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Cappuccio rosso

Gianluca Grossi
Language: Italian


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(Gianluca Grossi)
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2017
L'abbiamo battezzata Cappuccio rosso e così la vogliamo ricordare. Ayse Deniz Karacagil, che alla condanna a 103 anni di carcere ha preferito il fronte: il Kurdistan, la lotta contro l'Isis. E ora l'onore di poterla celebrare con questa canzone. Ti sia lieve la terra, grandioso simbolo di libertà…
Sembrano luci di un giorno a Natale
Fuochi che infiammano Siria e Turchia
L'alba è lontana e la notte già trema
Non è caldura e nemmeno foschia

Strano cognome quel Karacagil
Spari che arrivano dal Kurdistan
Non il kalashnikov che si inceppò
E' un'altra e ben altra medaglia Erdogan

Gli alberi verdi del Gezi Park
Centotre anni di carcere appena
PKK e quel cappuccio rosso
Ventiquattro anni di botte e di pena

Strano cognome quel Karacagil
Spari che arrivano dal Kurdistan
Non il kalashnikov che si inceppò
E' un'altra e ben altra battaglia Erdogan

Complice il vento e un urlo assassino
Combattimenti da oriente e occidente
Liberazione per quando e per cosa
L'Isis che non si darà mai perdente

Strano cognome quel Karacagil
Spari che arrivano dal Kurdistan
Non il kalashnikov che si inceppò
E' un'altra e ben altra maniera Erdogan

E adesso riposa nel nome di Allah
Che a volte si muore, si muore davvero
Per un ideale però tutto cambia
Non ce ne saranno vestiti di nero

Strano cognome quel Karacagil
Spari che arrivano dal Kurdistan
Non il kalashnikov che si inceppò
E' un'altra e ben altra preghiera Erdogan

Contributed by Dq82 - 2019/1/26 - 19:05


ALTRI TRE PRIGIONIERI POLITICI CURDI MORTI NEL GIRO DI SEI GIORNI (Garibe Gezer, Abdülrezzak Şuyur et Halil Güneş)

Gianni Sartori

Quando il 13 dicembre del 1980 il giovanissimo militante del Türkiye Devrimci Komünist Partisi (Partito Comunista Rivoluzionario della Turchia) Erdal Eren venne impiccato, la sua vera età (16 anni) venne falsificata dalle autorità turche per poterlo giustiziare impunemente.

Il ragazzo era stato arrestato con una ventina di altri militanti di sinistra durante una manifestazione e accusato della morte di un soldato.

Colui che ne aveva patrocinato l’impiccagione ( e che non certo impropriamente venne definito il “Pinochet turco”), il generale golpista Kenan Evren, aveva così commentato: “Avremmo forse dovuto incarcerarlo e nutrirlo a vita invece di impiccarlo?”.

Quasi con le stesse parole veniva in questi giorni commentata la morte - il 9 dicembre nel carcere di Kocaeli - della prigioniera politica curda Garibe Gezer (già torturata e violentata dai suoi guardiani).

Alcuni media a favore di Erdogan si sono rallegrati per la sua morte scrivendo che ora “c’era una terrorista in meno da nutrire in carcere”.

Dopo Garibe altri due detenuti curdi (Abdülrezzak Şuyur e Halil Güneş) sono deceduti, rispettivamente il 14 e il 15 dicembre. Tre morti in sei giorni quindi.

Arrestato nel 1993, Abdülrezzak Şuyur aveva 56 anni ed è deceduto nella prigione di Sakran (provincia di Izmir) dove, nonostante fosse da mesi gravemente ammalato, sembra non sia stato curato. Due settimane fa aveva potuto incontrare i figli, ma in seguito di lui non si erano avute notizie. Invano un fratello si era recato al carcere per poterlo vedere. Così come erano rimaste lettera morta sia una richiesta di scarcerazione, vista la gravità della sua situazione, sia la richiesta di potersi curare in un ospedale esterno.

Il giorno dopo, il 15 dicembre, nella prigione di Diyarbakir moriva un altro curdo, Halil Güneş di 51 anni. Condannato all’ergastolo nel 1993, era da tempo gravemente ammalato.
La questione della situazione sanitaria dei detenuti in Turchia (soprattutto della mancanza di cure adeguate) è da tempo all’ordine del giorno. In ottobre l’Associazione dei Diritti dell’Uomo in Turchia (IHD) aveva nuovamente chiesto il rilascio almeno di quelli ammalati più gravemente (in particolare di Adem Amaç, Atilla Coşkun e Eser Morsümbül).
Richiesta comunque caduta nel vuoto nonostante siano ormai centinaia i prigionieri politici senza cure adeguate che continuano a languire (un supplemento di pena) nelle carceri turche.

