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Tο μακρύ ζεϊμπέκικο για τον Nίκο Κοεμτζή

Dionysis Savvopoulos / Διονύσης Σαββόπουλος
Language: Greek (Modern)


Dionysis Savvopoulos / Διονύσης Σαββόπουλος

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(Dionysis Savvopoulos / Διονύσης Σαββόπουλος)


To makrý zeïbékiko gia ton Níko Koemtzí
[1979]
Στίχοι: Διονύσης Σαββόπουλος
Μουσική: Διονύσης Σαββόπουλος
Πρώτη εκτέλεση: Διονύσης Σαββόπουλος
'Αλμπουμ: H Ρεζέρβα

Testo: Dionysis Savvopoulos
Musica: Dionysis Savvopoulos
Primo interprete: Dionysis Savvopoulos
Album: Η Ρεζέρβα ("Il Serbatoio"), 1979

Ο Νíκος Κοεμτζής. Nikos Koemtzìs (1938-2011)
Ο Νíκος Κοεμτζής. Nikos Koemtzìs (1938-2011)


"Το «Μακρύ Ζεϊμπέκικο για το Νίκο» αποτελεί μια από τις κορυφώσεις της δουλειάς του Σαββόπουλου για ποικίλους λόγους, όμως το θέμα και κυρίως η διάρκειά του, δεν επέτρεψαν να γίνει μια από τις διαχρονικές «επιτυχίες» του δημιουργού του. Εδώ, με οδηγό τους στίχους του, θα γίνει μια απόπειρα να παρουσιαστεί αυτό το τραγούδι-ποταμός και να εξηγηθούν οι λόγοι για τους οποίους νιώθω ένα περίεργο ρίγος κάθε φορά που το ακούω. Γνωρίζετε το τραγούδι; Ποιο είναι το άρωμα που παίρνετε εσείς από αυτό; Τι συναισθήματα ξυπνά μέσα σας; - Αντώνης Γκαζάκας

”Il «Lungo zeibekiko per Nikos Koemtzìs» rappresenta una delle vette del lavoro di Savvopoulos, per svariate ragioni; tuttavia, il suo argomento e, soprattutto, la sua durata hanno impedito che divenisse, all'epoca, uno dei successi del suo autore. Qui, sulla base dei suoi versi, viene effettuato un tentativo di presentazione di questa canzone di lunghezza fluviale, e di spiegare i motivi per cui sento uno strano fremito ogni volta che la ascolto. Conoscete questa canzone? Quale sensazione ne avete? Che sentimenti risveglia in voi?” - Andonis Gazakas

savvrez


IL GIOIELLIERE, IL COLTELLO E LA DANZA
di Riccardo Venturi


Si comincia col cognome, si nasce con un cognome che manco si sa bene come si scrive. Κοεμτζής (Koemtzìs) nella forma più generalmente nota; ma all'anagrafe di Eginio di Pieria, nel 1938, è scritto Κουγιουμτζής (Kuyumtzìs). E sarebbe questa, probabilmente, la forma più autentica e corretta: un cognome di origine turca, derivato da kuyumcu, che significa “gioielliere”.

È la sera del 24 febbraio 1973 quando due fratelli entrano in un locale notturno ateniese, il Neraïda tis Athinas (“Fata di Atene”), dove due altri fratelli, i Romios, suonano il bouzouki accompagnati da un'orchestra. Il locale, tenuto da tali Karousakis e Athanasiadis, è uno di quelli che, a Atene, vengono detti skyladika: dei “posti da cani”. Locali notturni di infimo ordine dove si suona e si balla esclusivamente musica popolare greca, frequentati da un sottobosco di piccoli criminali, alcolisti, prostitute e tipacci a vario titolo; ma dove anche, si dice, è possibile cogliere la “vera anima greca”. Possibile; però, a chi li frequenta, della vera anima greca non deve importare assolutamente una minchia. Stanno lì per ballare, per affogare, per dimenticare, per scoparsene una disponibile, per bere in mezzo all'aria irrespirabile dal fumo. Trovare dei motivi validi per tutto questo, è probabile che non sia punto difficile nell'Atene e nella Grecia del '73, così come -per motivi al tempo stesso diversi e molto simili- non sarebbe difficile trovarne ora, nella Grecia d'oggi.

I due fratelli che entrano dentro quel locale di merda si chiamano Nikos e Dimosthènis Koemtzìs; Nikos, il maggiore, ha trentacinque anni; il fratello minore, cui vuole un bene dell'anima, ne ha qualcuno in meno e sa ballare bene. Nonostante il loro cognome, la cui origine etimologica probabilmente non conoscono affatto, sono tutt'altro che “gioiellieri”; di gioielli non ne hanno visto nemmeno uno nella loro vita grama e dura di proletari, o sottoproletari. Sono nati in un posto in culo al diavolo; Eginio di Pieria, nella Macedonia centrale, nord egeo della Grecia abitato ancora in massa, all'epoca, da slavi (il paese, fino al 1926, aveva il nome slavo di “Libanovo”). Un posticino simpatico dove, appena finita la guerra mondiale, inizia subito la guerra civile. Nel 1945 il padre dei due ragazzi, comunista, scappa in montagna e si dà alla macchia; per paura di rappresaglie da parte delle autorità, i paesani si tengono alla larga da Nikos, che è solo un ragazzino. Solo come un cane, e che deve occuparsi del fratellino; già da allora capisce bene che cosa significhi essere, al tempo stesso, tenuto d'occhio dalla Polizia (che, probabilmente, ne segue le mosse per arrivare al padre) e scansato dai compaesani impauriti. A un certo punto, piglia il fratello e se ne va via. Da qualche parte, va tutto bene. Salonicco dista soltanto quaranta chilometri, poi arrivano a Atene e poi chissà dove, di qua e di là. Nikos lavora come operaio a giornata, si proclama comunista e si accorge in men che non si dica che, nella Grecia degli anni '50 e '60, da operaio comunista si patisce la fame. Perdipiù quando si è segnati già “di famiglia” e si è nel mirino dello Stato. Comincia quindi a rubare, e naturalmente a entrare ed uscire dalle galere.

Quella sera del febbraio del '73, quando Nikos entra nel locale assieme al fratello, ha appena finito di scontare sei anni di carcere per furto. Gli ennesimi. Voleva, si dice, “mettere la testa a posto”; si era persino fidanzato con una brava ragazza, che stava per sposare. La Polizia, vedendolo così bene intenzionato, gli aveva fatto la grande proposta: diventare un informatore. Una spia. Sotto una dittatura, poi, le spie sono fondamentali. Lo avrebbero lasciato in pace e persino ricompensato, e si sarebbe sposato la sua ragazza e fatto tanti bei piccoli schiavi. Ma Nikos Koemtzìs è pazzo; in tali casi, si definisce “pazzo” chiunque non agisca come Potere vuole, e anzi si ribella. Una cosa da pazzi, appunto. Alla proposta della Polizia, dice no. Rifiuta, senza fornire nessuna spiegazione; no e basta. Nessuna intenzione di guadagnarsi da vivere e da star tranquillo facendo l'infame; ce ne sono già abbastanza. Pazzo com'è, sa benissimo a che cosa sta per andare incontro, e che gliela avrebbero fatta pagare carissima; presentendolo, da Atene scappa a Salonicco, di nuovo. Quelli lo raggiungono a Salonicco, capirai che sarà è c'è già pure l'autostrada, e lo riempiono di botte per fargli capire bene come va il mondo. Torna a Atene ridotto a una merda umana, e per ribadire il concetto gli fanno fare un giretto in certi sotterranei di qualche commissariato, da dove i rumori non si sentono nemmeno quando sono in forma di grida; se anche si sentissero, poi, nessuno muoverebbe un dito.

Non ha un soldo; sicuramente si rimetterà a rubare, e altra galera, e anche qualcosa di peggio visto l'andazzo. Gli resta il matrimonio, la sua adoratissima fidanzata; gli sbirri gli mandano a monte anche quello, per completare l'opera. Prelevano la ragazza e la “convincono”, servendosi anche dei genitori che, spaventati a morte, “consigliano” alla figlia di troncare con Nikos e di trovarsene un altro bravo, cristiano e lavoratore; e il fidanzamento viene interrotto. Così Nikos è solo, col fratello minore che balla. Quando si è soli, senza un soldo, con la vita finita, pazzi, braccati dalla Polizia, sotto una dittatura militare, persino comunisti e appartenenti a una classe che manco si sa quale sia oramai, che cosa si fa? Si va nel primo locale a bere e a veder ballare il fratello bravo. Bisognerà parlare a questo punto di che cosa sapeva ballare Dimosthènis.

Sa ballare lo zeïbekiko. Il nome di questa danza deriva da una parola, turca pure lei, che indicava, sotto l'Impero Ottomano, i greci che si erano islamizzati di facciata, mantenendo però tutte le abitudini culturali (e la lingua). Specialmente nelle danze popolari, gli zeïbekides dimostravano di essere ancora greci, di aver mantenuto la propria anima; da qui il nome della danza stessa, che -si dice- ancora oggi sia capace di esprimere tutto quel che si ha dentro col linguaggio del corpo, col movimento che risponde al moto dell'animo. Lo zeïbekiko, però, ha le sue regole. La principale è che deve essere ballato rigorosamente da soli. E' una danza personale, nella quale l'uomo sputa fuori le sue pene, le sue gioie, le sue passioni, le sue vite e le sue morti; guai se qualcuno va a rompergli i coglioni mentre balla. E' un'offesa mortale; in pratica, nei locali, quando qualcuno richiede uno zeïbekiko, chiunque si trovi in pista o in sala deve sloggiare e mettersi a sedere. E guardare. Chi balla si mette a nudo davanti agli altri, comunica loro chi è e che cosa ha nelle viscere, e quindi nessuno deve azzardarsi a mettersi a ballare assieme a lui.

