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Calatafimi

Domenico Modugno
Language: Sicilian


Domenico Modugno

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[1961]
Canzone dalla commedia musicale di Garinei e Giovannini "Rinaldo in campo", con Domenico Modugno, Delia Scala, Paolo Panelli, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia
La colonna sonora fu interamente composta dallo stesso Modugno
Testo trovato su LyricWiki

Rinaldo in campo

Il brano si riferisce alla battaglia di Calatafimi (oggi Calatafimi Segesta, in provincia di Trapani), combattuta il il 15 maggio 1860 tra truppe borboniche e garibaldini. Questi ultimi costrinsero i borbonici ad una ritirata disordinata, nel corso della quale i soldati provarono a saccheggiare la cittadina di Partinico, incendiando case e infierendo sui civili, ma gli abitanti opposero resistenza, catturando ed trucidando orrendamente alcune decine di militari.
Il senso dell'orrore di quella guerra - che fu non solo guerra d'invasione ma anche fratricida - traspare chiaramente dal testo di questa canzone.
A vint'anni
siti morti
comu cani
stisi 'nterra

A vent'anni
senza cruci
e nisciunu
ca vi chianci

È rimastu sulamenti
'nu lamentu

A vint'anni
a vint'anni
nun c'è l'amuri
nun c'è 'na casa ca lassasti
nun c'è lu suli ca pirdisti
e 'na matri ca vi aspetta

Pazzi!
Pazzi!
Pazzi!

Contributed by Bernart Bartleby - 2019/8/7 - 10:48


Calatafimi e dintorni

Che la monarchia borbonica navigasse in acque agitate, ottusamente chiusa in se stessa dopo la Rivoluzione Siciliana del 1848 e isolata dalle potenze europee dell’epoca, è noto. Altrettanto noti sono il malcontento delle classi popolari e i gravi problemi derivanti da una pessima redistribuzione del reddito. Sono invece meno noti altri fatti e considerazioni in quanto sapientemente oscurati dalla nostra storiografia risorgimentale. Cito:

Il supporto rilevante dell’Inghilterra allo sbarco dei Mille per l'insurrezione in Sicilia.
I proclami e le promesse di una imminente e radicale trasformazione sociale, caduti nel vuoto.
Il consenso ed fiancheggiamento della malavita, i cui aderenti furono promossi e arruolati come patrioti.
La corruzione dei quadri militari borbonici.

A chi volesse saperne di più consiglio di dare un’occhiata agli scritti di Raffaele De Cesare, storico e deputato della destra post-risorgimentale, e di Denis Mack Smith (“La storia manipolata”, ed. Laterza). Analisi revisioniste di tagli diversi ma concordi nel denunciare la retorica e l’appropriazione della storia da parte della monarchia sabauda e delle classi dominanti sono state condotte con serietà da Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Piero Gobetti , Antonio Gramsci, Lorenzo Del Boca. Per obiettività cito anche Rosario Romeo che invece contestò la tesi di Gramsci, sostenendo che il quadro internazionale era tale da non consentire una trasformazione sociale radicale come era nelle aspettative della classe contadina meridionale.

Quanto al ruolo della malavita basti ricordare un nome per tutti, quello di Salvatore De Crescenzo, capo indiscusso della camorra a Napoli nel 1860. A lui e ai suoi scherani fu chiesto di mantenere l’ordine pubblico per favorire l’ingresso di Garibaldi nella città. I camorristi furono perciò arruolati nella “Guardia cittadina” ottenendo da quel faccendiere borbonico double face di Liborio Romano (poi deputato del Regno d’Italia) l’amnistia ed uno stipendio a tempo indeterminato. Gli stessi, in divisa e armati, ebbero a farsi beffe del “nuovo” che bussava quando furono chiamati a vigilare le urne durante il Plebiscito di annessione. Un dettaglio: il voto era palese. Non è una fiction sulle Bananas, è storia.

In particolare , sulla battaglia di Calatafimi occorre rammentare che le truppe borboniche erano superiori per numero, logistica ed addestramento alle truppe garibaldine,3.000 contro 1000 garibaldini e 500 volontari siciliani. Orbene, proprio quando questi ultimi erano sul punto di essere sconfitti, i borbonici ricevettero l’ordine di ritirarsi dal generale Francesco Landi. Un ordine analogo di ritirata lo stesso Landi lo diede al colonnello Giovanni Luca Von Mechel mentre questi aveva decisamente la meglio sui Mille a Palermo.

Tali episodi mi fanno venire in mente l’attitudine italiota di tessere contati lirici con il nemico (o gli avversari). Un’attitudine che persiste, a dispetto dei tempi e della divulgazione (scarsa). Ad esempio, le numerose amicizie tra alcuni esponenti italiani e i quadri militari iracheni durante il loro addestramento a Roma presso una società aerospaziale negli anni ’70 e ’80 furono determinanti per ottenere informazioni durante la guerra del Golfo, in cambio presumibilmente di salvacondotti e vantaggi economici. Di ogni postazione armata tra Bassora e Baghdad si conoscevano le coordinate e la consistenza. Si spiega così la eccessiva facilità di avanzamento delle truppe americane ( per di più senza protezioni antigas, comportamento piuttosto anomalo per chi sosteneva sino al giorno prima che gli iracheni disponevano di ingenti quantità di armi di distruzione di massa). Guicciardini se la ride.

