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Aquae Mundi

Daniele Biacchessi
Language: Italian


Daniele Biacchessi


Il notaio avanzò verso di noi e lesse l’accordo intervenuto tra la popolazione di Fontamara e l’Impresario, per la spartizione del ruscello.

“L’accordo è chiarissimo”, disse.

“Tre quarti dell’acqua andranno nel nuovo letto tracciato dal Comune e i tre quarti dell’acqua che resta continueranno a scorrere nel vecchio fosso”.

“Non è così”, protestò subito e giustamente Pilato.

“L’accordo dice tre quarti e tre quarti. Nient’altro. Dunque metà e metà. Cioè, tre quarti a noi, tre quarti all’Impresario. Tanto per ciascuno”.

“Ma no, ma no”, si mise a gridare Losurdo.

“L’accordo non è così. L’accordo dice che noi dobbiamo avere i tre quarti dell’acqua e il resto, se c’è un resto, ma siccome l’acqua è poca, è possibile che neppure ci sia, il resto andrà all’Impresario e anche così soffriamo un torto.”

“tre quarti e tre questa è una diavoleria”, dissi io perdendo la pazienza.

“Mai si è sentita una simile stranezza. La verità è che l’acqua è di Fontamara, e deve restare a Fontamara.”

Ignazio Silone, Fontamara, grazie.



Sapete quanti litri compongono un metro cubo d’acqua?

Calma, non disperatevi, ve lo dico io.

Un metro cubo d’acqua corrisponde a 1000 litri precisi.



Sapete quanti metri cubi d’acqua consumano gli italiani ogni anno?

Ogni mese? Ogni giorno? Ogni ora? Ogni minuto? Ogni secondo?

E quanto consumano gli europei?

E gli abitanti dei paesi sviluppati?

E quelli che vivono nel mondo più povero?



Il 71 per cento del pianeta è coperto dall’acqua, ma molta è salata e costa troppo renderla potabile.

Resta il 2,5 per cento, 35 milioni di chilometri cubi.

L’acqua è inglobata in ghiacciai e nevi perenni e nel sottosuolo.

Poca, pochissima, si trova nei laghi e nei fiumi.

A livello globale l’acqua è utilizzata in agricoltura, nell’industria, pochissima finisce nelle case e negli uffici.

La disponibilità reale è circa l’1 per cento del totale dell’acqua dolce.

Potrebbe bastare?

Potrebbe bastare, se la distribuzione fosse omogenea.

Le risorse idriche mondiali si trovano soprattutto in 13 paesi.

Il Brasile, da solo, ne possiede quasi il 15 per cento. .

All’altro estremo della classifica, troviamo un numero enorme di paesi con una disponibilità pro capite inferiore ai 1.000 metri cubi l’anno.

Nel mondo 884 milioni persone non hanno accesso all’acqua potabile e 2,6 miliardi vivono in condizioni igienico-sanitarie insufficienti.

5 milioni di persone muoiono ogni anno per malattie legate all’acqua, di cui 4.900 bambini al giorno, tre volte più di quelli che nascono ogni giorno in Italia.

La differenza nei consumi d’acqua tra uno statunitense e un africano è spaventosa, abissale.

425 litri al giorno in America, 10 in Africa.

Ci sono luoghi del mondo dove questa terribile sproporzione diventa fisica.

A Johannesburg, in Sudafrica, c’è una strada che divide il mondo ricco da quello povero.

Da un lato c’è un quartiere residenziale con ville bellissime, con due o tre piscine, dove i bevono acqua, si lavano e giocano nell’acqua.

Sotto la strada scorre un tubo.

Lo scarico dell’acqua dei ricchi finisce dall’altro lato della strada dove i bambini si lavano nelle pozzanghere di un quartiere di baracche.

E questo accade in centinaia di luoghi del pianeta.

Nelle poblaciones di Santiago del Cile, Salvador City, Città del Messico, Rio De Janeiro, Buenos Aires, nei ghetti delle grandi capitali africane e asiatiche.

Ci sono luoghi del mondo dove i bambini sono costretti a percorrere lunghe distanze per rifornire le loro famiglie di acqua.

Due o tre bambini si caricano sulle spalle fino a 100 chilogrammi, 100 litri di acqua.

Sono i viaggi della vergogna.

E in Italia cosa accade?

