet, avait été la première étape des quatre. Après, ils avaient continué en train en ‎direction de Marseille, où ils avaient trouvé du travail dans une briqueterie, dans le bâtiment en tant ‎que manœuvre et dans l’industrie chimique. En juillet, ils avaient su qu’à Aigues-Mortes, au-delà de ‎la plaine de la Camargue, on cherchait des ouvriers pour la saison du sel et qu’en travaillant dur en ‎quinze jours on pouvait économiser jusqu’à deux cents lires: de quoi rentrer au village avec un ‎costume et une paire de chaussures neuves.‎

Lundi 7 août 1893, dans le wagon qui les emmène vers les marais salants ils se sont étudiés, ‎reconnus et ont fraternisé. Le lendemain à Peccais ils font partie de la même équipe : cinq francs par ‎jour pour onze heures de travail épuisant. A côté, un groupe de Cévenols exhale sa rage en occitan, ‎dans un chant farouche qui sait aussi parler à leur cœur: “En arribent a Peccais”‎

Tout change le 16 août lorsqu’on passe à la deuxième phase du travail. Maintenant on est payé à la ‎tâche et les ouvriers vont et viennent comme des automates en poussant des brouettes débordantes. ‎Il y a de la tension dans l’air parce que des Français, qui n’ont pas été embauchés le matin, ont le ‎sentiment d’avoir été frustrés d’un travail qui leur revenait en priorité. Les pimos (c’est l’épithète ‎méprisante que l’on réserve aux Piémontais), sont accusés d’imposer des cadences infernales à ‎cause de leur soif d’argent. Des disputes à propos de futilités éclatent çà et là. Pendant la pause de ‎midi, une pierre atteint la baraque des Italiens qui arrêtent le repas et vont demander des comptes ‎au Français. Une sorte de siège de la baraquede ces derniers a lieu, au cri de « Vive l’Italie, à bas la ‎France ! ». Parmi les plus exaltés se fait remarquer Giovanni Giordano qui crie plus que les autres et ‎agite une fourche. L’arrivée de la force publique ramène un calme apparent qui, de toute façon, ne ‎permettra pas de se remettre à l’œuvre.‎

Le lendemain matin, les Italiens attendent les ouvriers français pour pouvoir reprendre le travail. ‎Mais ce sont les gendarmes qui arrivent et qui les renferment dans leur baraque pour les protéger ‎d’une bande de malintentionnés qui vont arriver depuis Aigues-Mortes. Les voilà en effet pointer à ‎l’horizon. Au fur et à mesure qu’ils s’approchent, on se rend compte qu’il s’agit d’une véritable ‎foule qui lance des cris de mort, armée de gourdins, fourches et pierres. Ici et là on voit aussi reluire ‎quelques pistolets et quelques fusils. Les gendarmes sont dépassés et la maison est prise d’assaut. ‎Le toit est défoncé et une lapidation impitoyable commence. Angelo s’affaisse sur le sol, l’épaule ‎brisée par une grosse pierre.‎

Après une heure de ce tir à la cible sadique, on arrive à calmer les assaillants en leur promettant ‎l’expulsion des Italiens qui seront aussitôt accompagnés à la gare. Le rebutant cortège part alors en ‎direction de la ville, les blessés soutenus par leurs camarades. Les plus enragés se faufilent parmi ‎les gendarmes et frappent violemment. Un petit groupe, dont Giovanni, s’échappe en direction des ‎vignes que l’on aperçoit dans le lointain. Le jeune homme est attrapé, terrassé et rossé brutalement. ‎‎«Il n’est pas mort» s’exclame un des agresseurs quelques minutes plus tard « il faut l’achever » - ‎‎« Non, ça suffit » lui répond un autre atteint de pitié. Et ils s’en vont le laissant évanoui dans une ‎mare de sang.‎