La richiesta di uno zeïbekiko ai suonatori ha un nome specifico: si chiama parangelià. Con l'accento sulla “a” finale vuol dire soltanto quello: la richiesta che un uomo fa di suonare uno zeïbekiko che andrà, da solo, a ballare. La lingua greca, lo avrete capito tutti da certe cose che da un po' di tempo scrivo qua dentro, è strana parecchio; basta spostare un accento, dire parangelìa con l'accento sulla “i”, e diventa un comunissimo termine per “ordine, comando, incarico”. Quella sera, Nikos ha voglia che il fratello balli uno zeïbekiko; attraverso il fratello e la sua danza, ha bisogno di sentire bene che cosa stia accadendo dentro di sé. Gli dice quindi di andare a chiedere una “parangelià” al caporchestra, che accetta immediatamente. Anche perché rifiutare una parangelià da parte di qualcuno che gliela chiede, in quei posti potrebbe costare la classica “aspettatina fuori”, e non per andarsi a bere un bicchierino assieme. La cosa segue poi una specie di rituale; il caporchestra fa terminare il pezzo che si sta suonando, poi urla: “Parangelià! Richiesta!”. A questo punto, chi è in pista deve mettersi a sedere; il richiedente va quindi in pista, comincia la musica e l'uomo si mette a danzare. E' consuetudine che, durante la danza, il pubblico getti in pista ogni sorta di cosa che si rompe: soprattutto piatti e bicchieri. Negli skyladika ateniesi, e specialmente nei bouzouxidika, i “locali di bouzouki”, si cammina e si balla letteralmente su un tappeto di cocci, che poi gli inservienti spazzano via alla fine di ogni pezzo. Questo perché il danzatore deve dimostrare sia estrema abilità, sia la totale mancanza della paura di ferirsi; va da sé che, in origine, lo zeïbekiko deve essere stata una danza di guerra, e che non possano ballarlo le donne.

Dunque, Dimosthenis va in pista; si sa anche quale pezzo ha richiesto, Vergoules di Markos Vamvakaris, uno dei grandi del “rebetiko”. Comincia a ballare e il fratello lo guarda, estasiato, con qualcosa che gli sale dentro. Non si erano accorti prima, che un paio di persone li stavano tenendo d'occhio; e avrebbero fatto meglio ad accorgersene. Queste due persone, infatti, sono in pista; una di loro è accompagnata da una donna che se ne sta a un tavolino. Stanno in pista e non si levano. Non vanno a sedersi e, quel che è peggio, girano le spalle al danzatore e continuano a ballare per i fatti loro. E' un gesto di sfida e di provocazione intollerabile: Dimosthènis urla: “Questo pezzo è mio!”, e tenta di spingere via i due; quelli, per risposta, gli si gettano addosso e lo buttano a terra, sui cocci di piatti rotti. Urla. Nikos si alza come invasato, gridando quasi incredulo: “E' una parangelià! E' una richiesta!”; e cava fuori un coltello, un lepidhi a lama incavata. Comincia a menare fendenti a dritta e a manca, dirigendosi verso i due che hanno provocato il fratello; ed è del tutto logico che lo abbiano fatto. Nel locale c'erano entrati per controllare, dato che è il loro mestiere di merda: sono due poliziotti.

Due sbirri che, avendo riconosciuti quei due “pazzi” dei fratelli Koemtzìs, avevano deciso di provocarli, probabilmente aspettandosi la loro reazione in modo da poterli impacchettare e portarli in galera, magari con previo passaggio per qualche scantinato di caserma o roba del genere. Quello che sicuramente non si aspettavano era la furia, autentica, di Nikos Koemtzìs; avevano beccato la serata sbagliata. Ci aveva dentro tutta la sua vita e la sua rabbia, quella sera, che voleva sfogare guardando ballare il fratello; poiché glielo avevano impedito, la trasferì nel suo lepidhi. Ammazzò come cani i due poliziotti, uno mentre gli stava mostrando il tesserino tentando di salvarsi; poi un'altro avventore che era intervenuto nella rissa; e ferì gravemente altre sette persone. Tre morti e sette feriti da solo e con un solo coltello; non sapeva ballare lo zeïbekiko, Nikos, ma se ne era fabbricato uno tutto suo, coltello alla mano, forse più vicino alla danza di guerra originale di chissà quanti secoli prima. Nella confusione pazzesca che segue, prende il fratello che è insanguinato a terra, e lo trascina via con sé; poi scappa.

Lo scovano poco dopo, arrivati in forze. A quel punto Nikos desidera morire combattendo; prende e lancia il coltello sui poliziotti. Che devono, evidentemente, avere l'ordine di prenderlo vivo; gli sparano, infatti, alle gambe. Il resto lo fa il solito “zelante cittadino”, uno di quelli che non sanno mai farsi i cazzi propri , magari con la speranza di averne qualche beneficio; nella fattispecie il padrone di una taverna che esce dal locale brandendo un'asse (forse una panca) e tramortisce Nikos Koemtzìs a terra, già ferito.

Il resto. Già, il resto. E come si vuole che sia, il resto. Galera. Il processo a Nikos Koemtzìs e al fratello si svolge a Atene in un mesetto che ve lo raccomando, il novembre del 1973. Infuria la rivolta studentesca del Politecnico, poi repressa nel sangue coi carri armati; e mentre la dittatura dei Colonnelli comincia a scavarsi la tomba che terminerà nel luglio successivo con l'avventura cipriota. Al processo, Nikos va rassegnato e senza nessun sentore che sta divenendo, in quei giorni, una specie di eroe popolare; cosa più che normale, del resto. Ammazzando due sbirri, in quei frangenti sarebbe diventato un eroe pure Pietro Gambadilegno (magari facendo fuori quei due coglioni di Basettoni e Manetta, perché no; e pure quel merdoso di Topolino per completare l'opera). Sa che cosa lo aspetta, Nikos; e, infatti, non si stupisce quando l'Illustre Corte gli ammannisce tre condanne a morte e quattro ergastoli. Le sentenze tribunalizie riescono ad avere uno spunto di comicità anche nella peggiore delle tragedie; tre fucilazioni e, una volta scontate, quattro galere a vita. Proprio ganzo. Poi succede quel che deve succedere, crolla la dittatura, torna 'a democrazzìa (parola greca), e a Nikos Koemtzìs abbuonano le tre esecuzioni e tre degli ergastoli. La democrazzìa è buona, e di ergastoli te ne dà uno solo. Dimenticavo un paio di cose: la prima che che il fratello, Dimosthènis, fu pure condannato a nove anni di carcere per non aver fatto niente; anzi, per essere stato pestato e ferito sui cocci dei piatti da un paio di stronzi mentecatti che non gli avevano fatto ballare uno zeïbekiko di Markos Vamvakaris. La seconda è che, qualche tempo dopo, a morte ci fu condannato proprio il capo dei “Colonnelli” in persona, Georgios Papadopoulos. Quello del golpe del 21 aprile '67. Quello della “Grecia dei greci cristiani” al quale i rivoltosi del Politecnico rispondevano “Grecia dei greci torturati” (o “incarcerati”). Però anche a lui commutarono la pena in ergastolo.

Poi accadde anche qualcosa dopo, con Nikos Koemtzìs rinchiuso dentro per sempre. La stampa, prima di tutto. Naturalmente, scatenata; per qualche tempo, addirittura, coniò una nuova parola. Quando avveniva un fatto di sangue particolarmente efferato, gli articoli parlavano di koemtzides, facendo il plurale del cognome di Nikos; cognome che era diventato sinonimo di “belva sanguinaria”. Così era presentato dai giornali, anche dopo la fine della dittatura; ma non c'era, effettivamente, granché da stupirsi. E neppure, mi vien fatto di dire, della reazione di parecchi “intellettuali”, specialmente musicisti e cantautori pure “progressisti” e “democratici”, che si uniformarono volentieri alle definizioni correnti quando un qualche reporter andava a intervistarli e a chieder loro un parere sulla vicenda di Nikos Koemtzìs. Tutti tranne un paio. Il primo, Grigoris Bithikotsis, era uno dei più grandi cantanti greci e s'era fatto non so quanti Theodorakis (chiunque canti, in Grecia, con intendimenti d'arte s'è puppato un Theodorakis; ma dico questo, ovviamente, con grande affetto verso il vecchio Mikis). Il giornalista che gli si presentò in casa, dopo due minuti fu buttato fuori a calci nel culo mentre Bithikotsis gli urlava: “Ma che te lo spiego a fare?”

Il secondo fu un altro cantautore, Dionysis Savvopoulos. Uno strano tipo, somigliante come una goccia d'acqua a Augusto Daolio dei Nomadi, e con la caratteristica di scrivere testi che fanno ammattire chiunque tenti di tradurli in una qualche lingua, tanto sono difficili e oscuri. E lunghissimi. Qualche anno dopo, mentre Nikos Koemtzìs era in galera, scrisse una canzone su di lui, intitolata Il lungo zeïbekiko di Nikos Koemtzìs: tredici minuti. Novanta e rotti versi, un fiume; tutta la storia narrata per filo e per segno, ma con un andamento poetico da capogiro che la ha fatta terminare, dicono, in non poche antologie della letteratura neoellenica. La musica, naturalmente, è uno zeïbekiko; ma chi volesse andarlo a ballare dovrebbe averci un gran fiato per portarlo a termine. Nella canzone, tra le altre cose, si racconta pure di quando Bithikotsis cacciò il reporter a calci.