Per mangiare, lavare, far funzionare le fabbriche, irrigare i campi gli italiani consumano 237 litri d’acqua al giorno.

Un abitante del Madagascar ne usa solo 10 litri.

In sostanza ogni italiano usa il doppio dell’acqua che usava il suo bisnonno all’inizio del Novecento.



E allora?

E allora c’è un mondo grasso…e uno magro.

Un mondo onnivoro e un mondo affamato.

Un mondo che ha tutto e un mondo che non ha nulla.

Un mondo che mangia tutti i giorni, beve tutti i giorni, consuma tutti i giorni, e un mondo che stenta a sopravvivere, ed è pure assetato.


E in futuro? Cosa potrà avvenire?

In futuro la situazione potrà solo peggiorare.



L’Unesco calcola che in media ci vogliono 3 mila litri di acqua per produrre il cibo giornaliero per una persona.

Nel ventesimo secolo i consumi di acqua si sono moltiplicati per nove.



Lo spreco è dunque un problema condiviso a parole.

Ma tutti noi traduciamo le parole in fatti?

Ehi dico a te……non così a parole….ma nel comportamento quotidiano?

Al termine dei miei spettacoli qualcuno mi dice…eh tu parli bene..sfoderi date, cifre…e noi cosa possiamo fare?

Quando ti lavi i denti e lasci il rubinetto del lavandino aperto sprechi 30 litri.

30 litri persi, buttati via…via..via.

Ne puoi consumare molti di meno…ci vuole poco, molto poco.

Anche mentre ti fai la barba puoi adottare un comportamento virtuoso.

Se raccogli l’acqua nel lavandino per risciacquare il rasoio, altri litri d’acqua non andranno persi.

Un terzo dell’acqua sprecata, nelle case è quella che scorre dallo sciacquone del Wc.

Ogni volta che spingi il pulsante o apri la maniglia scorrono 10 litri, mentre ne basterebbero molti di meno.

Al ritmo di 90 gocce al minuto si sprecano per le perdite di acqua in casa oltre 4.000 litri l’anno.

Basterebbe una più accurata manutenzione di water e rubinetti.

Fare il bagno comporta l’uso di 150 litri d’acqua, mentre per la doccia se ne possono utilizzare 40, basta ricordarsi di chiudere il rubinetto mentre ci si insapona.

Si potrebbe andare avanti per ore.

Ma basterebbe per risolvere tutti i problemi?

O forse le questioni sono altre?

La pessima gestione del territorio, l’incuria, la mancata prevenzione, il dissesto idrogeologico.

Seguitemi ora ….proprio sul filo dell’acqua.




Tarda sera del 9 ottobre 1963.

I programmi televisivi si interrompono.

Sullo schermo appare un giornalista che legge le prime righe di agenzia.

Notizie grame giungono da Longarone, Nordest d’Italia:

«Poco fa, il monte Toc si è sbriciolato, la terra è caduta sulla diga del Vajont provocando un’onda lunga che ha travolto alcuni paesi. Longarone, il più popolato, ora non c’è più».

Basta uno sguardo e nelle case, nei bar, piomba il silenzio.

Gli italiani guardano la televisione, ma le immagini in bianco e nero dell’incontro di calcio Rangers Glasgow-Real Madrid quasi svaniscono davanti all’enormità di quella notizia.

Solo il giorno dopo, emerge con forza tutto il peso del martirio (strage) del Vajont: 1.917 vittime stimate, 1.450 solo a Longarone, in soli quattro minuti.

Una strage di Stato, iniziata trentacinque anni prima.

Il 4 agosto 1928, il professor Giorgio Dal Piaz presenta la prima relazione sul bacino artificiale del Vajont. È convinto che la struttura della conca non presenti particolari problemi:

«Le condizioni non sono peggiori di quelle che si riscontrano nella maggior parte dei bacini montani del Veneto».

E così, nel gennaio 1929 la Società Idroelettrica Veneta devia il torrente Vajont per produrre energia elettrica.

Arriviamo al 1940: scoppia la seconda guerra mondiale, ma il progetto non viene interrotto. La Sade, Società Adriatica di Elettricità, vuole costruire una diga alta 200 metri e un serbatoio dalla capacità di 50 milioni di metri cubi di acqua. E il 24 marzo 1948, il presidente della Repubblica, Enrico De Nicola, firma la concessione.