Ciò premesso, dichiaro di non avere alcuna nostalgia per il Giglio borbonico. Restano fermi il merito di Garibaldi , l’acume politico di Cavour e la funzione storica del Risorgimento. La Questione meridionale rimane (e i trucisti affabulatori ne percepiranno a breve una misura).
A ciascuno il suo.

Riccardo Gullotta - 2019/8/7 - 14:26


Grazie Riccardo Gullotta per l'approfondimento storico.

Ma il generale borbonico Francesco Landi fu solo un inetto o un traditore?

E Garibaldi usò davvero i "picciotti" di mafia per la sua avanzata, salvo poi far massacrare la popolazione in quel di Bronte proprio in questi giorni di agosto di 159 anni fa?

Saluti

B.B. - 2019/8/8 - 13:28


@ B.B.

Landi fu scagionato dall’accusa di avere ricevuto un titolo di credito dal nemico. Che Landi non fosse un generale dinamico e un asso nella strategia è un fatto, ma da qui all’ inettitudine ce ne corre. Giustamente è stato osservato che i corrotti sono di norma avveduti e propendono per l’oro o valori facilmente liquidabili e non per i titoli di credito , che invece erano il perno dell’accusa nei circoli borbonici. Garibaldi scrisse, su richiesta del figlio di Landi, una lettera in cui dichiarò di non avere ammorbidito Landi per conseguire vantaggi sul piano militare. Ma più di un dubbio tuttavia rimane : avrebbe mai potuto l’eroe dei due mondi lasciare qualche sospetto che avrebbe minato alla base l’azione e la politica sua e dei suoi sostenitori ? D’altra parte non possiamo dare retta agli scritti smaccatamente di parte di don Giuseppe Buttà, cappellano militare borbonico ( un tris unico, con l’aggravante dell’ossimoro “cappellano militare”).Tuttavia , nonostante il mio orientamento verso una categoria che non dovrebbe esistere da un pezzo, in un momento di parziale serenità debbo ammettere che qualcosa di vero nei volumi di Buttà ci deve pur essere, non foss’altro che per un fenomeno statistico: impossibile costruire soltanto fakes e argomentazioni di comodo in centinaia di pagine. Peraltro l’interesse, moderato, di Sciascia che scrisse questa prefazione [http://www.naso-messina.it/sciascia_bu...] alla edizione dell’opera conferma tale mia impressione.

Quanto ai picciotti ovviamente soltanto una minoranza dei volontari siciliani al seguito di Garibaldi provenivano da ambienti contigui alla criminalità rurale (la mafia nelle città era al di là da venire). Cito un passo estratto dal libro ed. 1984 di Rosario Minna “Breve storia della mafia” (prestare attenzione al passaggio in cui si parla di Filippo Cordova. No, non correva l'anno 1967 , era il 1867: certi cortocircuiti non sono una fissazione della Procura di Palermo o della Dia calabrese ma vengono da lontano ,ove lontano si riferisce non solo al tempo ma anche alla geografia):

"Nel 1860 Garibaldi sbarcò in Sicilia, ed è storia riconosciuta da tutti che i suoi sistemi da guerriglia ricevettero un aiuto determinante dai "picciotti" dell'isola, dai contadini arruolati per Garibaldi dai nobili, come Rosolino Pilo dei conti di Capaci. Molti dei picciotti seguirono Garibaldi, e per due ragioni: prima di tutto per il "cordone ombelicale" che ancora nel 1860 legava indissolubilmente nobili e plebe in Sicilia; ma anche perché al Popolo arrivò l'idea generica ma trascinante che la libertà di Garibaldi sarebbe stata accompagnata da misure economiche in agricoltura, favorevoli ai più poveri. Altrettanto fuor di dubbio è che alcuni mafiosi - non molti, né determinanti - aiutarono Garibaldi. Nelle campagne donde uscivano i picciotti garibaldini, i mafiosi avevano armi e cavalli e già facevano, per mestiere e natura, i capipopolo e conoscevano strade e percorsi ad altri ignoti, ragion per cui si adattarono perfettamente alla guerriglia sudamericana in cui il Generale era esperto.

Ma c'è di più: uno storico liberal-moderato, il senatore del Regno Raffaele De Cesare, testimone diretto, amico e confidente di molti protagonisti di quei tempi, ha scritto che già sul finire del 1859 i liberali italianizzanti di Palermo avevano commissionato alla mafia l'incarico di uccidere Maniscalco, intelligente capo della polizia borbonica e perciò il primo degli ostacoli per la futura rivoluzione, che proprio quei nobili andavano preparando in vari comitati. In uno di questi gruppi figurò Filippo Cordova, poi Gran Maestro della Massoneria italiana nel 1867.