Successe poi che, l'anno dopo, nel 1980, basandosi proprio su quella canzone un regista cinematografico, Pavlos Tasios, ci fece sopra un film. Lo intitolò, pensate un po', Parangelià e ve lo faccio vedere tutto quanto in questa pagina. In greco, ovviamente; ma non per snobismo o qualcos'altro di disdicevole. È perché non è mai uscito fuori dalla Grecia. Come si dice in Gallia, “tout se tient”; nel film, la parte di Nikos Koemtzìs è affidata all'attore Andonis Andoniou, che in quel momento faceva anche il marito di Katerina Gogou. E la stessa Gogou recita nel film, in due sensi: come attrice (lei stessa apre il film, nella scena iniziale), e come poetessa. Declama infatti, sulla musica di Kyriakos Sfetsas, delle sue poesie tratte da “Tre scatti a sinistra”, la sua raccolta del 1978 dedicata proprio a Nikos Koemtzìs. Con quelle poesie e quella musica, nel 1981 fu prodotto l'album Στο δρόμο, “Sulla strada”.

Nikos Koemtzìs vende il suo libro a Monastiraki.
Nikos Koemtzìs vende il suo libro a Monastiraki.


Dunque, finisce qui? Non del tutto. C'è Nikos Koemtzìs in carcere, dove si mette a scrivere tutta la sua storia; ma non cominciandola da quel ventiquattro di febbraio del '73, ma dall'inizio. La sua vita intera; tanto ne ha, di tempo. La intitola, questa autobiografia, in modo originalissimo: Il lungo zeïbekiko. Il 29 marzo 1996, dopo ventitré anni di galera, viene rimesso in libertà; per vivere, si mette a vendere il suo libro per le strade. L'ultimo zeïbekiko, il vecchio Nikos se lo danza il 23 settembre 2011, quando lo trovano riverso a terra, morto, in una strada di Monastiraki; da solo, proprio come nella danza. Avevo progettato di mettere una specie di “morale della favola” in fondo a tutto questo che favola non è; ma poi mi sono accorto di non averne voglia. Se la faccia ognuno da solo, se vuole; io mi fermo qui. [RV]
-
Λοιπόν μολύβι και χαρτί, η απόγνωση άνοιξε λαγούμι.
Στοές που χώθηκαν με λάμψεις μαχαιριού σε ποιο στενό κελί;
Ψηλά με πέπλα αίματος, χλιμίντριζε η Σελήνη
-Δεν έχει ελπίδα, ελευθερία δεν ζητά, αλλά δικαιοσύνη-

Γεννήθηκε σ' ένα λασπότοπο, κοντά στην Κατερίνη.
Σκιές με λάμπες θυέλλης που γλιστρούν στου Άδη το πανί.
Ο Νίκος ήταν ο πρωτότοκος, τον άλλον λέγαν Δημοσθένη...
Βουβός δεσμός, εικόνα παιδική, σε άλλο χρόνο αναφλεγμένη.

Ο γέρος του είχε κρυψώνα το βουνό απ' το σαράντα πέντε
κι οι χωρικοί απ' τον φόβο των αρχών μακραίναν κι απ' τον γιο.
Κι αυτός τους έβλεπε στρωμένους στην δουλειά και μέσα του άναβε η μανία
του στριμωγμένου ανάμεσα στο πλήθος και την αστυνομία.

Ώσπου μια μέρα χωρίς αποσκευή, τσουλώντας της τρύπας του την ρόδα
κυλάει απ' την Μακεδονία ως εδώ, κι ακόμα που θα βγει;
Θα φεύγει πάντα για το άστρο που δεν φτάνει καμιά αστυνομία,
για τους φυγάδες αυτός ο ουρανός είν' η παρανομία.

Νίκο, αγγίζω το στοιχειό σας
Νίκο, μες τον υπόκοσμο της γλώσσας

Δυο καταδίκες, έξι χρόνια για κλοπή, τον είδα όταν βγήκε.
Κρατούσε πλέον μιαν απόσταση απ' την τρέλα, όχι για να σωθεί,
αλλά για να την σώσει, αν μ’ εννοείς· να, λόγου χάρη, ήθελε γάμο
και τότε τού 'παν «έλα σε μας για να προδώνεις». Δεν δέχθηκε στιγμή!

Κι απ' την βαθειά των υπογείων τους την λύσσα, κατέφυγε στην επαρχία,
μα όπου κι αν πήγε, το σήμα είχε σταλεί, στην Σαλονίκη τον τσακίσαν.
Σχεδόν τρεκλίζοντας ξανάρθε στην Αθήνα, και τότε πιάσαν την μνηστή του·
της είπαν λόγια, βοηθήσαν κι γονείς, ώσπου διέκοψε μαζί του.

Κι ωστόσο ζούσε τελείως σοβαρός, υπνοβατώντας σ' ένα κράτος
που θριαμβεύει με μιαν ατέλειωτη στριγκλιά -διαφυγή καμιά-
κρατώντας μόνο μια κρυφήν αναπνοή, των μπουζουξίδικων το γκέτο,
βαθιά εικόνα, που η έκσταση εκεί ακόμα λειτουργεί.
«Ν' ακούω,» έλεγε, «τα λόγια, την φωνή, και τ' αδελφάκι μου υψωμένο
να το κοιτάω στον χορό του μοναχό, και κάτι να παθαίνω»

Νίκο, σκυλάδικο Σαββάτο
Νίκο, σπασίματα γεμάτο

«Παραγγελιά», και περιμέναν καθισμένοι, και τα ηχεία το αναγγείλαν
κι όλα τα όργανα συλλάβαν το σκοπό για το χορό του Δημοσθένη.
Καθώς ανέβαινε, η πίστα ήταν γεμάτη, ακούστηκε να ουρλιάζει:
«Παραγγελιά!» γιατί το είδε το κακό με δρασκελιές να πλησιάζει.

Η πίστα άδειασε, μονάχα δυο αστυνόμοι, χορεύαν, γυρνώντας του την πλάτη.
Τότε τους έσπρωξε ο μικρός με μια στριγκλιά, «Δικό μου το κομμάτι!»
Τον ρίξαν κάτω σε γυαλιά κομματιασμένα, ξεφώνιζε όπως τον εσέρναν.
Σαν ένα φιλμ ιλιγγιώδες η ζωή τους, του Νίκου έκαψε τα φρένα.

Έξω απ' την τρέλα δεν είχε κάτι να πιαστεί, γιατί του το 'χαν διαλύσει.
Κατρακυλάει στον προβολέα των σκοταδιών του, στην φρικαλέα ατραξιόν του
με τόση βία που είναι αδύνατον να πω, τι έγινε εκεί κάτου.
Το δράμα όλο συντελέστηκε θαρρώ, στον χώρο του αοράτου.

Στον εαυτό του είπε «Νίκο, συγκρατήσου» τραβώντας κιόλας το λεπίδι.
Τον πρώτο που την έφαγε τον είδαν με μια ταυτότητα να σκύβει.
Σφαχτήκαν τρεις, μαχαίρωσε άλλους έξι, φωνές: «Ανοίχτε, θα μας σφάξουν!»
Τραβώντας έξω τον μικρό παραμιλούσε: «Εσένα δεν θα σε πειράξουν…»

Νίκο, σόι αλλοπαρμένο
Νίκο, τι έχεις καμωμένο

Μετά κατέφυγε στο σπίτι ενός γνωστού, μα ένιωσε ότι θα τον δώσουν
«Θα φύγω,» είπε, «με μια βάρκα ν' ανοιχτώ, φουρτούνες να με πνίξουν.
Να τρελαθούνε, που Νίκο να γυρεύουν, και Νίκο να μην βρίσκουν!»
Μα όπως βγήκε τους είδε σαν βαλέδες, ο ένας με τις χειροπέδες.

Τον εκυκλώσαν, βγαίναν απ’ τα γύρω μέρη, κρεμόταν η ζωή του
από ένα νήμα που δεν θα 'δινε σ' αυτούς, και πέταξε μαχαίρι.
Να αναγκαστούν να τον σκοτώσουν οι αστυνόμοι, μα εκείνοι τού 'ριχναν στα πόδια.
Σερνόταν κι έβριζε ώσπου ένας ταβερνιάρης, του 'δωσε μια με ένα καδρόνι...

Η δίκη του έγινε τον άγριο Νοέμβρη, το ένιωθε άραγε κι εκείνος;
Ο Τύπος πάντως τον πρόβαλε ανοιχτά σαν αιμοβόρο κτήνος.
Τα ίδια λέγαν και πολλοί προοδευτικοί· παράξενο δεν ήταν:
η σύμβασή τους διαισθάνθηκε σ' αυτόν, μιαν άλλη απειλή.

Το 'παν επίσης λαϊκοί ένα σωρό, στον συνεργάτη ενός εντύπου,
μα ο Μπιθικώτσης τον διώχνει και του λέει: «Πού να σου εξηγώ…»
Δεν είχε μάρτυρες εκτός τ' αφεντικό και τη νοικοκυρά του.
Οι δικηγόροι λέγαν ανώμαλη ψυχή, κοιτάξτε τα χαρτιά του.

Νίκο, χωριό συσκοτισμένο
Νίκο, ποιοι σ' έχουν κυκλωμένο;

Ο ίδιος ξέγραψε απ' αρχής τον εαυτό του, το είπε: «Πρέπει να πεθάνω!»
Μπήκε στον κόπο δηλαδή των δικαστών, μα αυτοί δεν μπήκαν στον δικό του.
Καθώς διηγόταν την ζωή του [σε κουφούς], θαρρούσα δεν θ' αντέξω.
[Το δικαστήριο λειτουργούσε μέσα εκεί, μα η δικαιοσύνη ήταν απ' έξω.]