Un anno dopo, il consiglio comunale di Erto-Casso vende alla Sade i terreni in Val Vajont, ma per un errore catastale concede anche terreni di proprietà privata.

Nel 1957, la Sade non possiede la concessione definitiva, con tutte le varianti necessarie ai progetti, ma inizia comunque i lavori per la realizzazione della diga. Modifica perfino le dimensioni dell’invaso: secondo i tecnici può raggiungere 266 metri di altezza, mentre il serbatoio può arrivare a contenere almeno 150 milioni di metri cubi di acqua. Costo lordo: 15 miliardi di vecchie lire. Un terzo dei finanziamenti proviene da contributi governativi.

Il 17 aprile 1957 il governo concede l’autorizzazione, ma la Sade, come si è visto, è già al lavoro da quattro mesi.

I giochi sembrano dunque fatti, anche se da Roma giungono segnali contrastanti: alla Sade viene concessa la possibilità di realizzare la diga e al contempo si tenta di imbrigliare il progetto con indagini sulla stato idrogeologico del terreno, sulla sicurezza degli abitanti e delle opere pubbliche.

E tuttavia, tali indagini, richieste dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, non vengono per molto tempo nemmeno prese in considerazione.

Nel 1959 giunge il primo segnale di avvertimento: 3 milioni di metri cubi di roccia si staccano precipitando nell’invaso del Vajont e provocando la morte di un operaio.

Nel 1960 il secondo: una frana di 700.000 metri cubi di roccia si stacca dalla parete del Monte Toc e cade nel bacino.

Sul versante sinistro della valle compare una fessura di 2 chilometri e mezzo a forma di emme. La storia è già scritta.

Per i tecnici della Enel-Sade, la mattina del 9 ottobre 1963 inizia presto. Alberico Biadene, vicedirettore generale del settore tecnico, invia un messaggio via telex al direttore del cantiere Mario Pancini: «In questi giorni, la velocità della frana è decisamente aumentata. Mi spiace darle cattive notizie ma deve subito rientrare dalle ferie. Che Dio ce la mandi buona».

È mezzogiorno. Alcuni operai dell’Enel si fermano a mangiare per la pausa pranzo sul coronamento della diga. Osservano, minuto dopo minuto, il movimento della montagna. Avvallamenti e alberi sradicati, inghiottono lentamente la strada che corre a mezza costa. Sulla sponda sinistra della diga si apre una crepa lunga 5 metri, proprio dietro alle baracche degli operai.



La frana lavora e come un tarlo modella la terra, la plasma e la trasforma. I carabinieri dispongono un blocco stradale nella zona del Massalezza. Chiudono la statale di Alemagna, prima e dopo Longarone. A quel punto il geometra Rittmeyer telefona a Biadene: «La montagna ha cominciato a cedere. Sono molto preoccupato per la frazione di Erto delle Spesse».

Mentre i due parlano, una telefonista di Longarone si intromette nella conversazione: «Scusate se vi disturbo, ma c’è pericolo per Longarone?».

Dall’altro capo del telefono scende il gelo e la comunicazione viene interrotta. Nessuno deve sapere cosa accade sul Toc.

Sono le 22:39 e la frana si stacca all’improvviso. Compatta, come fosse un unico blocco, rovina sull’acqua trattenuta dalla diga: 260 milioni di metri cubi composti da rocce, strade, alberi, terra. L’onda di 50 milioni di metri cubi si divide poi in due direzioni: da una parte distrugge le frazioni di Patata, San Martino, Frassen, Il Cristo; dall’altra supera la diga e rade al suolo Longarone e i paesi limitrofi. E alla fine si riversa a valle, nel Piave.



Di chi è la colpa? E qualcuno ha pagato per le sue responsabilità?

Il 17 dicembre 1969, al tribunale de L’Aquila si conclude il processo di primo grado. L’accusa chiede, per tutti gli imputati, ventun anni per i reati di disastro colposo, omicidi plurimi e aggravati. Il tribunale infligge però condanne lievi, fino a un massimo di sei anni, di cui due condonati. E ci sono anche diverse assoluzioni. Le autorità giudiziarie non riconoscono il perno dell’accusa: quella frana era ampiamente prevedibile.

Il 25 marzo 1971 la corte di Cassazione conferma il verdetto del processo di secondo grado, ma riduce le pene ad Alberico Biadene e Francesco Sensidoni, condannati rispettivamente a cinque anni e a dieci mesi di reclusione. In seguito a Biadene verranno condonati tre anni per problemi di salute.