Le cortège avance à grand peine. Lorsque les remparts de la ville se font plus nets et que l’on espère ‎que le calvaire sera bientôt fini, on voit sortir par la Porte de la Reine une grosse bande précédée ‎d’un tambour et d’un drapeau. Pris entre deux feux, pour les Italiens il n’y a pas de salut. Le jeune ‎tendasque, est atteint d’un coup de fourche, tombe par terre et feint d’être mort à côté d’autres ‎corps qui halètent. Après une bonne demi-heure de chasse à l’homme, on arrive à réunir ce qui reste ‎du groupe et on repart en direction de la gare. Sous les remparts, toutefois, une nouvelle meute ‎d’agresseurs se lance à l’attaque. « Des pierres énormes sont jetées de tous côtés » écrira un ‎magistrat « à chaque pas on est forcé de laisser sur le sol des victimes sans défense que des forcenés ‎viendront, avec une sauvagerie sans nom, achever à coups de matraque ». Et encore « Comme des ‎bêtes qu’on mène à l’abattoir, les Italiens se couchent sur la route, épuisés, attendant la mort, ‎lapidés, assommés, laissant à chaque pas un des leurs ». Parmi eux, Andrea, le garçon de Vinadio. ‎
‎ ‎
Maintenant, dans la chambrée de l’hospice, ils se racontent ce qu’ils ont vu et n’ont aucune réponse ‎aux questions qu’ils se posent. Dans la cour, sept cadavres sont alignés. C’est la nuit du 18 août. La ‎chaleur étouffante et les douleurs qui transpercent leurs membres ne donnent aucun répit. La faible ‎lumière de la bougie laisse entrevoir les visages tuméfiés de deux de leurs compagnons (« ils ne ‎pouvaient ouvrir les yeux ni parler et ils n’avaient presque plus d’aspect humain » dira le consul ‎italien). Les râles qu’on émet sans cesse tout autour ajoutent de la souffrance à la souffrance.
Vers minuit, on entend des bruits provenant de la cour. Giovanni réussit à s’approcher de la fenêtre. ‎Il voit et rapporte. Un curé accompagné d’un homme et suivi de deux charrettes, est arrivé. En toute ‎hâte, les corps sont bénis, les cercueils cloués et sans plus tarder, dans la clandestinité, l’absurde et ‎lugubre cortège s'achemine vers le cimetière. Les quatre amis ne peuvent imaginer qu’au procès, en ‎décembre, aucun des assassins ne sera puni. Le seul coupable que la cour reconnaîtra sera Giovanni ‎Giordano, condamné pour résistance à la force publique. ‎

Y a-t-il un sens à évoquer aujourd’hui ces drames de folie collective qui se sont déroulés en 1893? ‎‎[…]‎
L’historien ne peut que répondre par l’affirmative à une telle question. Et non seulement par ‎l’évidente mise en cause de la notion d’honnêteté intellectuelle : aucune page de l’histoire, pour ‎aucune raison, ne peut être enterrée ; les armoires se doivent de garder des habits et non pas des ‎squelettes. La mémoire est aussi un tremplin vers le futur. Elle nous permet d’examiner dans la juste ‎lumière des nœuds du présent. Et par ailleurs, sommes-nous sûrs que le sommeil des érynies que ‎nous portons en nous est devenu éternel ? Que les terribles déesses ne peuvent pas se réveiller au ‎moment où l’on s’y attend le moins ?
En arribent a Peccais
lo baile nos demanda
lo baile nos demanda
se volem travalhar

Que lo tron de Dieu
que cure cante Peccaissiana
Chau aver tuat paire e maire
per anar a Peccais

En arribent a l’ostau
la femna tòca la borseta
tòca la borseta
d’argent n’i aviá pas cap

Que lo tron de Dieu
que cure cante Peccaissiana
Chau aver tuat paire e maire
per anar a Peccais

Se la Repubblica sabiá la vida
que nos fan faire
farián brular Peccais
Christ e mai cure baile

inviata da Dead End - 12/3/2013 - 13:09




Lingua: Francese

Traduzione francese di Enzo Barnabà
EN ARRIVANT À PECCAIS

En arrivant à Peccais
le chef nous demande
le chef nous demande
si nous voulons travailler

Que le tonnerre de Dieu
qui emporte tout, chante la chanson de Peccais‎
Il faudrait avoir tué père et mère
pour aller à Peccais

En arrivant à la maison
la femme tâte la bourse
tâte la bourse
de l’argent il n’y en avait pas‎

Que le tonnerre de Dieu
qui emporte tout, chante la chanson de Peccais‎
Il faudrait avoir tué père et mère
pour aller à Peccais

Si la République savait la vie
qu’on nous fait mener
elle ferait brûler Peccais‎
le Christ et enverrait au diable le chef‎

inviata da Dead End - 12/3/2013 - 13:09




Lingua: Italiano

Traduzione italiana di Enzo Barnabà
ARRIVANDO A PECCAIS

Arrivando a Peccais
il capo ci chiede
il capo ci chiede
se vogliamo lavorare

Che il tuono di Dio
che tutto porta via canti la canzone di Peccais
Bisognerebbe aver ucciso padre e madre
per andare a Peccais