Στα γράμματά του από την φυλακή, ο βίος δεν διαφέρει·
ασφυκτιούσε σαν ζώο μυθικό, εδώ όσο κι εκεί.
Μην είναι τάχα ένα ρίγος παραπέρα, που δείχνει απόσταση απ’ το δράμα
και μεταφέρει σαν ιπτάμενο ένα θαύμα, της δικαιοσύνης την γαλέρα;

Η τέχνη μου έζησε παράξενες στιγμές, και από δίκιο ξέρει.
Τα κίνητρά του δεν ήταν ταπεινά, τον βλέπω σε αργές στροφές
σαν μια Θεότητα που λύει τον πανικό της και διαστέλλεται ξεσπώντας
στ' ανυποψίαστα μπουλούκια του γλεντιού, που βιάζουν το άσυλό της.

Η ουρά που αυξαίνει φτύνοντάς τον ας λυσσάει, με τον ζουρλομανδύα
και με τα ηλεκτροσόκ να τον κλονίσει, θα λάβει ότι της αξίζει
στους λαβυρίνθους του εφιάλτη οδηγημένη, αιώνια, δίχως σωτηρία,
στην τακτική δουλεία του δικαστή, που δεν καταλαβαίνει.

Νίκο, ποτέ δεν θα 'ναι έτσι.
Νίκο, είν' η αρρώστια που μας σώζει
καθώς σε φέρνει πιο μακριά κι απ' το κελί σου,
Νίκο, στον ουρανό της μουσικής σου.

Contributed by Riccardo Venturi - Ελληνικό Τμήμα των ΑΠΤ - 2013/3/6 - 01:35




Language: Italian

Versione italiana di Riccardo Venturi
5 marzo 2013 - 7 marzo 2013



koesfayi


Si tratta della traduzione senza alcun intento artistico e/o ritmico di un testo difficilissimo e, in parecchi punti, addirittura oscuro. Grande aiuto mi è provenuto da questa pagina di musicheaven.gr contenente una spiegazione quasi completa del testo, assieme anche al testo corretto dato che quello presente su Stixoi, del quale mi ero servito in origine, è infarcito di errori. In questo caso, le note non sono soltanto "testuali", ma ampiamente esplicative di alcuni passaggi del testo poetico. [RV]
LUNGO ZEIBEKIKO PER NIKOS KOEMTZIS

Dunque, carta e matita; la disperazione si è aperta un tunnel,
gallerie scavate in un'angusta cella balenando un coltello.
Lassù, velata di sangue, la Luna faceva versi di scherno.
Non ha speranza; non cerca libertà, ma giustizia.

Era nato in un posto schifoso vicino a Katerini 1
ombre e lanterne ad olio 2 che guizzano sul telone dell'Ade. 3
Nikos era il primogenito, l'altro si chiamava Dimosthènis,
legame silenzioso, ritratto ormai bruciato di bambini d'altri tempi.

Suo padre si era nascosto su in montagna fin dal '45; ed i paesani,
temendo l'Autorità, si tenevano alla larga anche dal figlio.
Lui li vedeva intenti a lavorare, e s'incendiava in lui
quella rabbia di chi si sente in trappola tra la gente e la polizia.

Finché un giorno, senza bagagli, gira la chiave nella toppa 4
e dalla Macedonia si trascina fin qui 5, e chissà dove ancora;
Correrà sempre a una stella irraggiungibile dalla Polizia,
per i reietti è questo cielo il rifugio clandestino.

Nikos, posso toccare il tuo spettro
Nikos, nei bassifondi della lingua 6

Due arresti e sei anni per furto; l'ho visto quando è uscito,
si teneva ormai a distanza dalla pazzia, non per salvarsi
ma per salvare la pazzia 7, capisci; a dire il vero voleva sposarsi,
e quando allora gli dissero: “Vieni a farci da informatore”, lui rifiutò, e stop. 8

E dal cupo furore dei loro sotterranei 9 scappò in provincia,
ma ovunque andasse, il messaggio era stato spedito. A Salonicco lo riempirono di botte,
e quasi barcollando ritornò a Atene; allora presero la sua fidanzata,
le dissero delle cose, anche i suoi genitori ci misero del loro, e lei lo lasciò.

Però lui viveva da persona del tutto seria, come un sonnambulo
in uno stato che trionfa con un grido senza fine: “Non c'è scampo”.
Aveva un solo e segreto sollievo: il ghetto dei locali di bouzouki 10,
un ambiente peso 11 dove l'estasi ancora è cosa viva.
“Voglio sentire”, diceva, “le parole, la voce e mio fratello 12 che si alza,
voglio guardarlo mentre danza da solo, e che qualcosa accada dentro di me.”

Nikos, sabato un troiaio di locale, 13
Nikos, pieno di piatti in cocci

“Una richiesta” 14, e tutti seduti a aspettare; gli altoparlanti la annunciarono
e tutti gli strumenti si accordarono per la danza di Dimosthènis.
Come s'alzò, la pista era stracolma; lo si sentì urlare:
“Questa è una richiesta!” - aveva visto il male avvicinarsi a falcate.

La pista si svuotò; solo due poliziotti ballavano girati di spalle
e allora il ragazzo li spinse via gridando: “Questo pezzo è mio!”.
Loro lo tiraron giù su un mare di cocci; gridava mentre lo trascinavano.
La loro vita, un film accelerato; e Nikos perse ogni freno.

Tranne la pazzia, non aveva più niente perché tutto gli avevano rotto;
sotto i riflettori delle sue tenebre, si precipita a fare il suo orrendo numero
con una tale violenza, che non so proprio dire che cosa accadde laggiù.
L'intero dramma, credo, si svolse nella sfera dell'invisibile.

Si disse: “Nikos, trattieniti”; ma già stava tirando fuori il coltello,
il primo che se lo prese lo videro piegarsi con in mano un distintivo.
Tre morti ammazzati, sei altri accoltellati, grida, “Aprite o ci ammazzano!”,
e lui, tirando via il ragazzo, si diceva: “A te non faranno del male”.

Nikos, malarazza. 15
Nikos, che cazzo hai fatto?

Si nascose da un conoscente, ma sentiva che lo avrebbero consegnato;
disse, “Scapperò in barca in mare aperto per affogare in una burrasca,
ammattiranno cercando Nikos, e Nikos non lo troveranno.”
Ma appena uscì li vide arrivare come lacchè, uno impugnando le manette.

Da ogni lato lo circondarono, la sua vita era appesa
ad un filo che lui non avrebbe concesso loro; così lanciò un coltello
per far sì che gli sbirri lo ammazzassero; ma loro gli spararono alle gambe,
si trascinava e bestemmiava, finché il padrone di un ristorante 16 non lo colpì con un'asse.

Il suo processo si svolse in quel duro novembre 17, chissà se lo sentiva anche lui;
La stampa, ad ogni modo, lo presentò come una belva assetata di sangue.
Lo stesso dissero parecchi progressisti: “No, non era strano.”
Nel loro complesso, avvertivano in lui un'altra minaccia.

E lo stesso disse un mucchio di popolari artisti al reporter di una rivista;
ma Bithikotsis 18 lo caccia via, e gli dice: “Ma che ti spiego a fare”.
Non ebbe testimoni a favore, a parte il suo datore di lavoro e la sua padrona di casa;
Gli avvocati dicevano: “È strano di cervello, guardate i documenti che lo riguardano.”

Nikos, paese di ottenebrati.
Nikos, chi sono quelli intorno a te?

Anche lui, fin dall'inizio, si ritenne spacciato; lo disse, “devo morire”.
Andò dentro, cioè, nella fatica dei giudici; ma loro non dentro la sua
mentre raccontava la sua vita. Ho paura che non avrei resistito,
là dentro si teneva il processo, ma la giustizia era rimasta fuori.

Nelle sue lettere dalla galera, la vita non appare differente;
Si sentiva asfissiato come una bestia mitologica, tanto là quanto qua.
Questo sarebbe un fremito in più che mostra distanza dal dramma,
e che trasporta, come un prodigio alato, il galeone della giustizia.

La mia arte ha vissuto strani momenti, e conosce ragione e giustizia. 19
I suoi motivi non erano futili, me lo vedo al rallentatore
come una Divinità che dissolve il suo panico e si espande, e prorompe
sulle folle ignare che fanno baldoria e che violano il suo rifugio.

Si allunghi la fila di chi gli sputa addosso con rabbia, per scuoterlo
con la camicia di forza e gli elettroshock; avranno ciò che meritano,
spinti nei labirinti dell'incubo, eternamente, senza salvezza,
con l'ordinaria schiavitù di chi giudica ma non riesce a capire.

Nikos, non sarà mai così
Nikos, sarà la tua malattia a salvarci 20
mentre ti porta via dalla tua cella,
Nikos, verso il cielo della tua musica.
NOTE alla traduzione


[1] Nikos Koemtzìs e il fratello Dimosthènis erano nativi di Eginio di Pieria (Αιγίνιο της Πιερίας), nella prefettura di Katerini (Κατερίνη), nella Macedonia centrale. A differenza di quanto cianciano gli ultranazionalisti, dalla maggior parte dei greci la Macedonia è considerata un posto di merda; sin dall'inizio, sembra quasi che Savvopoulos caratterizzi Koemtzìs anche tramite la sua difficile provenienza. La cosa appare più chiara proprio dalla parte iniziale della canzone-poema, nel quale viene descritto il paese natale di Nikos Koemtzìs. Fino al 1926 il paese aveva un nome slavo, Libànovo, ed era abitato da una consistente minoranza di lingua bulgaro-macedone.

