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Lingua: Italiano (Emiliano Parmigiano )


Lista delle versioni e commenti



Poesia di Renzo Pezzani
Dalla raccolta Oc' Luster ("Occhi lustri"), 1950

assassinioanviti


Retropensieri

Se in tutto e per tutto ci dev'essere una storia, la mia con il poeta parmigiano Renzo Pezzani comincia molto tempo fa. Nato a Parma nel 1898, fu maestro elementare; e, probabilmente, anche per questo motivo aveva scritto parecchie poesie educative per ragazzi, che “ai miei tempi” (oramai, mi sa, posso dire così...) godevano di parecchia considerazione e di parecchio spazio sul “sussidiario”. Il “sussidiario” era, nelle scuole elementari, il secondo libro di testo affiancato al libro di scuola principale che comprendeva tutte le materie; conteneva problemi di aritmetica, letture e tutto ciò che poteva servire a completare ciò che s'intendeva per studio di base. Forse mi sarei dimenticato, e probabilmente mi dimenticai, di Renzo Pezzani; ma ho una stranissima, particolare e micidiale “memoria lunga”, della quale non sono minimamente responsabile e che non di rado sconcerta persino me stesso e mi permette di tenere a mente cose e particolari per decenni e decenni. Così, quand'ero studente universitario (un po' dopo, ma son sempre molti anni fa), per un esame di “biblioteconomia e bibliografia” mi fu ordinato di andare a schedare, con tanto di classificazione Dewey, centocinquanta vecchi libri della Biblioteca Nazionale Centrale. Tra i quali mi ritrovai la raccolta di poesie Oc' Luster, pubblicata dalla casa editrice Famijia Pramzana nel 1950 e indovinate di chi: di Renzo Pezzani. Mi tornarono subito a mente le poesie del sussidiario delle elementari, e mi misi quindi a leggere le poesie della raccolta invece di limitarmi a schedare il libro; o meglio, a tentare di leggerle, visto che erano in dialetto parmigiano stretto. Capendo e intuendo alla bell'e meglio, mi accorsi comunque che si trattava di poesie ben diverse da quelle educative delle elementari; altro che! Tra le quali, questa “Anviti” che, veramente, non mi si è più cancellata dalla memoria e che oggi, pur negli “Extra” giustificati dal fatto che non c'è e non c'è mai stata una musica, vorrei farvi leggere e conoscere. Un episodio storico, illuminante ancorché terrificante, avvenuto nella Parma del 1859, in pieno Risorgimento.

Renzo Pezzani.
Renzo Pezzani.
La poesia parla del massacro del conte Luigi Anviti, nato a Piacenza nel 1810 e descritto già da giovane come “vantatore, millantatore, tutto prepotenze e stravaganze”; con queste doti, va quasi da sé che, nella Parma degli anni '40 e '50 del XIX secolo, fosse diventato il capo della polizia ducale. Compito che svolse con zelo agli ordini del duca Carlo III, che però rimase assassinato nel 1854 dal calzolaio Carra con un colpo ben assestato di trincetto (al Carra fu intitolato poi un borgo dell'Oltretorrente protagonista della rivolta antifascista del 1922, poi fatto radere al suolo dalle autorità fasciste). Lo stesso Luigi Anviti, noto per le angherie e le brutalità che riservava alla popolazione, fu fatto segno di un attentato quando un cittadino gli sparò alle spalle; il colpevole fuggì all'estero, ed in sua vece l'Anviti fece arrestare, condannare e fucilare due innocenti, Andrea Carlini e Francesco Panizza. Logico che Luigi Anviti fosse, ad un certo punto, diventato l'uomo più odiato di Parma.

Il popolo di Parma era considerato, all'epoca (ma ne diede prova anche ben dopo) come indomito e assai fiero, e di una fierezza che poteva arrivare alla ferocia; con la caduta del Ducato, Luigi Anviti pensò quindi bene di darsela a gambe e di scappare nelle Romagne, dove rimase ben nascosto fin quando, nel 1859, ritenne che le acque si fossero calmate e che, quindi, poteva tornarsene nella natia Piacenza. Il 5 ottobre 1859 intraprese quindi il viaggio, compiendo però un errore madornale. Invece di viaggiare in un'anonima carrozza, decise di prendere il treno.