Il 27 luglio 2000, trentasette anni dopo – le cose in Italia funzionano così, a palazzo Chigi viene firmato l’accordo di transazione per il risarcimento dei comuni danneggiati, in primis Longarone, e delle vittime. Enel, Montedison e Stato si suddivideranno ciascuno il 33% della somma dovuta

Per l’olocausto del Vajont ad oggi non vi è stata alcuna giustizia.


Il sole taglia di traverso il finestrino mentre con la mia macchina corro lungo quel pezzo di pianura tra Piemonte e Lombardia.

Il verde dei pioppi confonde i colori sfumati del granoturco e si riflette negli specchi d’acqua delle risaie.

Girano intorno uomini che guidano trattori nei campi.

A ridosso dell’autostrada si scorgono, tra capannoni industriali e vecchi cascinali, stradine che il tempo consuma, canali d’irrigazione, argini.

Un’anziana donna dai larghi fianchi pedala la sua bicicletta.

Compie quel percorso da anni. Verso il Po, appare il Ticino, con il suo grande e attrezzato parco e le oasi naturali conservate. Un complesso sistema di piccoli corsi di fiume alimenta quella terra di mezzo: laghetti sperduti, minuscoli rigagnoli, spicchi d’acqua, sorgenti. Nella terra di nessuno, i salici fanno da contorno all’Italia dai mille campanili, con i tetti appuntiti. Più in là, una leggera nebbiolina nasconde i bricchi degli appennini. Il Po arriva poco dopo una curva.

Senti la sua presenza da lontano, le attività si intensificano: cave per il setaccio di ghiaia e sabbia, industrie. I sapori diventano forti, gli argini che l’uomo costruisce contro le piene, più alti. Poco dopo, un fumo bianco, denso e maleodorante, esce da una ciminiera di un’industria chimica e rovina la poesia di quella campagna: così, in un cielo terso di mezza estate, rimane una strana nuvoletta rosa, proprio sopra il capannone.

L’uomo organizza la propria esistenza, lungo i seicento chilometri del fiume, conquista ciò che l’acqua lascia ai suoi margini, aree fangose che bonifica nel corso del tempo. Come una sfida. Lascio il Po alle mie spalle. Entro nella zona dei fiumi piemontesi, Tanaro e Bormida, ma il paesaggio non cambia. L’autostrada che da Piacenza va a Torino scivola tra i coltivi segnati dai solchi del trattore. Terre di vigna e di sudore. Tanaro e Bormida si incontrano per pochi metri e si lasciano dietro terre incolte.

Dall’alluvione del 94, nulla è come prima.

I ricordi sono ancora vivi. Nel punto di congiunzione dei due corsi, l’acqua invadeva il tratto di autostrada, travolgeva ogni cosa, fino alle porte di Alessandria.

Chilometri quadrati si erano trasformati in un lago di fango senza contorni: case sommerse, inutilizzabili da Ceva fino all’Oltrepò pavese.

E’ un bilancio che mette i brividi: 35 persone morte, decine di dispersi, migliaia di sfollati. Caddero sessanta centimetri di acqua in sessanta ore: nell’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966, piovve per 44 ore.

Durante l’alluvione in Piemonte molte persone vennero salvate grazie all’intervento di vigili del fuoco, soldati, volontari della Protezione civile, del Soccorso alpino e della Croce Rossa, al lavoro con mezzi anfibi, barche, gommoni, elicotteri.

Altri,meno fortunati, dormirono sui tetti delle case, con l’acqua che toccava il quarto piano. L’alluvione del ’94 lascia interrogativi ancora irrisolti, sulle colpe, sulle incertezze delle autorità competenti. Come i fax della discordia. Da un esame degli atti giudiziari tratti dalle inchieste che la magistratura ha fatto fin dal ’94, emerge che la sciagura era prevedibile.

La Protezione Civile era stata informata in anticipo ma nessun provvedimento è stato preso.

Il 3 novembre 1994, alle 16,30, l’assessorato alla Difesa del suolo della Regione Piemonte inviò via fax, una nota.

Avvertiva che tra sabato e domenica si sarebbero intensificate le precipitazioni, “fino a raggiungere intensità tale da provocare possibili dissesti di carattere idrogeologico sui settori alpini centro meridionali della regione, in particolare sull’Appennino ligure-piemontese e nella valle del Tanaro”.