Eginio di Pieria (Libanovo).
Eginio di Pieria (Libanovo).


[2] Traduco così, imperfettamente, λάμπες θυέλλης. Propriamente sarebbero, alla lettera, le “lanterne da tempesta” (storm lamps) a olio schermate usate dai marinai sulle navi o nei porti in condizioni di difficile visibilità; credo però che, nel contesto, sia da evitare troppo tecnicismo.

[3] In queste prime strofe si enuncia e caratterizza la provenienza locale e familiare di Nikos Koemtzìs; qui c'è un riferimento preciso al “Teatro delle Ombre”, o Καραγκιόζης (dal turco Karagöz “occhio nero”), lo spettacolo popolare di ombre cinesi proiettate su un telone, o schermo, mediante un gioco di lanterne. L'enunciazione è qui sia reale che metaforica, con significato di presagi di morte (il “telone dell'Ade”). Un povero paese di una zona dimenticata, e una famiglia di sentimenti antifascisti e comunisti; circostanze che anticipano il tragico destino dei fratelli Koemtzìs.

[4] Qui la traduzione è “ad sensum” ma molto incerta. Alla lettera, il testo dice: “Girando la ruota del suo buco (tana, covo)”. Ho interpretato come girare la chiave nella toppa della porta della sua povera abitazione (τρύπα può essere sia “buco, toppa”, sia “tana, stamberga, catapecchia”); ma il tutto potrebbe anche riferirsi all'antico sistema di serramento che consiste nello spostare una lastra di pietra mediante un meccanismo a ruota.

[5] “Fin qui” è da intendersi: “a Atene, nella capitale”.

[6] In questa prima apostrofe diretta a Nikos Koemtzìs, Savvopoulos sembra introdurre le quattro strofe successive nel quale tenta di stabilire un colloquio col protagonista degli eventi e di comprenderlo (senza però giustificarlo). Koemtzìs è visto però come uno “spettro”, probabilmente data l'allora sua morte civile dell'ergastolo; un modo per entrare in contatto con questo “spettro” è la penetrazione nei “bassifondi della lingua”, vale a dire nel gergo della malavita e dei locali malfamati (nel testo greco si parla espressamente di “malavita della lingua”, questo il senso letterale di υπόκοσμο της γλώσσας; ma si sarebbe potuto renderlo anche con “sottobosco” o roba del genere). Si tratta di una connotazione sociale e psicologica molto importante da parte di Savvopoulos: pur non usando nel suo testo parole gergali (tutt'altro; il suo linguaggio è, anzi, per molti versi elevato), avverte che uno strumento indispensabile per la comprensione è calarsi nei "bassifondi della lingua", vale a dire nel linguaggio comunemente utilizzato nell'ambiente frequentato e vissuto dai fratelli Koemtzìs.

[7] Il testo di Savvopoulos è una storia completa; vale a dire, contiene non soltanto enunciazioni sociali, storiche e politiche ma anche un'analisi psicologica fattiva del protagonista. E qui abbiamo forse il più bell'esempio di tale cosa. Si parte con la nuda enunciazione di un fatto, Koemtzìs che subisce due arresti e sconta sei anni di carcere per furto; appurata quindi l'oramai avvenuta emarginazione del protagonista, Nikos Koemtzìs si tiene alla larga dalla sua pazzia (l'emarginazione, le sue tendenze autodistruttive, la sensazione di asfissia) non perché abbia paura che la pazzia gli possa recar danno, ma perché vuole come proteggerla, tenerla al sicuro ed intatta come qualcosa di prezioso e che lo mantiene vivo nella situazione disastrosa in cui si trova (vulnerabile, proveniente da una famiglia di sinistra, pregiudicato e con gravi difficoltà economiche). E' questa sua pazzia che gli evita di finire nelle “benevole” grinfie della Polizia, che gli propone, una volta uscito di galera (e come è usuale in questi casi), di diventare un informatore, una spia: Nikos rifiuta, senza dare alcuna spiegazione. La “pazzia” gli impedisce di diventare un infame, gli mantiene una grande dignità umana e, al tempo stesso, accelera la sua rovina perché sa che la Polizia gli farà pagare carissimo questo suo rifiuto.

[8] In questo caso specifico Savvopoulos si serve di un termine gergale, προδώνω (derivato evidentemente da προδίδω, προδίνω “tradire” mediante l'aoristo πρόδωσα), specifico per “fare l'informatore della polizia, fare l'infame”.

[9] Irrompe qui nella vicenda, in modo chiaro, la situazione della Grecia al momento dello svolgersi degli eventi. Febbraio 1973, la dittatura, lo Stato di polizia; tutta un'epoca. Con il “cupo furore dei loro sotterranei”, Savvopoulos descrive in poche parole (da grande poeta, oserei dire) la violenza impunita e le torture che avvenivano nei sotterranei delle caserme e dei commissariati, ed i meccanismi legali ed extralegali dello Stato autoritario. La vendetta poliziesca non tarda ad arrivare: non gli serve rifugiarsi in provincia, non ha via di scampo. Arrivano a minacciare la sua fidanzata (coi genitori di lei che assecondano le “autorità” per paura e per vigliaccheria) e, alla fine, ad impedire il prossimo matrimonio. E' a questo punto che Nikos Koemtzìs assume la caratterizzazione di irriducibile nemico dello Stato e dei suoi rappresentanti.

[10] L'unica cosa che ancora tiene vivo Nikos Koemtzìs è la sua frequentazione, assieme al fratello, dei “locali di bouzouki” (μπουζουξίδικα); e qui è necessario entrare in un mondo a parte, in un “mondo sotterraneo” (υπό-κοσμος). Atene era, allora, piena di localacci notturni di quart'ordine dove si beveva a fiumi e si suonava musica popolare greca (accompagnata col bouzouki, lo strumento popolare principe di origine turca come il suo nome -turco bozuk); per il fatto che erano visti come portatori dell' “autentica anima greca” (cosa senz'altro vera), la dittatura li tollerava anche come sfogo per la popolazione, pur essendo generalmente posti da entrarci con le molle e con diversi patemi d'animo per la propria pelle. Erano, tali locali, i “templi” delle espressioni musicali e coreografiche più profonde della Grecia: il rebetiko e lo zeibekiko, ad esempio; ancora termini di variopinta origine straniera (ρεμπέτικο, da ρεμπέτης, sembra derivare dal termine slavo che si ha ad esempio nel russo ребëнок „ragazzo, bambino”, plurale ребята; ζεïμπέκικο da ζεïμπέκης, turco zeybeki, termine che indicava spregiativamente i greci che si erano convertiti di facciata alla fede islamica). Siamo, appunto, nei bassifondi; anche della lingua.

[11] Traduco così il difficile βαθιά εικόνα dell'originale; una “immagine pesante”, o meglio uno “scenario cupo” alla lettera, ma ciò che convoglia questa terminologia è diverso e vuole rendere tutta un'atmosfera costantemente carica di tensione; da qui il mio “ambiente peso”, qualcosa dove “l'aria si taglia col coltello”, per intendersi (ed entro poco il coltello che taglia non sarà più qualcosa di metaforico).

koe locale


La sera del 24 febbraio 1973 Nikos e Dimosthènis Koemtzìs si recarono al locale Νεράïδα τῆς Ἀθήνας (“Fata di Atene”) di K. Karousakis e T. Athanasiadis, dove suonavano il bouzouki i fratelli Romios accompagnati da un'orchestra; qui avvennero i fatti.

[12] Affinché “qualcosa gli accadesse dentro”, Nikos Koemtzìs amava guardare il fratello che danzava da solo lo zeibekiko. Esprimendo nella danza i più profondi sentimenti e stati d'animo personali, lo zeibekiko deve essere ballato rigorosamente da soli, senza che nessuno stia in pista; a tale riguardo, chi intende danzare fa una “richiesta” (παραγγελιά; si noti l'accento in posizione finale, di derivazione popolare, rispetto al termine colto e classico παραγγελία “ordine, comando; incarico”. Il termine con l' “accento in posizione popolare” sembra essere usato soltanto in tale particolare accezione, i “bassifondi della lingua..”), in base alla quale è legge non scritta che la pista si svuoti e che sia riservata soltanto a chi la ha effettuata; e chi trasgredisce questa legge, va in cerca di guai e li trova perché continuare a ballare mentre qualcuno danza uno zeibekiko è considerata offesa mortale derivata dalla mancata considerazione (cioè dal disprezzo) di una persona che vuole esprimere ciò che di più intimo ha dentro. Un'offesa al linguaggio del corpo e della musica che esprime il linguaggio dell'animo; si capisce meglio, a questo punto, lo svolgersi dei tragici fatti di quella sera. I due poliziotti che, avendo riconosciuto i fratelli Koemtzìs ed intendendo provocarli restando in pista dopo la “richiesta”, pagarono questa cosa con la vita; e l'ennesima, stupida offesa arrecata da rappresentanti di uno Stato oppressivo al proletario reietto, scatenò la sua furia.

[13] Un termine generico per questi localacci di quart'ordine è σκυλάδικο, vale a dire, alla lettera, un “locale da cani”. L'atmosfera è descritta alla perfezione da Savvopoulos: grida, fiati pesanti, tappeti di cocci di piatti. Questo perché è consuetudine che il pubblico, mentre si esibiscono gli artisti oppure qualcuno balla uno zeibekiko, lanci in pista dei piatti.