Secondo IHD sarebbero 1.564 i prigionieri ammalati e per 591 di loro le situazione è estremamente grave. Ovviamente si tratta dei casi accertati, ma appare scontato che il numero reale sia ben più elevato.

E ovviamente per chi era già ammalato i rischi sono aumentati con la pandemia.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 2021/12/15 - 18:02


ANCHE DA MOSCA L’INVITO A ERDOGAN DI DARSI UNA CALMATA?

Gianni Sartori

La notizia (30 novembre 2022) arriva dall’Agence France-Presse, mentre l’informazione sarebbe stata fornita a AFP, oltre che da abitanti di Tal Rifaat, anche dall’ Osservatorio siriano dei diritti umani (OSDH).

La Russia (che sostiene il regime di Damasco) starebbe potenziando la propria presenza militare in alcune zone del Nord della Siria sotto il controllo in parte dei curdi, in parte dell’esercito di Bachar al-Assad. Zone in prossimità del confine turco e sotto perenne minaccia di attacco e invasione da parte di Ankara. Soprattutto da quando il 20 novembre è stata avviata una intensa campagna di raid aerei, costata in soli dieci giorni la vita a 75 combattenti curdi, oltre a una decina di civili e numerosi soldati siriani.

I rinforzi di truppe russe si andrebbero concentrando soprattutto nel territorio di Tal Rifaat, città a soli quindici chilometri dal confine turco.

Per certo aspetti un fatto inedito, da non prendere sotto gamba se pensiamo che Recep Tayyip Erdogan ha già dichiarato che la prevista offensiva di terra dovrebbe colpire principalmente proprio Tal Rifaa, oltre a Manbij e Kobane. Allo scopo di realizzare una “zona di sicurezza” profonda almeno trenta chilometri in territorio siriano.

Un cambio di marcia quello di Mosca?

Ricordo che solo qualche giorno fa (il 23 novembre) si era registrato un episodio poco esaltante per la Russia e il ruolo che Mosca aveva assunto in Siria (a difesa non solo del regime, ma anche dell’integrità territoriale del Paese).

Un drone turco aveva colpito due volte di seguito una base militare condivisa dalle Forze Democratiche Siriane e da militari russi nel quartiere di Al-Hamra (distretto di Tal Tamaar).

Uccidendo un militante curdo e ferendone altri tre.

Ma - evidentemente allertati - i russi si erano allontanati poco prima dell’attacco rientrando nella base a bombardamento concluso.

Non particolarmente dignitoso direi.

La situazione di Tal Rifaat è già difficile sin d’ora in quanto questa enclave sotto controllo curdo si trova praticamente circondata da zone occupate da un lato dall’esercito siriano, da milizie filo-turche dall’altro.

Sempre stando a quanto segnalato da AFP (in base alle informazioni fornite da OSDH) i Russi avrebbero posto i nuovi sbarramenti lungo la linea che divide i curdi dalle milizie pro Ankara. Avrebbero inoltre irrobustito la loro presenza militare nel vicino aeroporto di Menagh in mano alle truppe di Damasco.

Ancora più eclatante la notizia che altri rinforzi russi si starebbero concentrando intorno alla ben nota città curda di Kobane (altro prossimo obiettivo di Ankara) pattugliando l’area anche con l’ausilio di elicotteri.

Il 29 novembre i curdi avevano annunciato di aver richiesto alla Russia di alzare la voce con la Turchia allo scopo di farla desistere dai progetti di invasione terrestre. E in effetti era stato rivolto un appello a Erdogan di “trattenersi, moderarsi”.

Ora ci sarebbe proprio da augurarsi che questi movimenti di truppe russe siano di monito per Erdogan e contribuiscano, se non a impedire, almeno a ritardare e rallentare la probabile invasione turca del Rojava.

Gianni Sartori

gianni Sartori - 2022/11/30 - 19:24


Una prigioniera politica curda liberata dopo 30 anni di prigionia è stata nuovamente arrestata, ancor prima di uscire dal carcere.

Una vicenda che per certi aspetti ricorda quella di Ruth First nel Sudafrica dell’apartheid

IERI CON RUTH FIRST, OGGI CON SADIYE MANAP: REGIMI DIVERSI, STESSE METODOLOGIE REPRESSIVE

Gianni Sartori

Vi ricordate del film “Un mondo a parte”?