Arrivando a casa
la moglie tasta la borsa
tasta la borsa
e soldi non ce n’erano

Che il tuono di Dio
che tutto porta via canti la canzone di Peccais
Bisognerebbe aver ucciso padre e madre
per andare a Peccais

Se la Repubblica sapesse la vita
che ci fanno fare
farebbe bruciare Peccais
Cristo e manderebbe al diavolo il capo

inviata da Dead End - 12/3/2013 - 13:10


Quella strage in Francia degli immigrati italiani

Fabio Gambaro intervista lo storico Gérard Noiriel
da La Repubblica del 14 gennaio 2010‎

“Le ‎massacre des Italiens. Aigues-Mortes, 17 août 1893” (Fayard, 2010), il libro dello storico Noiriel ‎sul pogrom del 1893 nelle saline della Provenza.‎
“Le ‎massacre des Italiens. Aigues-Mortes, 17 août 1893” (Fayard, 2010), il libro dello storico Noiriel ‎sul pogrom del 1893 nelle saline della Provenza.‎




«Il più grande pogrom della storia francese contemporanea. Un emblema della xenofobia di ‎tutti i tempi».‎

E´ in questi termini che Gérard Noiriel presenta «il massacro degli italiani», vale a dire la terribile ‎caccia all´uomo che il 17 agosto del 1893 si abbatté sui nostri immigrati impiegati nelle saline ‎d´Aigues-Mortes, in Provenza. Una giornata di follia collettiva e di violenza feroce che fece 9 morti ‎accertati, oltre cinquanta feriti e una quindicina di dispersi i cui corpi non vennero mai ritrovati. A ‎quell´episodio a lungo rimosso dalla storiografia ufficiale, Noiriel considerato il maggior specialista ‎francese della storia dell´immigrazione dedica oggi uno studio completo e documentatissimo, Le ‎massacre des Italiens (Fayard, pagg. 291, euro 20, da ieri in libreria), che ricostruisce nei minimi ‎dettagli la dinamica di quelle violenze, la realtà dell´immigrazione italiana e soprattutto «lo ‎scandalo di un processo che, malgrado tutte le prove accumulate, assolse tutti gli imputati».‎
Il massacro degli italiani rimase infatti impunito e in seguito l´episodio fu a lungo dimenticato da ‎una parte come dall´altra delle Alpi. «All´epoca, tra Italia e Francia vi fu un violento scontro ‎diplomatico, ma poi, per evitare che la situazione degenerasse in conflitto internazionale, entrambi i ‎paesi preferirono insabbiare la vicenda», spiega lo studioso francese, per il quale troppo spesso gli ‎italiani sembrano dimenticare i loro molti antenati emigrati all´estero. «Da allora, quel massacro fu ‎rimosso dalla memoria collettiva. Innanzitutto in Francia, dove nessuno voleva ricordare quella ‎pagina vergognosa della storia nazionale, i cui responsabili non furono i rappresentanti dello stato, ‎ma dei normali cittadini. Paradossalmente però l´episodio fu dimenticato anche in Italia, forse ‎perché per gli italiani l´emigrazione è un fenomeno poco valorizzante, vissuto sempre con un ‎sentimento di vergogna».‎

Cosa successe esattamente?
‎«Tutto nacque da un dissidio legato al lavoro nelle saline. I giornalieri francesi, per lo più ‎emarginati e vagabondi, non riuscivano a stare al passo con il ritmo di lavoro degli stagionali ‎italiani, che venivano quasi tutti dal Piemonte ed erano lavoratori infaticabili. Il sentimento ‎d´umiliazione dei francesi alimentò una prima rissa che poi degenerò, innescando la caccia ‎all´uomo contro gli italiani, che furono inseguiti e attaccati da una folla inferocita. All´iniziale ‎rivalità economica, si sovrappose il richiamo alla nazionalità che servì a giustificare e strutturare la ‎violenza. Così, anche gli abitanti d´Aigues-Mortes, che inizialmente erano indifferenti alla sorte dei ‎giornalieri francesi, si associarono alle violenze contro gli italiani. Furono pochissimi coloro che ‎cercarono di aiutare gli immigrati a mettersi in salvo».‎