[14] Ecco qui, enunciata, la parola-chiave di cui si è parlato prima: Παραγγελιά. Anche il film del 1980 che fu girato dal regista Pavlos Tasios sulla vicenda (sicuramente riprendendo anche la canzone-poema di Savvopoulos), si intitola così: Παραγγελιά!, "Richiesta!". Dal film riprendiamo qui, appunto, la scena della "Richiesta" dei fratelli Koemtzìs e della successiva tragedia scatenata dai poliziotti; indicata anche per rendersi conto di come funziona il tutto, col lancio dei piatti e con la musica da zeibekiko.



[15] Anche qui difficoltà di traduzione adeguata. Αλλοπαρμένος (“preso da qualcos'altro” alla lettera) significa “strambo, stravagante, eccentrico, che vive in un mondo a sé”; ma qui ho preferito un “malarazza” per le sue precise suggestioni (anche musicali).

[16] Il classico “cittadino zelante” che non sa farsi i cazzi suoi trova qui applicazione in un ταβερνιάρης; andò esattamente così. Ferito alle gambe dagli spari dei poliziotti, Nikos Koemtzìs fu tramortito con un'asse (forse una panca) dal padrone di una ταβέρνα uscito per strada. Ho tradotto “padrone di un ristorante”, con l'avvertenza che la ταβέρνα (taverna) è il più tipico mangiatoio greco, quello dei quintali di souvlakia, moussakà e pita ghiros. Il termine proprio di “mangiatoio” (εστιατόριο) è riservato ai ristoranti di classe superiore, con cucina all'occidentale.

[17] Savvopoulos non si dimentica certo che il processo (nel quale Nikos Koemtzìs si beccò tre condanne a morte e quattro ergastoli, poi commutati in un solo ergastolo -evidentemente l'illustre Corte ritenne che avesse sette vite come i gatti; Dimosthènis Koemtzìs si beccò invece nove anni per non aver fatto niente, anzi per essere stato picchiato a sangue dai poliziotti prima che costoro fossero sbudellati dal fratello), si svolse nel novembre del 1973; e il novembre del 1973, a Atene, fu il mese della rivolta studentesca del Politecnico. Non è fuori luogo che la dittatura cominciò a affogare grandemente sì con la rivolta repressa nel sangue, ma un po' anche con il processo Koemtzìs. Nikos Koemtzìs era già considerato un eroe popolare perché il suo gesto era stato visto come un'estrema ribellione alle prevaricazioni della polizia e, quindi, della dittatura.

Novembre 1973. Nikos Koemtzìs viene sistemato da due agenti nella gabbia degli imputati, durante il processo.
Novembre 1973. Nikos Koemtzìs viene sistemato da due agenti nella gabbia degli imputati, durante il processo.


[18] E' un fatto che, in generale, gli artisti (e in particolare i musicisti e cantanti) greci, anche quelli “progressisti”, non capirono nulla del gesto di Nikos Koemtzìs; fatto che non deve stupire, data la tendenza di parecchi “intellettuali di sinistra” -non solo in Grecia- ad ignorare totalmente i meccanismi di una classe, il proletariato, della quale vorrebbero rappresentare le istanze. Si fabbricano così, come sempre, un proletariato a loro uso e consumo. Il solo Grigoris Bithikotsis parve invece comprenderlo appieno, fatto sottolineato con la cacciata sdegnosa che riservò al reporter di regime. E Katerina Gogou, va da sé.

Grigoris Bithikotsis.
Grigoris Bithikotsis.


[19] Δίκιο significa sia “motivo, causa”, sia “buon motivo” (nel senso di “avere ragione”). Nel dubbio, io ce li ho messi tutti e due.

[20] Savvopoulos appone con questo semplice verso un'elevatissima e decisiva conclusione alla sua canzone-poema su Nikos Koemtzìs: "Sarà la tua malattia a salvarci". Avendo ascoltato e letto la canzone, ciò apparirà oramai chiaro: la salvezza, per tutti noi, consiste nella ribellione al potere, compresa quella che promana dalla "pazzia" (cioè la "malattia") del reietto, dell'emarginato. Ed è ciò che lega questa lontana vicenda, di cui in Grecia mai si sono persi gli echi, e l'altrettanto lontana canzone di Savvopoulos, alla Grecia d'oggi ed alla sua situazione. Su tutto questo si può discutere, ma restano i fatti con i quali consegno al giudizio umano, sociale e politico questo testo durissimo sotto ogni aspetto.

2013/3/6 - 17:53




Language: English

English Translation by "Rhinoceros"
Traduzione inglese di "Rhinoceros"

parange


Dal forum Church of Virus, datata 28 luglio 2002. Sono stati qui corretti alcuni lievi errori di spelling.
LONG ZEIBEKIKO FOR NIKOS

Well, pen and paper. Dispair has opened a tunnel.
Arcades stuffed in a narrow cell, with glimpses of a blade.
High up, in veils of blood, the moon was making mocking sounds.
He has no hope. He does not seek freedom. Only justice.

He was born at a dirt place near Katerini.
Shadows from an oil lamp sliding behind Hade's screen.
Nikos was the elder. The other one was Demosthenis.
A silend bond, a chilhood picture in another time, set on fire.

His old man was hiding on the mountain since '45,
and the villagers, for fear of the authorities, kept clear of the kid.
So, he was watching them settled in their work, and fury was feeding.
The fury of the trapped between the people and the police.

Until one day, without any baggage, rolling his hole's wheel,
he rolls from Macedonia to Athens, and yet who knows where else?
He'll always reach for the star where no police can reach.
For the castaways, this sky is the underground.

Niko... I can touch your ghost.
Niko... through the subworld of the tong.

Two arrests, six years for theft. I can see him when he got out.
He was keeping a distance from insanity, not to save himself,
but to save insanity, if that makes any sense: He wanted to get married.
They told him: "Come to us to inform." He flatly refused.

To get away from their fury, he escaped to the country,
but wherever he went the message had been received. In Saloniki they smashed him.
Almost stumbling, he returned to Athens. Then they got his fiancee.
They told her things, her parents helped too, until she cut him off.

But he was living totally serious, sleepwalking in a State
which triumphs in an endless shriek: No escape!
He was holding just one secret breath: The ghetto of the bouzouki clubs.
A deep tableau where ecstasy is still alive.
"I wanna hear", he said, "the words, the voice, and see my little brother rising.
I wanna look at him alone in his dance, and something to happen inside me."

Niko... Doghouse, Saturday
Niko... Full of broken plates

"A request", everyone sitting and waiting, and the loudspeakers anounced it
and all the instrument got in tune for Demosthenis' dance.
As he rose, the dancing floor was crouded. He let out a shout:
"'tis a request", as he saw the evil approaching in large strides.

The floor was now empty, except two cops, who danced with their backs turned.
The boy pushed them with a shout: "This piece is mine".
They threw him down onto shattered glass. He was screaming while dragged around.
A fast forwarded movie, Nikos' life. His brakes were burnt.

Except insanity, he had nothing to hold on, because they had shattered everything.
He rumbles under the spotlight of his darkness in his horrendeous performance
so violently that I am unable to say what happened down there.
The whole drama was performed, I think, in the sphere of the invisible.

He said to himself "Niko, get a hold", but he was already pulling out the blade.
I can see the first one who got hit, bending, holding a police badge.
Three dead, six more injured, screams, "open the door, they'll slaughter us".
While pulling out the boy, he was talking to himself: "You, they can't touch".

Niko... You heady stock.
Niko... What have you done?

Then he went to hide at a friend's, but he felt they'd turn him in.
"I'll get a boat", he said, "sail to open sea, and get drown in a storm."
"They'll get mad, searching for Niko, and finding no Niko."
But as he got out he saw them, like derby dogs, one of them holding the handcuffs.

They were all around, appearing from everywhere. His life was hanging
from a thread which he wouldn't let to them. So he threw a knife
to make the cops kill him, but they just aimed for the legs.
He was crawling and swearing till a restaurant keeper hit him with a plank.

His trial was held in the Bloody November. I wonder if he was feeling it.
The press, anyway, presented him clearly as a bloodthirsty beast.
The same was said by many liberals. That wasn't strange.
Their convention saw in him another threat.

The same was said by many popular musicians to the reporter of a magazine,
But Bithikotsis waves him away and says "Too much trouble to explain to you..."
Nobody witnessed for him except his employer and his landlady.
The lawyers were saying "An abnormal psyche! Look at his papers!"

Niko... You blacked out village.
Niko... Who are those around you?

He wrote himself off right away. He said "I must die".
He got into the trouble of the judges, but they didn't get into his.
While he was talking about his life to the deaf. I thought I couldn't stand it.
The court was operating in there, but justice was outside.

In his letters from prison, life was no diferent.
He was suffocating like a mythical beast, here as much as there.
Could this be one shiver further, showing a distance from the drama,
and carrying, like a volatile wonder, the galley of justice?

My art has lived strange moments and knows of justice.
His motives were not lowly. I can see him in slow motion,
like a deity being unchained of its panic and expanding, breaking loose
on the unsuspecting crowds of the feast that violate its asylum.

Contributed by Riccardo Venturi - Ελληνικό Τμήμα των ΑΠΤ - 2013/3/8 - 13:41




Language: Sicilian

Traduzzioni siciliana / Σικελική μετάφραση / Traduzione siciliana / Sicilian translation / Traduction sicilienne / Sisiliankielinen käännös:
Riccardo Gullotta
ZIBECHICU LONGU PPI NICÒ CHEMZIS

Annunca, carta e labbis; a dispiraziunazza si grapiu un caforchiu,
pirtusa scavati nte na cella nica a bott’i cuteḍḍu.
Susu , trapaniata i sangu, a luna faciva gabbu.
Spiranza nenti, un circa libbirtà, giustizzia voli.