Un altro fax venne inviato la mattina successiva. “

La particolare situazione richiede una sorveglianza da parte di enti e amministrazioni preposte a funzioni di protezione civile, in relazione alla possibilità che si verifichino dissesti idrogeologici”.

Dalle 20 di venerdì 4 novembre e per tutta la notte un funzionario regionale della Protezione Civile instaurava “collegamenti costanti con le prefetture di Cuneo, Asti ed Alessandria ma le popolazioni non vennero avvertite del pericolo.

Sabato 5 novembre, alcuni responsabili della Protezione Civile vennero precettati e richiamati d’urgenza dalle ferie in previsione di piogge di eccezionale gravità. Intanto Tanaro, Belbo e Bormida rompevano gli argini in più punti.

Ma nessuno se ne accorgeva.

A oggi, nessuno ha pagato per quella sciagura.



Per capire la gente che vive lungo le rive del Po, bisogna navigare quel fiume, ascoltare i dialetti, sentire il sapore delle caldarroste che bruciano sul fuoco di un camino. Le mille culture del Po si mischiano tra campi di granoturco, alti pioppi e vecchi barconi. E’ così da sempre e il tempo sembra non tradire il senso delle tradizioni. Il Po è come un serpentone d’acqua. Nasce dal Monviso, scorre tra le risaie del Piemonte, scivola tra la terra dei ponti lombardi, entra in Emilia poco dopo Mantova e va giù, fino a che si vede il mare. Il Po è sudore e chilometri di acqua.

Da Cremona a San Marco si pesca e si traghetta. Barcaioli e pescatori, si tramandano un mestiere da molte generazioni. Sulle rive si scorgono trattorie e capanni di cacciatori, enormi reti per il pesce da frittura e terra grassa. Zolle generose che sfamano intere famiglie. Vita grama, piena di sacrifici ma anche di soddisfazioni. Lungo il corso del Po, i cascinali hanno lo stesso colore. Qualcuno li ristruttura, ma non sono case di campagna, da venirci in vacanza. Si sente l’odore della terra che compie il suo miracolo di primavera e d’estate. Vita grama.

Da novembre a febbraio, la nebbia è spessa, densa, spunta fuori all’improvviso e avvolge il paesaggio come una sorta di incubo bianco da saga medievale. D’estate, potrebbero esserci giorni di magra, dove la mancanza d’acqua blocca la navigazione. Si vedono minuscoli rigagnoli, coperti da sassi ovali. Per macinare chilometri si deve aspettare che arrivi la pioggia o la draga, a smuovere quel deserto. L’Acqua ha colori impossibili. Ci entrano la Bormida e il Tanaro, l’Adda e il Ticino, il Secchia e il Panaro, fino all’Adige. Da quelle parti la natura sembra umiliata e offesa. La qualità dell’acqua è tra le più inquinate d’Europa. Da Oncino, nel cuneese a Saluzzo, la situazione peggiora ogni anno. E’ un tratto di fiume che presenta forti sbalzi di qualità, si conferma vulnerabile a causa dell’attività ortofrutticola, dai lunghi periodi di scarsità di acqua e dall’uso dei pesticidi.

Quando si arriva a Moncalieri, l’acqua è già nera. A monte di questo tratto fluviale esiste una diga dell’Enel che in certi periodi deriva almeno tre quarti della portata disponibile, con conseguenze negative sulla qualità biologica del fiume. A Brandizzo il Po riceve lo scarico del depuratore di Torino. Solo a Verrua Savoia l’acqua si trasforma, grazie all’apporto della Dora Baltea. Il serpentone va giù a Pontestura, Frassineto Po, Bassignana. All’ingresso del Tanaro la situazione peggiora: entrano così gli scarichi di Alessandria. A Spessa c’è il tracollo.