La xenofobia fu quindi il motore del massacro?
‎ «Per chi non possiede nulla il richiamo all´identità nazionale diventa l´unico bene di cui andare ‎fieri. Allora come oggi, chi si sente ai margini della società trova nella nazionalità un modo per ‎valorizzarsi. Da qui il sentimento di superiorità nei confronti degli stranieri. E quando per caso gli ‎immigrati riescono meglio dei nazionali, questi provano un grandissimo sentimento d´ingiustizia. ‎Ad Aigues-Mortes, la violenza divenne ancora più feroce, quando i francesi videro che i gendarmi ‎cercavano di proteggere gli italiani. Va poi ricordato che per i più deboli, la violenza contro gli ‎immigrati e il discorso xenofobo sono spesso un modo per contestare l´ordine dello stato. Ancora ‎oggi affermare la propria xenofobia è un modo per sfidare i benpensanti e le istituzioni».‎

Come si svolse il processo?
‎«I magistrati cercarono di rispettare le forme della legalità, ma al contempo avvalorarono l´idea che ‎le responsabilità andassero condivise tra italiani e francesi. Ad esempio, accusarono di tentato ‎omicidio Giovanni Giordano, che potremmo considerare il primo clandestino della storia di Francia, ‎dato che all´epoca era già stato espulso una volta dal territorio francese. Insomma, i magistrati ‎manipolarono il processo, ma i giudici popolari si spinsero ancora più in là, giacché assolsero tutti ‎gli imputati francesi, dando così sfogo al risentimento popolare nei confronti degli immigrati ‎italiani».‎

Quali erano le caratteristiche dell´immigrazione italiana?
‎«Gli italiani furono i protagonisti della prima grande stagione dell´immigrazione in Francia. Verso ‎la fine del secolo, proprio a causa delle molte violenze e delle molte ingiustizie subite, gli arrivi ‎dall´Italia rallentarono, ma ripresero all´inizio del XX secolo, quando gli italiani divennero la più ‎importante comunità straniera in Francia. L´immigrazione italiana, che all´inizio è stagionale e ‎provvisoria, tende in seguito a diventare sempre più stabile, trovando opportunità di lavoro ‎soprattutto nel mondo rurale e nel settore delle costruzioni».‎

L´immigrazione italiana era sentita come un problema?
‎«Nel decennio precedente il massacro di Aigues-Mortes, si cristallizzano tutti gli stereotipi sugli ‎immigrati italiani, considerati una minaccia e una realtà non assimilabile nella società francese. In ‎passato, c´erano stati diversi episodi di violenza, che avevano coinvolto sia dei francesi che degli ‎immigrati, ma non erano mai stati considerati come un problema politico legato all´opposizione tra ‎francesi e italiani. L´immigrazione in quanto tale non era un problema. E´ solo a partire dal 1881, ‎dopo alcuni incidenti a Marsiglia, che l´immigrazione diventa un problema politico. Naturalmente ‎sono le élite vale a dire i politici, i giornalisti che fabbricano le rappresentazioni collettive relative ‎agli stranieri, che poi vengono adottate e interpretate in vario modo nei diversi ambiti della società. ‎Gli italiani furono i primi a subire un discorso apertamente xenofobo, in seguito l´ostilità si sposterà ‎verso altre comunità di stranieri».‎

Oggi come viene percepita l´immigrazione italiana?
‎«Alla fine dell´Ottocento, i francesi vedevano negli italiani un elemento di corruzione dell´identità ‎francese. Oggi quell´immagine è radicalmente cambiata. Il ricordo dell´immigrazione italiana viene ‎idealizzato. Gli italiani sono diventati un esempio d´immigrazione riuscita che ha saputo integrarsi ‎felicemente nella società francese. E addirittura c´è chi ad esempio, lo storico e scrittore Max Gallo ‎rivendica l´origine italiana come una componente dell´identità francese. In realtà, tale visione ‎idealizzata dell´immigrazione italiana viene spesso utilizzata per stigmatizzare la nuova ‎immigrazione proveniente dall´Africa e dal mondo arabo. All´epoca però agli italiani venivano fatti ‎gli stessi rimproveri mossi oggi agli immigrati non europei. I tempi cambiano, ma la diffidenza nei ‎confronti degli stranieri riprende sempre gli stessi discorsi».

Dead End - 12/3/2013 - 13:30




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