Nascìu ‘ntra viḍḍi e vaḍḍi cajordi i Caterini,
ummira e lumi arsoliu ca sfilicchianu nto mantu dû nfernu.
Nicò jera u ranni, Dimostini si chiamava u secunnu,
lazzu senza scrusciu, ritrattu arsu di carusi di na vota

So patri s’ammucciò nte muntagni dô ’45; e i paisani
scantannusi di chiḍḍi ca cuntanu stavanu arrassu macari dô figghiu.
Iḍḍu i videva c’avevanu a testa ô travagghiu,ci sbummicava
A raggia di cu je ‘nchiangulatu trâ i genti e i sbirri.

Affina ca ‘n jornu senza bagagghi furriò a chiavi nta basana
e appizzò a movirisi dâ Macidonia nzina cca e sapiḍḍu unni;
Si cataminava ppi na stiḍḍa unn’ i sbirri un putevanu jcari,
Ppî chiḍḍi sbannuti stu cielu je l’amparo

Nicò, pozzu tuccari a to malummira
Nicò, nta fezza dâ linga

T’attapanciaru du voti, se’ anni ppi larrunaria; u vitti cuannu nisciu
si tineva arrassu dâ pazzia non ppi sarvarisi
ma ppi sarvari a pazzia, mi capisti? pri veru vuleva spusarisi,
E annunca cuannu ci dissiru: “Veni a farici a spia”, iḍḍu si negò e finiu.

E di ḍḍi catoja nivura e arraggiati si ni fuiu vuschi vuschi
ma unni iva iva a passata era canusciuta. A Saloniccu tiritinghi e tiritanghi,
e trabballiannu si ni turnò Atini; allura accrastaru a so zita,
si misiru a cuntari, puru patri e matri ci misiru u carricu, e iḍḍa u lassò.

Però iḍḍu era bona cunnutta comu unu ca camina ‘nsunnatu
banniannu e abbanniannu nto triunfu: “‘N ci nné arriparu”.
C’aviva un sulu arrinfriscu strittu: a judeca dê lucal’i buzuki
post’i chiummu unni ancora po jiri ‘n visibbiliu.
“Vogghiu sentiri”, diceva, “i palori, a vuci e me frati ca si susi,
u vogghiu taliari mentri c’abballa sulu, accapitassi corchi cosa ca m’attigghia l’arma“.

Nicò, sabbat’un postu ppi caniperri,
Nicò, chinu i piatta rutti

“Na dumanna” e tutti assittati c’aspittavanu; l’artoparlanti l’abbanniaru
e tutti li strumenta s’accurdaru pp’u ball’i Dimostini.
Comu si susì a pista era china china; sinteru ca jittava vuci:
“Chista je na dumanna!” vitti u mali ca si ‘ncugnav’a passu lestu.
A pista si sbacantò; sulu du sbirri abballavanu i spaḍḍi vutati
e allura u carusu l’ammuttò gridannu: “U miu je stu ballu!”
Iḍḍi u jittaru ‘nterra ‘ncapu na sfunnacata’i piatta rutti; jittava vuci mentri u strascinavanu
a vita di iḍḍi com’un filmi a fui fui; e Nicò sdilliniò.

Livannu a fuḍḍia ‘n c’aveva cchiù nenti picchì tutti cosi c’avevanu scassatu
sutta i luci jera scurutu nivuru, scuppò na ‘mprenta orribbuli
accussì arraggiatu c’un sacciu diri cchi capitò ḍḍa.
Tuttu u fattazzu app’ammattiri nt’un munnu ‘nvisibbili

Dissiru:” Nicò, arriseri” ma ‘nto mentri nisceva u cuteḍḍu
u primu ca cciù cafuḍḍò u vittiru gnimiḍḍarisi cc’un distintivu nte la manu
tri morti ammazzati, autri sei accutiḍḍati, abbannia “Grapiti o n’ammazzanu!”
E iḍḍu purtannusi appressu u carusu barbaciava: “A tia un ti fanu nenti”.

Nicò, malacarni
Nicò, chi minchia facisti ?

S’ammucciò nt’un canuscenti, ma ci parrava u cori ca l’arrifardiavanu;
Dissi,”Mi nni fuju ccu na varca in altu mari pp’anniari ammenzu na burrasca,
ci nesciunu li ciriveḍḍi circannu a Nicò e Nicò nun l’attruvanu”.
Comu niscìu i vitti arrivari , criati precisi, unu mbazava i manitti.

U ncagghiaru di uni e gghié, a so vita jer’ appizzat’a ‘n filu
ca iḍḍu nun vuleva muḍḍari; annunca ci lampò ‘n cuteḍḍu
accussì i sbirri l’ammazzavanu; ma chiḍḍi ci spararu nte jammi,
sì strascinava e jastimiava ‘nzina ca u patruni d’un ristoranti ci cafuḍḍò ‘n tavuluni.

A causa a ficiru nte ḍḍu Nuvemmiru ca s’apprisintò sarvaggiu, cu sapi si macari iḍḍu si n’addunò;
I jurnala comu fu fu u pintaru comu n’armali abbramat’i sangu.
Intifica cosa dissiru tanti progressista:” No, un jera curiusu”.
‘Ncucchiati ‘nzirtavanu ca iḍḍu jera n’autr’amminazzu.

Intifica cosa dissiru un munzeḍḍu d’artisti ô giurnalista d’un fogghiu periodicu
Ma Biticozzi u straniò e ci dissi: “Ma cchi ti l’arraggiunu a fari?”
Un n’appi testimonia livannu u so patruni do travagghiu e a so patrun’i casa
L’avvucati dicevanu:” Je strammiatu , taliati i so carti”.

Nicò, paisi d’addurmisciuti
Nicò, cu sunu chiḍḍi ca ti stanu a giru?

Macari iḍḍu ‘nzina dû principju si crideva dispiratunazzu ; u dissi, “ aje muriri”.
‘Nsumma capì i stritti dê judici ; ma chisti un caperu i so
mentri cuntava a so vita. Dubbitu c’avissi tinutu,
ḍḍa intra facevanu a causa ma a giustizzia l’avevanu lassata fora.

Nte so littri dô carzaru, a vita un pareva diversa;
sì sintev’accupatu comu n’armali mitologgicu tantu fora quantu intra
Fussi na junta ca fa arrizzari , f’abbidiri ca lu ntricciu je luntanu
e carrìa, prodiggiu cilesti, u varcuni da giustizzia.

A me arti sprummintau stranizzi e canuscìu raggiuni e giustizzia.
I so raggiuni nun jeranu scarsi, mû figuru ô rallentaturi
com’un diu ca sbrugghia u so scantu e s’allarga, e nesci di fora, e scattìa
i fuḍḍi gnogni ca fanu burdellu e annigghianu a so dimura.

Vulissi Diu ca s’allungassi a fila di ḍḍ’ arraggiati ca ci sputanu ‘ncoḍḍu, c’ô scutulìanu
ccâ cammisa i forza e i scarrichi elettrichi; avirrannu chiḍḍu ca c’attocca,
fugattiati a baschiari senza putirici spuntari, senza speḍḍiri , senza libberazzioni,
suttamisi comu a chiḍḍi ca ô solitu dunanu giudizziu ma un ponu capiri

Nicò, un sarà ma’ i ssa manera,
Nicò, sarà a to malatia ca nni sarba
cussì comu ti libbera dâ to galera,
Nicò, a jiri u celu dâ to musica.

Contributed by Riccardo Gullotta - 2022/10/7 - 17:06



L'intero film ΠΑΡΑΓΓΕΛΙΑ! ("Richiesta!") di Pavlos Tasios (1980), dedicato alla vicenda di Nikos Koemtzìs. Si tratta dell'originale in lingua greca:




L'attrice che compare nella primissima scena, mentre si trucca e si strucca rabbiosamente fumando, è Katerina Gogou. In seguito, recita delle sue poesie, una delle quali dedicata ai fratelli Koemtzìs. La colonna sonora di questo film è di Kyriakos Sfetsas; proprio dalla colonna sonora di Sfetsas e dalle poesie lette nel film da Katerina Gogou nacque, l'anno successivo, l'album Στο Δρόμο.

Riccardo Venturi - Ελληνικό Τμήμα των ΑΠΤ - 2013/3/7 - 18:02


Questa pagina avrà una lenta evoluzione nei prossimi giorni; non soltanto sto affrontando una delle traduzioni più ostiche in assoluto che abbia fatto dal greco per questo sito, ma la stessa vicenda di Nikos Koemtzìs è ostica, durissima e pure ostico e duro, ma anche pieno di oscurità poetica, è il linguaggio con cui Savvopoulos narra questa storia. Mi scuso per non aver ancora preparato un'adeguata introduzione, che apparirà a pagina completa. La pagina è ovviamente "in fieri".

Riccardo Venturi - 2013/3/7 - 02:34


Terminata la traduzione...un brivido. Si tratta ovviamente di una resa senza intenti artistici, ma mi piacerebbe che qualcuno provasse a renderla in un italiano più ritmico, sebbene sia una cosa parecchio ardua. Rimando alle note, necessarie.

Riccardo Venturi - 2013/3/7 - 15:11


La pagina è terminata con l'introduzione; tolgo l'avviso di "lavori in corso". Probabilmente, però, non finirà certo qui.