Si trattava del famoso “Treno Rosso”, inaugurato da poco sulla linea tra Bologna e Piacenza e che, allora, viaggiava ancora a titolo sperimentale. “Un treno di lusso, lontana destinazione”, avrebbe detto Guccini; pochissimi si potevano permettere di pagare il costosissimo biglietto. Quando si fermava nelle stazioni, era un'attrazione per tutta la popolazione; e, disgraziatamente per l'Anviti, si fermò anche a Parma. Durante la sosta in stazione, qualcuno lo riconobbe; in pochi minuti, una folla inferocita, che non aveva dimenticato per nulla le angherie, le bastonature e le fucilazioni del vecchio capo della polizia ducale, lo tirò fuori a forza dal treno e si mise letteralmente a linciarlo. Intervenne allora una pattuglia di carabinieri che pose fine al pestaggio e lo mise agli arresti nella caserma che si trovava nei pressi dell'attuale Hotel Stendhal; e qui si dice che gli fu offerta la possibilità di suicidarsi. Ma non si sa se rifiutò, o se non fece in tempo. Fuori della caserma si era radunata infatti mezza Parma, e non era certamente un bel vedere. In breve, la folla riuscì a irrompere nella caserma e a sopraffare i carabinieri; e Luigi Anviti fu letteralmente fatto a pezzi.

Ammazzatolo con botte, bastonate e pugnalate, Anviti fu trascinato già cadavere al Caffè degli Svizzeri, dov'era solito andare ostentatamente a prendere il caffè; qui fu decapitato. Il corpo senza testa fu attaccato a un cavallo e trascinato per le vie della città. La testa staccata fu invece messa su un tavolo del locale, e le fu fatta trangugiare una tazza di caffè mentre qualcuno le aveva ficcato in bocca un sigaro acceso. La testa di Anviti fu poi portata, ironia della sorte, all' “Ara dell'Amicizia” (una colonna settecentesca opera dell'architetto Petitot, poi demolita proprio a causa di questo episodio), e qui impiccata con davanti una torcia a vento in modo che fosse sempre illuminata e ben visibile. Il corpo, dopo essere stato trascinato per tutta Parma, fu squartato; i genitali furono inchiodati sulla porta della casa della sua amante (un episodio ricordato, sebbene in forma edulcorata, anche nella poesia del Pezzani).

Il massacro di Luigi Anviti dirà ben poco, adesso, anche nella stessa Parma; ma, allora, provocò un eco enorme in tutta Europa, tanto da farne parlare persino il francese “Journal des Débats” e il “Times” di Londra con corrispondenze dettagliate. I giornali si chiedevano come avessero potuto le autorità cittadine non impedire un simile scempio, ma venne presto e facilmente fuori che non soltanto non lo avevano impedito, ma lo avevano persino incoraggiato. La fine del dominio borbonico a Parma veniva macchiata dal sangue, sebbene non si trattasse di sangue innocente. Fu scritto anche, però, che tra le conseguenze del massacro di Luigi Anviti vi fosse stata anche quella di convincere definitivamente Napoleone III che la restaurazione, in Italia, degli antichi principati era cosa oramai impossibile, e che le popolazioni ed anche le autorità avevano fatto un'altra scelta.

Comunque la si voglia vedere, e consegnato questo episodio alla Storia (sebbene oramai pochissimo nota), si tratta di un fatto che conobbi attraverso la poesia di Renzo Pezzani, colui che fino agli anni universitari avevo creduto soltanto autore di poesiole “virtuose” per i ragazzini delle elementari. Schedai il suo libro, andai a fare l'esame e più di trent'anni dopo, lo scorso settembre, mi trovavo a Parma per una manifestazione antifascista in Oltretorrente, organizzata proprio per ricordare le barricate dell'agosto del 1922. Passando per via Bixio, vale a dire proprio nelle vicinanze del vecchio Borgo Carra, mi sono ritrovato davanti alla lapide che ricordava come in quella data casa fosse nato e avesse abitato il poeta Renzo Pezzani. Così m'è tornato a mente pure quel che accadde al capo della polizia Anviti, magari con qualche fugace e indicibile retropensiero su certi poliziotti del luglio del 2001, su Bolzaneti, su macellerie messicane e su quant'altro. Retropensieri, appunto, in questa storia che di retropensieri è fatta. Retropensieri forse da cacciare via, e alla svelta.

Fra le altre cose, è stato difficilissimo ritrovare in Rete il testo della poesia del Pezzani; mi è riuscito, e la cosa è ironicamente curiosa, da un documento .PDF del Rotary Club di Parma. [RV]

prpezzani
Un fis’c da la corta ch’al pär na cortläda
l’avisa Giovan ch’i l’aspeten zo in sträda.
Al pianta la lesna in-t-al legn dal banchett,
al s’metta ’l tabar, un caplass da congiura...
Gh’è un’aria p’r i borogh ch’la mètta paura:
dill donni ch’a scapa, dla genta muciäda,
dill fnestri ch’as sära. Che brutta giornäda!