Con la protagonista che viene periodicamente arrestata per i suoi articoli e per il suo impegno contro l’apartheid (magari soltanto per aver partecipato al funerale di un militante morto sotto tortura), rimessa in libertà dopo qualche tempo e immediatamente, appena in strada, arrestata di nuovo ogni volta?

Il film ricostruiva la vita della militante antiapartheid Ruth First (esponete dell’ANC e del SACP, ricordata per la sua campagna contro i lasciapassare obbligatori per le donne e per il sostegno alle lotte dei minatori neri) vista da un’angolazione particolare, quella della figlia adolescente. Nella realtà Shawn Slovo, figlia di Ruth First e di Joe Slovo, aveva collaborato alla sceneggiatura tratta da un suo libro dedicato alla madre.

Qualcosa del genere è accaduto in questi giorni alla prigioniera politica curda Şadiye Manap. Liberata nella mattinata del 1 dicembre, dopo 30 anni di prigionia, è stata nuovamente arrestata ancora prima di lasciare il carcere.

All’età di 24 anni Şadiye Manap veniva giudicata dalla Corte per la sicurezza dello Stato (DGM ) e condannata all’ergastolo.

Ha trascorso questi 30 anni in varie prigioni (Riha, Midyat, Gebze…) dove, stando alle dichiarazioni di parenti e difensori, avrebbe subito maltrattamenti e torture.

Al momento non ha ancora potuto incontrare i suoi avvocati e si troverebbe in una cella di sicurezza del commissariato di Kocaeli. A causa, sembra, di una inchiesta aperta contro di lei nel 2020.

Altro per il momento non è dato di sapere.

Quanto a Ruth First, alla fine dovette lasciare il Sudafrica e venne assassinata nel 1982 mentre si trovava in esilio in Mozambico, presumibilmente in una operazione di “guerra sporca” dei servizi segreti sudafricani.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 2022/12/2 - 17:01


TUTTO COME PREVISTO: LA SVEZIA ESPELLE, LA TURCHIA IMPRIGIONA
Gianni Sartori

La notizia, diffusa dall’Agenzia Anadolu e ripresa da AFP, è fresca, di giornata (sabato 3 dicembre, ore 15.00).

Mahmut Tat, uno dei primi espulsi dalla Svezia in Turchia, dove stato condannato a circa sette anni per presunta appartenenza al PKK, è stato incarcerato (sempre il 3 dicembre) su ordine di un tribunale turco.

Rifugiato in Svezia dal 2015 (dove però la sua domanda d’asilo veniva respinta), era stato arrestato e rinchiuso in un centro di detenzione a Mölndal. Espulso e rinviato in Turchia, appena sceso dall’aereo, nella serata del 2 dicembre, lo hanno immediatamente arrestato e - il giorno successivo - portato in tribunale.

Ormai da mesi (da maggio per la precisione) la questione dei rifugiati curdi (ma anche dei turchi dissidenti) in Svezia e in Finlandia è all’ordine del giorno. Una sorta di ricatto imposto da Erdogan in cambio del suo consenso all’adesione dei due Paesi nordici alla Nato.

Stando alle dichiarazioni di alcuni alti esponenti della diplomazia turca, il nuovo governo svedese starebbe facendo “passi positivi” nella direzione auspicata da Ankara.

Per Mevlut Cavusoglu “il nuovo governo appare più determinato del precedente, sono avvenuti modifiche legislative importanti e noi vediamo tutto questo con soddisfazione”. Dato che la dichiarazione avveniva in margine alla riunione dei Paesi della Nato a Bucarest, è lecito ritenere che in qualche modo fosse stata concordata con gli altri esponenti.

Sarebbero oltre una trentina i rifugiati curdi in Svezia di cui la Turchia esige l’espulsione. Tra loro anche Amineh Kakabaveh, originaria del Rojhilat (il Kurdistan sotto amministrazione iraniana) che giovanissima si era unita all’organizzazione Komala. In seguito si era rifugiata in Svezia. Qui aveva dato vita all’organizzazione femminista e antirazzista Varken hora eller kuvad. Dal 2008 è deputata al Riksdag, il Parlamento di Stoccolma. Un primo segnale di disponibilità da parte della Svezia si era avuto in agosto, dopo (coincidenza ?) un incontro tra esponenti turchi, svedesi e finlandesi. Veniva infatti arrestato Zinar Bozkurt esponente del partito HDP (ma accusato da Ankara di far parte del PKK). In Svezia dal 2014, aveva denunciato pubblicamente, in varie interviste, di essere stato perseguitato in quanto curdo e omosessuale. 