Da Gualtieri fino alla foce, l’ambiente si mantiene inquinato. Il mondo del Po ha così una sola regola: la pazienza. I battelieri dicono che in certi lunghi tratti il Po non è più navigabile perchè le conche di accesso non superano i dieci metri di larghezza mentre le chiatte sono di poco inferiori a dodici. Naviganti con l’acqua alla gola, con mete da raggiungere che si trasformano spesso in miraggi. Ci sono punti del Po dove un’imbarcazione può perfino rischiare di fare incidenti gravi. Come a Borgoforte, vicino a Mantova, quando si passa tra due ponti, collocati a poco più di cento metri uno dall’altro.Viaggi che diventano imprese: con barconi lunghi almeno cento metri, dove in una giornata di nebbia come passeggeri dell’imbarcazione,si può provare la sensazione di essere anime trasportate da Caronte. Lungo il Po, l’archeologia industriale, i ponti ormai in disuso, i vecchi capanni frutto della Rivoluzione industriale, sono una realtà. Le storie si perdono nel tempo. Quelle che hanno visto argini e conche che crollavano davanti agli occhi di chi li aveva costruiti, magari dopo anni di lavoro. Le storie del Polesine, sulle rive del grande Po. Ci sono paesi dove le donne, di domenica, vanno a sedersi nei cimiteri:e parlano per ore con i defunti. Li tengono sempre informati ma non hanno quasi mai novità da raccontare. Ricordano immagini in bianco e nero, di quei contadini che si disperavano davanti ai loro campi sommersi, i granai allagati, le bestie impazzite dalla paura e dalla fame. Quante volte gli abitanti del Po hanno visto allargarsi il fiume. Solo nel Polesine è accaduto sedici volte, dopo l’alluvione del ’51. Certe notti incombenti, con la luna stracciata a brandelli da nuvole in corsa. L’acqua del Po che batte i pontili e strappa alberi e terra. Ricordi. Gli argini del Grande Fiume sono per centinaia di chilometri sotto la soglia di allarme sia in altezza che in larghezza. Accade dappertutto:da una sponda all’altra del Mantovano, nel Ferrarese e nelle zone del Delta. Ovunque. Per regole idrauliche si è stabilito che gli argini maestri per contenere le piene debbano essere un metro più alti del colmo della piena del ’51. Sulla foce del Mincio gli argini sono più bassi di diversi centimetri. Nonostante ciò, sul Po naviga il carico di un lavoro:mangimi, granaglie, carburanti, gas, materie prime per la chimica e l’edilizia, carichi eccezionali che non passerebbero in autostrada, gli scafi che vengono assemblati nel porto di Cremona. 2500 tonnellate di merce all’anno. Li vedi passare quei barconi che vagano da Ovest verso Est,

Barcaioli e pescatori, naviganti e agricoltori vivono ancora il Po con i mezzi che hanno inventato gli antenati.

Aspettano un riscatto, ma il fiume è malato. Quando gli parli quasi sempre non risponde.



Aveva gli occhi blues Mario, quella notte tra il 5 e il 6 maggio 1998.

Aveva gli occhi blues Mario e non riusciva proprio a dormire.

Perché Mario viveva con la sua famiglia in una casa in cima ad una collina, sopra Sarno.

Mario amava il blues che la musica della sofferenza e della passione.

Pensava che ascoltando il blues nessuna sfortuna avrebbe mai potuto sconvolgere la sua vita.

Ascoltava i dischi di blues con un vecchio giradischi.

Tutte le notti, tornava dal lavoro, mangiava, poi si spogliava, si metteva le pantofole, apriva la finestra, accendeva il giradischi, prendeva un disco, azionava la levette, puliva la puntina, abbassava il braccio, e alzava il volume.

Pensava che il blues nero, sanguigno di Muddy Waters con la sua voce dura e potente, la chitarra di John Lee Hocker, l’armonica di Carey Bell lo avrebbero preservato da ogni sfiga.

Così anche quella notte Mario aveva gli occhi blues e non riusciva a dormire.

Dalla finestra arrivavano strani rumori, come di acqua che scroscia sulle strade.

Mario si affacciò alla finestra e vide qualcosa di strano, qualcosa che non aveva mai visto.

Dal Pizzo di Alvano, una massa enorme di melma stava seppellendo la memoria di un paese.

La gente scappava via dalle case, mentre un fiume color marrone, spazzava via ogni cosa, le abitazioni di Episcopio, i piccoli borghi di Quindici, in provincia di Avellino, Bracigliano, Siano.

Un fiume di fango scivolava a valle e travolgeva tutto.

Nonostante quello che stava vedendo, pensava che nulla avrebbe mai potuto toccare la sua casa.

Mario accese la televisione.

Mentre le ore passavano, si contavano i morti, centotrentasette e saliva quello dei dispersi, travolti dalla furia della natura.

Mario chiamò la madre Assunta ma dalla cucina non arrivò alcuna risposta.