Riccardo Venturi - 2013/3/7 - 21:48


Riccardo, non ti esprimo solo gratitudine, ma compunta ammirazione per la "scavo" che sei riuscito a compiere di questa canzone complessa, terribile, sanguinante. Sei riuscito a fare il meglio che si possa sperare: hai sviscerato il testo con passione e con il rigore - anche filologico - di chi teme, ma non vuole sbagliare non la traduzione nella sua banalità, ma la comprensione ragionata di un testo che a sua volta è un tentativo di capire. E non ce lo presenti come cosa avulsa in una rarefatta pena esistenziale, ma ne hai cercato e ne riveli le radici reali, pesanti, umane e velenose. E pensare che nemmeno dieci giorni fa, né tu né io sapevamo un bel nulla della Gogou. Qualcosa mi ha incuriosito nei conversari di Giuseppina e Rosa Alba in f/b. E allora dico viva la curiosità, che apre sempre mondi nuovi e insospettati. Chissà quante sconosciute cose si aggirano sotto le superfici del mondo greco, ma che dico: del mondo tout-court. Maledizione a chi crede di sapere molto, perché sa tre cosucce di più di chi è del tutto ignaro. Parlo di me, che a volte sono tentato di esibirmi come uno che vede greco, di fronte a chi di greco è del tutto cieco. C'è molto ancora da sapere e da fare, bisogna tenere aperti gli occhi. Ho fatto mio il motto di Solomos: sempre aperti, sempre desti gli occhi della mia anima. Peccato che la vecchiaia mi induca spesso ad appisolarmi.

Gian Piero Testa - 2013/3/7 - 23:26


Verso me stesso ora, invece, esprimo quasi un senso di non sapere che cosa fare; ieri, talmente ero "immerso" in questa pagina, sono arrivato a farmi sostituire al lavoro (ma ci dovrò andare oggi, in compenso) per poterci lavorare sopra. Hai usato la parola giusta, Gian Piero: "scavo". E' esattamente quel che stavo sentendo di fare, e sto continuando (ho trovato, ad esempio, anche una versione in inglese che, fortunatamente, mi ha "corroborato" in certi punti della mia traduzione). Non mi ero mai trovato di fronte ad un testo del genere; di solito, davanti a un testo do prima un'occhiata in generale poi "attacco" (o "assalto", mi viene da dire...) in modo piuttosto rapido. Qui mi sono trovato alle perse, dubitando persino di farcela. Senza il saggio esplicativo di Andonis Gazakas di cui ho fornito il link, peraltro ammetto onestamente che in dei punti ci avrei capito poco; e tuttora, comunque, aspetterei se dovessi "licenziare alla stampa", come si diceva un tempo. Ma, comunque, credo che un senso generale quel che ho tradotto ce lo abbia, e che da questo senso appaia già bene quanto questo testo sia "terribile e sanguinante", come hai scritto in modo giusto ed efficace. Terribile e sanguinante perché doveva riaprire una ferita lontana da rimarginarsi in Grecia; di prim'acchito, infatti, nella Grecia del '79 già "democratica" questa canzone fu censurata alla radio e alla televisione statale. Censura con tanto di decreto, esposto famiglie delle vittime e quant'altro. Di qualsiasi "scavo", fatto da me o da altri, usualmente appare sulla pagina definitiva soltanto una parte; quel che non appare è ciò che si è trovato in giro, ed in giro ho trovato articoli (su blog, forum eccetera) veramente sanguinosi a proposito di questa canzone, della figura di Nikos Koemtzìs e di Savvopoulos stesso (da qualcuno minacciato di morte, senz'altri termini).

Per il resto, come sai, per il sottoscritto il rigore filologico altro non è che il principale modo per dimostrare passione verso ciò che si fa. Noialtri filologi (continuo a considerarmi tale: eris philologus in aeternum...) siamo visti un po' come una specie di "ragionieri del testo", ma senza la ragioneria filologica non esisterebbero nemmeno le sensazioni che il testo offre a chi lo legge e ascolta; e non esisterebbero il Sapere e la Memoria. Che sono e resteranno i miei demoni fino al mio ultimo momento. Scontrarsi con un testo del genere non può significare altro che andare alle radici di tutto, perché sono radici dolorose, che stridono, che fanno ancora molto male. Anche per questo dico che questa pagina "non è finita qui"; non soltanto perché avrà delle aggiunte, delle integrazioni, delle correzioni (un lavoro non è mai finito e può essere sempre migliorato), ma perché mi aspetto dei commenti di vario tenore, nel tempo. Parla di un fatto avvenuto in Grecia nel 1973, ma credo che abbia una valenza che va ben al di là della Grecia, nonostante i fatti siano basati su elementi senz'altro provenienti in modo pesante dalla cultura locale.

Già, fino a due settimane fa non sapevamo nulla di Katerina Gogou, e da Katerina Gogou sembra essere partito tutto. A questo punto è apparso chiaro che il suo album Στο Δρόμο ha un legame a doppio filo con il film su Nikos Koemtzìs; da lì tutto parte. Un film, quel Παραγγελιἀ!, di cui è stato sottolineato, tanto per ribadire la cosa, il tragico destino. Ebbe, in Grecia, un successo enorme, scatenando anche enormi polemiche (come è logico attendersi); ma è stato anche colpito, seriamente, dalla μοῖρα. Il 3 ottobre 1993 Katerina Gogou si suicidò; Nikos Koemtzìs fu trovato morto, solo, in una strada di Monastiraki, il 23 settembre 2011; pochi giorni dopo toccò al regista Pavlos Tasios, nello stesso giorno di Katerina Gogou, il 3 ottobre 2011.

Riccardo Venturi - 2013/3/8 - 09:52


Prevengo subito chi si scaglierà contro il sito pacioso per avere dato spazio (e tanta oculata fatica) a questo testo e a chi l'ha musicato. Gli antichi tragici greci, che hanno scavato come nessun altro e per tutti gli altri a venire, nelle cose umane, lo fecero maneggiando materie ancora più terribili e sanguinanti di questo, che per la sua radicalità implacabile, può andare ad aggiungersi alla mitologia del nostro tempo. La "catarsi" non la si guadagna con la censura e il silenzio, ma con il ripristino, o meglio: con l'instaurazione di rapporti umani tra gli uomini; ed il primo passo è guardare tutta la realtà, e parlarne artisticamente, come quando Perseo guardava il riflesso della Medusa senza pietrificarsi.

Gian Piero Testa - 2013/3/8 - 11:00


A Riccardo. Ti domando: forse per caso, ricostruendo il fattaccio dei fratelli Koemtzìs e approfondendo la conoscenza di Savvopoulos (che non è ancora abbastanza rappresentato in CCG, e neppure conosciamo a sufficienza), ti sei imbattuto nella cronaca sottostante alla canzone "La solitudine mortale di Alexis Aslanis", che tempo fa avevo postato qui? Sembrerebbe anch'essa una "storia esemplare" della solitudine, l'emarginazione e la rabbia, che probabilmente rientrava in un campo di osservazione del musicista, quasi che si facesse ispirare dalla cronaca più disperata.

Gian Piero Testa - 2013/3/9 - 11:12


Sinceramente no, Gian Piero, non mi ci ero imbattuto ancora; mi sa che devi aver messo quella canzone durante uno dei miei frequenti "periodi di pausa" dal sito (quando mi accadono, sono pause sul serio; nel senso che quasi non lo apro nemmeno, evidentemente oramai funziono a ricarica...). Però ci vado subito a dare una bella occhiatona. A dire il vero, nei segnalibri ho salvate un bel po' di canzoni di Savvopoulos, da "scrutare" bene; il problema, come è facilmente intuibile, è che per i testi di Savvopoulos non bastano certo scorse superficiali, bisogna leggerseli per bene e cercare di capirli. Ci vuole un po', insomma.

Riccardo Venturi - 2013/3/10 - 12:39


Meravigliosa scoperta. Grazie.

2019/6/3 - 09:35


Grazie a te! Ci piacerebbe però poterti ringraziare (e questo vale per tutti) con un nome, un nick, qualsiasi cosa. Saluti!

CCG/AWS Staff - 2019/6/3 - 09:48


Certo.
Gianluca Botteghi

2019/6/3 - 10:24


Allora ti ringrazio anche personalmente, Gianluca (sono l'autore della traduzione, del commento e delle note). A suo tempo, per fare questa pagina, ci sudai parecchio perché, te lo assicuro, è un testo molto difficile anche dal punto di vista linguistico. E' una vicenda, quella di Nikos Koemtzìs, che è tornata parecchio alla ribalta in Grecia anche in tempi molto recenti, e mi fa davvero piacere che tu la abbia scoperta perché dice parecchie cose che, secondo me, non hanno a che fare soltanto con la Grecia. Purtroppo vedo che il film "Parangelià", che la raccontavo, non è più disponibile nella sua interezza su YouTube; ne sono rimasti solo alcuni spezzoni, tra cui quello dello zeïbekiko; dovrò quindi ristrutturare un po' la pagina. Saluti carissimi, Gianluca, e grazie ancora; torna a trovarci !

Riccardo Venturi - 2019/6/3 - 19:14


Mega Andros

CArmelo - 2021/12/5 - 17:15


@ Riccardo Gullotta

Sto leggendo la traduzione siciliana. Straordinaria già alla prima lettura, ma sono abituato a farne cinque, dieci, venti finché non "entra in circolo". Ma la prima impressione è quella di essere lì, nel suo elemento naturale. Ripeto il mio parere: tutto il greco dovrebbe essere reso in siciliano.

Riccardo Venturi - 2022/10/7 - 17:28




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