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 2022/12/3 - 17:41


CURDI SENZA PACE: mentre il regime iraniano fa impiccare il prigioniero politico Mohiuddin Ebrahimi, nove combattenti curdi del Rojava muoiono in un incidente aereo

Gianni Sartori

Non so se un giorno (comincio a dubitarne in verità) accadrà che come auspicava Neruda “il popolo potrà salire dal mezzo della tormenta scatenata alla chiarità dell’universo”.

Ma qualora il sogno di tante generazioni di oppressi e sfruttati - e soprattutto ribelli ("in sé e per sé”) - dovesse realizzarsi, dovranno rivolgere uno sguardo grato a tutti coloro, in maggioranza “anonimi compagni”, che su questa strada impervia sono caduti. Talvolta  intere famiglie, come quella dei Cervi.

E’ questo anche il caso di Mohiuddin Ebrahimi, un prigioniero politico curdo di 43 anni impiccato nella prigione di Urmia (ROJHILAT, Kurdistan orientale sotto amministrazione iraniana) il 17 marzo. Due giorni prima (come informava il Kurdistan Human Rights Network) aveva potuto incontrare per l’ultima volta la sua famiglia prima di essere posto in isolamento in attesa dell’esecuzione.

Stando a quanto riportava l’agenzia di stampa Mezopotamya (MA), contemporaneamente venivano giustiziati altre sei curdi (Ferweher Abbasnejad, Mohammad Ayyubiyan, Jahanbaxş Radluyi, Yasin Raşidi, Hasam Omri e Nasrin Niyazi) detenuti per reati comuni (contrabbando o traffici illegali).

Stando ai dati ufficiali (presumibilmente in difetto) dall’inizio dell’anno sono quasi 150 le persone giustiziate in Iran.

Come avviene quasi sistematicamente per i prigionieri politici, il corpo di Ebrahimi non è stato restituito ai familiari e sepolto in una località tenuta segreta. La sera prima dell’esecuzione il figlio di Ebrahimi veniva arrestato davanti al carcere,  ma poi rimesso in libertà. Originario del villaggio di Alkawi (Oshnaviyeh / Shino) Muhyaddin Ebrahimi era stato ferito gravemente e arrestato il 3 novembre 2017 mentre lavorava come kolbar (“spallone”) sulla frontiera tra Iran e Irak. Processato senza nemmeno un avvocato d’ufficio il 20 agosto 2018 per “tradimento”, la condanna a morte gli era stata notificata il 23 septembre 2018.

Dopo il suo ricorso, veniva nuovamente sottoposto a giudizio e condannato a morte il 18 gennaio 2020 per “infedeltà e appartenenza al Partito Democratico del Kurdistan d’Iran”. Muhyaddin era già stato arrestato nel 2011 e detenuto per circa un anno sempre per presunta appartenenza al PDK-I. Suo fratello, Nurradin Ebrahimi, era stato ucciso dai soldati iraniani nel maggio 2018 durante un attacco nei pressi della frontiera (a Oshnaviyeh). E anche suo padre, Mohammad Bapir Ebrahimi, era stato ucciso dai “Guardiani della rivoluzione islamica”, i pasdaran.

Il 15 marzo nove curdi del Rojava, membri delle Unità antiterrorismo (Yekîneyên Antî Teror – YAT), hanno perso la vita nella provincia di Duhok (Kurdistan iracheno) per l’incidente di un elicottero.

I loro nomi sono stati divulgati dall’ufficio stampa delle Forze Democratiche Siriane (FDS):
Şervan Kobanê, Hogir Dêrik, Dîdar Dêrik, Feraşîn Baran, Koçer Dêrik, Rojeng Firat, Xebat Dirbesiyê, Harun Rojava e Doxan Efrîn.

Stando al comunicato delle FDS “durante un trasferimento dell’unità verso la città di Sulaymaniyah nella serata del 15 marzo 2023, due elicotteri che li trasportavano sono caduti per le cattive condizioni meteorologiche causando la morte di nove dei nostri combattenti guidati da Shervan Koban”.