A còrra la vöza che Anviti l’è a Pärma.
L’è gnu zo dal treno e i l’arén za massè,
mo i carabiner i l’àn scös in caserma.
– La jena l’è in trapla! La n’gh’à pu la frusta!
- L’è fnida la storia dla «slepa robusta»!
– Anviti! Se anca dal temp n’è passè
am bruza la facia di s’ciaf ch’at m’è dè. –

Dal strädi pu torti, dai borogh pu scur
la genta la còrra cme il ponghi a drè ’l mur.
La s’muccia, l’è inchieta, la bräva sotvoza.
A pära ch’la speta ch’igh daghen la cröza:
gh’è un frär col martel, gh’è von con na sapa
- Ragass! L’è lì denter. Andemel a tör!
– Bruzämma la porta!... Sti atent ch’al ne scapa! –

Za dj ommi con glj ongi i cävon i sass,
i tir’n in-t-i vedor, i dan fögh ai fass
davanti a la porta... Nisson ch’a pardon’na.
Gh’è inveci chi speta col cör ch’a sangon’na
ch’a passa la nuvla, ch’a s’vuda la sträda;
dla genta ch’a prega, dla genta pu bon’na
ch’a guärda dal grigli dla fnestra saräda

Na dònna spetnäda, vestida de strass,
il man sora i fianch, una lengua ch’a taja,
l’è in mez a la sträda ch’la siga, la sbraja:
- Vigliach, iv paura? Coragio, ragass!
Andì a tor un träv e sfondemma la porta. –
In mez a la genta se sconda la morta,
la morta spetnäda, vestida de strass.

I porten al träv cme na cröza. I fan l’onda
e i dizen «Anviti», cme s’diz n’orassion.
«Anviti» e «Anviti» in coll picaporton,
«Anviti» davanti la porta ch’se sfonda,
«Anviti» e la porta la sta za pär cedor,
«Anviti» e la porta la casca dabon...
– Ragass, a gh’è un litor äd sangov da bevor!

La porta l’è averta. La genta ch’a lansa
la serca la levra, la ruga ogni stansa
e sott a na tävla l’al cata cucè,
pu bianch d’una tvaja, ch’al dmanda pardon,
mo agh tremma la vöza e n’al senta nisson.
– Anviti l’è noster! Il tiron p’r i pè.
Il pòrton in sträda za ’d sangov macè.

Il pist’n, i s’al bùtten,i gh’strassen il bräghi.
L’è nud, l’è za mort e ’l n’è ormäi pu che un strass,
e al lassa in do’ ’l tòcca, cmè lassa il lumäghi,
na strissla, pu rossa dal sang’v, in-t-i sass,
na strissla in-t-la sträda ch’la pär un silach
dla frusta che Anviti al droväva na volta
pär där a la genta pär batros i tach.

La genta la gira col mort p’r il strä’ mestri.
A pära ch’i l’abion strassè da na cröza.
Vo’ al diz: – Al so mi in do’ ’l gh’à la morosa! –
e tutta la genta l’è sott a do fnestri.
I ciamen la bela ch’la s’faga al pogiöl,
i canten, i balen, i gh’dmanden s’l’al völ:
– L’è chì ch’al t’aspeta! – L’à ditt ch’al te sposa! –

Ed ecco ch’i scapen. Ariva i rinfors!
La sira l’è pien’na äd nuvlassi e ’d rimors.
La genta l’è tùtta saräda in-t-il cà
e dj ommi in silensi i s’lävon il man.
I s’lävon, i se sguren con l’aqua e ’l savon,
mo al sangov d’Anviti n’al läva nisson.
E Pärma gentila la gh’dmanda pardon.