“Se ne sarà andata”, si chiese Mario e continuò ad ascoltare il suo blues.



Il disastro di Sarno era prevedibile?

Non c’entra per caso il dissesto idrogeologico?

Il Vesuvio, mai spento da 2500 anni, ha invaso colline e montagne da una coltre composta da cenere, pomice, lapilli.

Ha ricoperto le colline di Ischia, i monti Lattari della Costiera Amalfitana, i monti piacentini e il Pizzo d’Alvano che, con la sua altezza di millecinquecento metri, divide le province di Salerno e Avellino.

Quella del Vesuvio è terra instabile, posta sopra una struttura di roccia di carbonati, assai friabile. Con le piogge estive e autunnali la situazione diventa più complessa. La melma si insinua nelle fessure. Forma crepacci di decine di metri, trattiene l’acqua, poi scivola a valle e crea sciagure. Nei tempi antichi, i paesi venivano costruiti in posizioni strategiche, a ridosso di colline, lontane dai canaloni dove il fango si convogliava.

I Borboni che non erano dei geni, avevano realizzato i Regi Lagni, strutture protettive che dovevano rallentare la massa franosa e contenerle in zone pianeggianti, come laghi di scolmamento.

Invece la speculazione edilizia copre con il cemento armato quel sistema di protezione e le frane dal ’60 al ’69 portano la distruzione di migliaia di case.

Le cause sono note: strade agricole tagliate su pendenze impossibili, interi abitati sorti dal nulla in piena campagna. L’abusivismo non si è mai interrotto.

In un’area con una densità abitativa tra le più popolate d’Europa, le case sono state costruite senza piani regolatori e poi sanate grazie a provvidenziali condoni edilizi. Sessanta millimetri di pioggia fanno scattare il piano d’emergenza.

In quei giorni del maggio 1998 l’acqua del fiume si mischia al fango vulcanico. A valle giunge una miscela esplosiva, inquinata da nitrati, ammoniaca, in un ambiente già compromesso.

Storie di Sarno, raccontate lungo le strade di fango, mentre cammini nelle piazze dei mercati, tra la gente che viene da fuori e vende la frutta e la verdura. Storie.

“Aveva gli occhi blues Mario, quella sera, e non riusciva a dormire. Spettrale Sarno, Ferragosto postatomico, irreale pomeriggio fatto di niente, di calura che toglie fiato e non fa respirare. E dove sono le Maldive e Orlando, dov’è Capalbio e Arzachena e Key West? Ferragosto amaro. E nessun dolcificante può buttar via l’amaro e rendere più dolce la sera di Mario. Che ha gli occhi blues e il cuore ferito.. Acqua, acqua, acqua. Fango fango fango. Che da queste parti si chiama lota. Che s’è portato via la mamma di Mario, la voglia, l’allegria”.


E allora c ’è un mondo grasso…e uno magro.

Un mondo onnivoro e un mondo affamato.

Un mondo che ha tutto e un mondo che non ha nulla.

Un mondo che mangia tutti i giorni, beve tutti i giorni, consuma tutti i giorni, e un mondo che stenta a sopravvivere, ed è pure assetato.

E in futuro? Cosa potrà avvenire?

In futuro la situazione potrà solo peggiorare.

E allora?

Non è giunta l’ora di cambiare?

Non è arrivato il momento di metterein seria discussione un modello di sviluppo che non distribuisce la ricchezza e non fa crescere l’economia mondiale?

Partiamo dall’acqua.

In Uganda, il consumo medio nelle aree rurali è di 12 litri al giorno.

Durante la stagione secca, l’impiego cala bruscamente perché aumenta la distanza dalle fonti idriche.

Nelle zone aride dell’India occidentale, nel Sahel e nell’Africa orientale, la disponibilità d’acqua nella stagione secca può scendere ben al di sotto di 5 litri al giorno.

L’impiego di acqua si aggira sui 5 litri al giorno nelle piccole città del Burkina Faso e sugli 8 litri al giorno in alcuni insediamenti informali indiani.

Rendere accessibile l’acqua in modo a tutti gli abitanti del pianeta deve diventare una priorità dei governi mondiali, non un accessorio.

Perché l’acqua é un bene comune e un diritto umano universale.

Un bene essenziale che appartiene a tutti.

E’ una battaglia di civiltà e di memoria.

Nessuno si senta escluso



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