Aggiungendo che “Le forze antiterroriste (integrate nella coalizione internazionale contro lo Stato islamico nda) hanno sacrificato i loro migliori combattenti e dirigenti nella guerra contro il terrorismo a Kobane, Raqqa e Deir Ezzor”.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 2023/3/19 - 10:48


Mentre le pressioni di Erdogan influenzano l’agire politico sia della Svezia che dell’Iraq, in Rojava le milizie filo turche incendiano i raccolti. Curdi quindi sempre sotto tiro, ma anche sempre indomiti. Per quanto “senza altri amici che le Montagne”.





RESISTENZA CURDA, ORA E SEMPRE!





Gianni Sartori





Curdi sempre all’ordine del giorno. Anche se talvolta - penso - ne farebbero anche a meno.
Nell’indifferenza (eufemismo) di cancellerie e media (in buona parte almeno) occidentali che proprio non sembrano vedere, rendersi conto del dramma che si va compiendo ai danni di questo popolo coraggioso.

Non dico di fornire gli F16 alle YPG, ma almeno un po’ di informazione (se non è chiedere troppo).

D’altra parte, di questi tempi poi, nessuno sembra voler mettersi a discutere con Erdogan & C.


Ma i curdi resistono e con loro anche qualche residua minoranza non omologata, ancora solidale e internazionalista.

A Stoccolma domenica pomeriggio si è svolta una manifestazione, a cui hanno preso parte centinaia di persone, indetta per dire “NO alla Nato e alle leggi di Erdogan in Svezia”. Ossia contro l’inasprimento legislativo (entrato in vigore da circa una settimana), sostanzialmente un modo per assecondare le richieste del neoeletto presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.
E con cui si finirà per far pagare ai curdi (sia con la repressione, sia con le estradizioni) l’entrata della Svezia nell’Alleanza atlantica.

Tra gli organizzatori, la rete “Alleanza contro la Nato” (NEJ TILL NATO), varie organizzazioni curde, movimenti di sinistra (anarchici, comunisti, femministe…) e per la giustizia climatica. Oltre a qualche organizzazione per la difesa dei Diritti umani, da segnalare la presenza di alcuni intellettuali e di esponenti politici.

Con le nuove norme vengono inasprite le pene per la partecipazione, la promozione e il sostegno a quella che viene considerata un’organizzazione terrorista (sostanzialmente il PKK, ma la legislazione finirebbe per colpire anche dissidenti e oppositori politici), sia in patria che all’estero. Con pene previste fino a cinque anni.

Per Erdogan finora la Svezia avrebbe offerto asilo a quelli che in Turchia vengono considerati “terroristi”, sia membri del PKK (veri o presunti), sia esponenti dell’opposizione politica curda.

Da ciò il suo veto all’ingresso della Svezia nella Nato (come il Paese scandinavo aveva chiesto ancora l’anno scorso).



Intanto sembra si stia allentando l’assedio dei militari iracheni al campo per rifugiati di Makhmour (Kurdistan entro i confini iracheni). Stando alle dichiarazioni di Yusuf Kara, copresidente dell’Assemblea del campo il ritiro sarebbe già stato completato.
Dopo 16 giorni di assedio e altrettanti di resistenza popolare e grazie agli accordi presi congiuntamente nei negoziati che si sono svolti a Bagdad.



Qualcosa del genere era già accaduto nel 2021 (con chiusura degli accessi e barriere di filo spinato intorno al campo), quando Barzani (PDK) aveva sottostato al volere di Ankara. Così  allora come in questi giorni, il fine nemmeno tanto celato sarebbe quello di costringere gli abitanti del campo all’evacuazione. Nonostante non si siano resi responsabili di nessuna violazione della legge irachena.



Intanto in Rojava, ancora una volta e non casualmente nella stagione del raccolto, diversi incendi dolosi sono scoppiati nei campi dove il grano è ormai maturo.
Da manuale: incendiare i raccolti - così come “avvelenare i pozzi” - rientra  nei metodi delle “guerre a bassa intensità”. In Rojava, relativamente bassa comunque.
In genere la Turchia ricorre al bombardamento con cannoni e mortai, oppure al sabotaggio per mano di incendiari prezzolati che appiccano il fuoco. Alcuni sono anche stati catturati dalle forze di sicurezza curde e - oltre a telefoni e carte SIM fornite direttamente da una rete turca - erano in possesso anche delle coordinate delle principali fattorie.

Ovviamente quella che viene messa in serio pericolo è la sicurezza alimentare delle popolazioni locali.

Un ulteriore tentativo per costringerle ad andarsene, a trasformarsi in sfollati, profughi

Gianni Sartori.

Gianni Sartori - 2023/6/5 - 14:28




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