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Canzone della Rabata

Rocco Scotellaro
Language: Italian (Lucano)


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[immediato secondo Dopoguerra]
Si tratta di alcune strofe - qui non complete - scritte da Rocco Scotellaro insieme ad alcuni contadini (fra i quali tali Rocco Tammone, Giuseppe Cetani e Giuseppe Paradiso) della Ràbata, antico quartiere di origine araba di Tricarico, provincia di Matera, Basilicata.



Una canzone “di dolore e di ribellione, di rampogna e di minaccia”, un testo fluido che “ha continuato a nascere e crescere, ribelle a qualsiasi lavoro di fissazione definitiva”, come ebbe a dire Ernesto De Martino nel suo “Furore, simbolo, valore” (Il Saggiatore, 1962), saggio nato frequentando i quartieri poveri dei paesi poverissimi della Lucania, da cui traggo le strofe che vado a contribuire.

“La strofa esige alcune delucidazioni per la comprensione. La Rabata, dice, è tutta una rovina e in essa, come in una specie di bolgia, gli uomini si vanno tendendo le mani l'uno verso l'altro, chiedendosi a vicenda aiuto. Le promesse di strade e di latrine sono rimaste lettera morta, in realtà è stata rimessa a nuovo soltanto la piazzetta dell’arcivescovado (le chiazzette a l'assassine!). Ma la cuccagna deve finire, annunzia il ritornello, le differenze di classe debbono essere abolite e se qualcuno resisterà saranno botte. Le condizioni semibestiali di vita a cui i contadini sono condannati, l’irrisione di cui sono oggetto da parte dei ‘signori’, la consapevolezza della irriducibile opposizione tra mondo contadino e mondo padronale e insieme l’orgogliosa coscienza che i contadini della Rabata, considerati dei selvaggi, quasi bestie che mangiano e dormono insieme alle bestie, sono in realtà ‘la giovinezza del mondo’.” (Ernesto De Martino, nella sua opera sopra citata)
La Rabata è tutta ruvinata
andiamo facendo sempre frate o frate.
Promettono le strade e le latrine
poi fanno le chiazzette a l'assassine.

[Ritornello]
Adda fernesce sta cuccagna
cà aimmo essere tutti cumpagne
e se nun ce vulite stà
le mazzate hann'a camminà

[…]

Ce chiammeno Zulù e beduine
ca nuie mangiamme assieme a le galline.
Int'a' Rabata nun ce sò signure
nun c'è né Turati né Santoro.

Nuie simme a’ mamma d'a' bellezza
nuie simme nè trifugghie e neanche avezza.
[…]

Voi che fate l'intelligente
non capite proprio niente.
Se nun fosse pe' li cafoni
ve mangiassive li cuglioni.

Contributed by Bernart Bartleby - 2014/5/30 - 13:05



Language: Italian

Traduzione italiana di Sergio D’Amaro dalla rivista Il Ponte (anno LXX, n. 3, marzo 2014), mensile di politica e letteratura fondata a Firenze nel 1945 da Piero Calamandrei.
CANZONE DELLA RÀBATA

La Ràbata è tutta rovinata
andiamo facendo sempre frate o frate.
Promettono le strade e le latrine
poi fanno le piazzette agli assassini.

Deve finire questa cuccagna
ché dobbiamo essere tutti compagni
e se non ci volete stare
le mazzate devono correre

[…]

Ci chiamano zulù e beduini
ché mangiamo assieme alle galline.
Nella Ràbata non ci sono signori
non c’è né Turati né Santoro

Noi siamo la mamma della bellezza
Noi non siamo né trifoglio e nemmeno avanzi (*)
[…]

Voi che fate gli intelligenti
non capite proprio niente.
Se non fosse per i cafoni
vi mangereste i coglioni

(*) La traduzione di questo frammento di strofa è mia, e non è detto per nulla che sia corretta…

Contributed by Bernart Bartleby - 2014/5/30 - 13:28


infatti l'avezza dovrebbe essere un cereale

2019/7/2 - 23:10




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