Sicurissima e ben documentata, infine, è rimasta la presenza nelle file garibaldine dei mafiosi Miceli e Badia e di altri meno noti. Finito lo shock dell'epopea garibaldina – con il suo carico di picciotti messi al muro quando volevano prendere davvero qualche proprietà agraria anche loro - a Palermo sbarcarono i piemontesi. Ma Palermo non fu immobile: molti erano i "revenants" dagli esili e dalle galere borboniche, e qualcuno fra costoro ebbe preoccupazione di sistemare i propri conti; molti erano i garibaldini che volevano spazzare tutto il vecchio e agitavano la bandiera della democrazia; tanti furono "i siciliani intelligenti" che - come notò il console inglese Goodwin poco prima dell'arrivo di Garibaldi - tenevano soprattutto all'autonomia. Tutti i possidenti intendevano respingere ogni assalto al regime giuridico e sociale su cui si poggiava, dal tempo dei tempi, la loro proprietà. I numerosi borbonici sicuri cominciarono a riprendersi dalla stupefacente e velocissima caduta dei regno (e fra l'altro Francesca II di Borbone avrà sempre buoni voti nelle prime elezioni siciliane).

In Sicilia col 1860 arrivò la politica, che fra l'altro significò direttamente e immediatamente elezioni pubbliche per quasi tutte le cariche. Accaddero, così, episodi particolari: il barone di Alcamo sequestrò la vettura con il nuovo intendente, che andava ad Alcamo proprio per dirigere le operazioni elettorali; alcuni girarono le case degli elettori e passarono la lista delle persone da votare se non si volevano "soffrire dispiacenze"; un deputato nazionale fu il mandante di chi sparò contro il consigliere di Corte d'appello Guccione, che era stato garibaldino, e il cui assassino si rifugiò nella villetta di un avvocato di Palermo; altri due garibaldini, sempre a Palermo, si videro presi a fucilate, e per uno di essi qualcuno s'affretterà a stabilire che "gli è toccata perché a danno di altri contentava tre o quattro innamorate, a parte della giovane moglie".

Ma a questi fatti, da non valutare più di quello che sono, si aggiunsero, subito nel 1860-1861, problemi politici di grande rilevanza. Nell'ottobre 1860 Garibaldi costituì a Palermo un Consiglio straordinario di Stato, in cui entrarono anche intellettuali illustri come Michele Amari, come Perez, come Ferrara. Questi affermarono che bisognava tener conto delle caratteristiche peculiari della Sicilia e che quindi all'isola doveva essere concessa una consistente autonomia. Fu la linea politica della "annessione condizionata" al Piemonte. Il governo italiano, invece, dopo la morte di Cavour, era rappresentato dalla Destra storica, che fu molto meno forte di quanto volle e cercò di essere. In Sicilia respinse ogni istanza autonomistica e democratica e, come fece del resto per tutto il Mezzogiorno, scelse la linea politica dei moderati, quella della "annessione incondizionata" dell'isola al Piemonte: repressione feroce di ogni anarchia antiunitaria.

Occorreva cioè "centralizzare, addossare carichi alla stremata economia meridionale, monopolizzare il potere"; occorreva estromettere i garibaldini dalle strutture amministrative dove si erano infiltrati nel breve periodo di potere effettivo di Garibaldi e perseguitarli capillarmente. Ha scritto lo storico Franco Molfese che in questo modo la classe politica allora dominante non seppe neppure "appropriarsi al momento opportuno, che può anche essere il momento critico, delle istanze fondate o quantomeno di una parte essenziale delle istanze fondate" che agitava l'opposizione. Eppure un consiglio analogo era venuto al governo già nel 1861, da Diomede Pantaleoni, che era stato mandato in Sicilia dallo stesso governo per riferire sulla situazione reale dell'isola. In Sicilia la linea governativa scontentò quasi tutti; e nel settembre del 1866 scoppiò a Palermo "la rivolta del sette e mezzo", che durò - come dice il suo nome - poco più di una settimana. La rivolta "fu moto istintivo, caotico, nebuloso, senza mete", e una scintilla qualsiasi coagulò i sentimenti antigovernativi maturati un po' dovunque nei - sei anni di governo unitario. Vi parteciparono - senza alcun collegamento organico fra loro - preti e garibaldini, borbonici e repubblicani, e tutta la miseria del popolo palermitano; vi ebbe occasione di distinguersi più d'un gruppo mafioso, fra cui il celebre capomafia Turi Miceli da Monreale - quella Monreale da cui altri mafiosi di nome Miceli, nel 1950, consegneranno il bandito Giuliano ai carabinieri. La rivolta, in sostanza, non uscì da Palermo e fu stroncata in breve tempo dalle truppe del generale Cadorna."

Mi è sembrato importante contribuire con una goccia di informazioni a fare relativa chiarezza e a rivedere in maniera critica un pezzo di storia che non siamo ancora in grado di affrontare con il distacco dello storico dato che molte problematiche di allora purtroppo gravano, e come !, nella società di oggi.

Riccardo Gullotta - 2019/8/9 - 22:42




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