inviata da Riccardo Venturi - 24/10/2015 - 02:47



Lingua: Italiano

Il testo in italiano
A cura di R.V. e Daniela -k.d.-

ocluster


Due parole dai traduttori. La poesia dialettale non si “traduce”; si scrive un testo in lingua che accompagni quello originale, e basta. A parte i casi in cui poeti dialettali di vaglio (come, ad esempio, Albino Pierro) hanno personalmente accompagnato le loro raccolte con traduzioni letterali da loro stessi preparati, è generalmente da presupporre che poesie come quelle di Renzo Pezzani siano state redatte esclusivamente per un pubblico locale, e quindi pienamente capace d'intendere ciò che vi era scritto. Detto questo, va da sé che per l' “Anviti” del Pezzani, già pochissimo presente in Rete, non esistesse (e, probabilmente, non sia mai esistita) una versione in lingua italiana; eccola qui, preparata da un inedito R.V. in versione parmigiana e, sic, dalla piacentina Daniela -k.d.-, vale a dire proprio da una concittadina del terribile capo della polizia che fece una fine ancor più terribile. Avvertenza: i due dialetti sono senz'altro parecchio simili, ma non sono identici; vi potrebbe essere quindi qualcosa su cui un parmigiano “doc” potrebbe avere qualcosa da ridire (e, se lo avesse e capitasse su questo sito, ridica pure ché sarà il benvenuto). Una parola del testo avrebbe senz'altro suscitato la curiosità di Gian Piero Testa: quel ponghi dal significato di “ratti, topi di fogna”. Vi avrebbe senz'altro riconosciuto una parola greca: “topo” in greco si dice ποντίκι [pondíki], del tutto identica, ad esempio, al piacentino pondga (che Daniela -k.d.- considera però arcaica e poco usata adesso). Questo autentico grecismo emiliano deriva in ultima analisi dall'antico ποντικὸν μῦς, alla lettera “topo del Ponto”, ovvero del Mar Nero. Che cosa avessero di particolare i topi del Mar Nero per arrivare fino a Parma e Piacenza, però, si ignora.
ANVITI

Un fischio dalla corte che sembra una coltellata
avvisa Giovanni che lo aspettino giù in strada
Lui pianta la lesina nel legno del banchetto,
si mette il tabarro e un cappellaccio da congiura...
C'è un'aria per i borghi che mette paura:
donne che scappano, gente ammucchiata,
finestre che si chiudono. Che brutta giornata!

Corre la voce che Anviti è a Parma.
E' sceso dal treno e lo avrebbero bell'e ammazzato,
ma i Carabinieri lo han portato in caserma.
“La jena è in trappola! Non ha più la frusta!
E' finita la storia del 'ceffone robusto!'
Anviti! Se anche ne è passato di tempo,
mi brucia la faccia dagli schiaffi che mi hai dato.”

Dalle strade più torte, dai borghi più oscuri
la gente corre come i topi di fogna lungo il muro.
Si ammassa, è inquieta, litiga sottovoce.
Sembra che aspetti che gli dian la croce:
c'è un fabbro col martello, uno con una zappa.
“Ragazzi! E' lì dentro. Andiamolo a prendere!
Bruciamo la porta!...Attenti che ci scappa!”

Già uomini con le unghie cavano le pietre,
le tiran sui vetri, danno fuoco alle fascine
davanti alla porta....Nessuno che perdona.
C'è inveche chi aspetta col cuore che sanguina
che passi la nuvola, che si svuoti la strada;
gente che pregha, gente più buona
che guarda dalle inferriate della finestra chiusa.

Una donna spettinata, vestita di stracci,
le mani sui fianchi, una lingua tagliente,
è in mezzo alla strada che urla e sbraita:
“Vigliacchi, avete paura? Coraggio, ragazzi!
Andate a prendere una trave e sfondiamo la porta.”
In mezzo alla gente si nasconde la morte,
la morte spettinata, vestita di stracci.

Portan la trave come una croce, fanno l'onda
e dicono: “Anviti”, come si dice una preghiera.
“Anviti” e “Anviti” picchiando al battente,
“Anviti” davanti alla porta che si sfonda,
“Anviti” e la porta già sta per cedere,
“Anviti” e la porta casca giù davvero...
“Ragazzi, c'è un litro di sangue da bere!”

La porta è aperta. La gente che lancia
la caccia alla lepre, fruga in ogni stanza
e sotto un tavolo lo trova accucciato,
più bianco di una tovaglia, che domanda perdono,
ora gli trema la voce e non lo sente nessuno
“Anviti è nostro!” Lo tiran per i piedi.
Lo portano in strada già sporco di sangue.

Lo pestano, ci si buttan sopra, gli strappan le brache.
E' nudo, è già morto, ormai non è altro che uno straccio,
e lascia dove tocca, come lascian le lumache,
una striscia, più rossa del sangue, sul selciato,
una striscia sulla strada che sembra uno schiocco
della frusta che Anviti adoperava una volta
per picchiare la gente e per farla sloggiare.

La gente gira col morto per le strade maestre,
sembra che lo abbiano tirato giù da una croce.
Uno dice: “So io dove sta la sua amante!”
e tutta la gente è a due finestre.
Chiaman la bella che si affacci al davanzale,
cantano, ballano, le domandano se lo vuole:
“E' qui che ti aspetta! Ha detto che ti sposa!”

Ed ecco che scappano. Arrivano i rinforzi!
La sera è piena di nuvolaglie e di rimorso
La gente se ne sta tutta chiusa in casa
e degli uomini in silenzio si lavan le mani.
Si lavano, si sciacquano con l'acqua e il sapone,
ma il sangue di Anviti non lo lava nessuno.
E Parma gentile gli chiede perdono.

24/10/2015 - 20:09




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