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Tira, nimicu miu

Mimmo Strafaci detto Palma
Language: Italian (Calabrese)



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[1848]
Testo e Musica di Mimmo Strafaci detto "Palma"




Caso più unico che raro, il capobrigante Strafaci, detto "Palma", non era analfabeta. e si dilettava a comporre brevi poesie popolari che firmava con l'appellativo di "Re di la Montagna". Sfidava possidenti e 'galantuomini' con questo canto:
"Tira, nimicu miu, tira la pinna.. "









Le classi subalterne calabresi sono state costrette storicamente a sopportare la volontà della Natura, del Destino, della Chiesa, dei Potenti, che hanno entificato, metafisicizzando ciò che è umano o, comunque, modificabile dall'uomo. La loro individualità difficilmente trova modo di esplicarsi, essendo la loro vita costretta fin dall'inizio sui binari preformati, regolata minuziosamente da norme eteronome che possono essere, indifferentemente, quelle ecclesiastiche o quelle convenzionali, seguite perché «si deve far così», «si è sempre fatto così», perché «altrimenti la gente cosa direbbe?», e così via.
Pur essendo soli, a lottare contro le avversità e contro tutti gli altri, seguendo un codice convenzionale, ci si può illudere di essere confortati dalla presenza e dal consenso degli altri. Soltanto qualcuno – in altri periodi storici – non ha accettato tutto ciò, e le ragioni possono essere state le più diverse…ad esempio i briganti, anche se, paradossalmente, hanno finito per ribadire l'ineluttabilità di quel dato ordine costituito. Essi, per motivi e circostanze diversissime, hanno affermato di fronte a tutti un loro concetto di giustizia; si sono differenziati dal costume dominante vivendo in una continua precarietà un'esistenza, le cui dimensioni nella fantasia degli altri sono ingigantite sempre più, fino a divenire mito, leggenda. Come nota anche Horkheimer, «la civiltà occidentale non ha mai esercitato una presa molto forte sulle masse oppresse. […] Per la grande maggioranza del genere umano la civiltà ha sempre significato costrizioni – l'obbligo di crescere, di diventare adulti e di affrontare la responsabilità dell'esistenza – e significa ancora Povertà. […] La grandissima maggioranza degli uomini non ha una "personalità"». Il brigante (ci si riferisce ovviamente alla sua caratterizzazione tradizionale e alla ricezione di tale figura da parte della immaginazione popolare), per lo più, ha subito per anni una serie di prepotenze, ha accettato in innumerevoli situazioni umilianti, il suo doveroso ruolo di vittima. Ad un certo punto è esploso e la sua potenza guadagnata attraverso la sua ribellione è stata esercitata ferocemente, come feroci erano stati gli altri: la Società, lo Stato, i Potenti, il Destino, tutti coalizzati contro la sua vita, a renderla più amara e faticosa. La sua azione ha vendicato anche gli altri che non hanno saputo o voluto fare altrettanto, che si sono rassegnati, sfogando il loro dolore nei canti, quei canti popolari calabresi così carichi di dolore e di protesta. Forse, anche per questo in Calabria si è sempre guardato con simpatia (Brigantiellu, Brigantiellu miu sono espressioni carezzevoli che le popolane rivolgono ai bambini) e con un malcelato senso di complicità al brigantaggio, oltre che per l'assoluta mancanza del senso dello Stato, per la necessità di non badare ad altri che a se stessi, come ribadisce un proverbio: Quandu vidi 'u mundu pagghiusu – Ricògghiti au toi pertusu [Quando vedi il mondo torbido – Ritirati nel tuo rifugio].

Carlo Levi nota – riferendo, come è noto, il suo discorso alla Lucania, ma le sue osservazioni sono valide anche per le altre regioni meridionali – che il brigantaggio «sta ad essi nel cuore; fa parte della loro vita, è il fondo poetico della loro fantasia, e la loro cupa, disperata, rara epopea. […] Il loro cuore è mite, e l'animo paziente. Secoli di rassegnazione pesano sulle loro schiene, e il senso della vanità delle cose, e della potenza del destino. Ma quando, dopo infinite sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere, e si muove in senso elementare di giustizia e di difesa, allora la loro rivolta è senza limiti, e non può conoscere misura. […] È una rivolta disumana, che parte dalla morte e non conosce che la morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione. […] Il brigantaggio non è che un accesso di eroica follia e di ferocia disperata, un desiderio di morte e di distruzione, senza speranza di vittoria. – Vorrei che il mondo avesse un solo cuore; glielo strapperei, – disse un giorno Caruso, uno dei più tremendi capibanda. Questo desiderio cieco di distruzione, questa volontà di annichilimento, sanguinosa e suicida, covata per secoli sotto la mite pazienza della fatica quotidiana. Ogni rivolta contadina prende questa forma, sorge da una volontà elementare di giustizia, nascendo dal nero lago del cuore».
È rivolta contro tutti, ma soprattutto contro la Prepotenza, l'Ingiustizia, l'Arbitrio, che assumono il volto implacabile del Potente, che può essere questo o quell'altro Signore, tutti ugualmente minacciosi con la loro possibilità di maneggiare la carta e la penna, nemici cui non ci si può arrendere o venire a patti.
«Così contro il viceré spagnolo, armato degli strumenti secolari in cui il ribelle contadino di Calabria vedeva i segni dell'oppressione dei ricchi (carta, calamaio e penna), si ergeva […] il brigante in una lotta disperata, che avrebbe avuta la sua tragica fine nella morte sulla forca dalla quale avrebbe penzolato il corpo del ribelle. […] Un canto quasi simile sarà cantato a Spezzano Grande, nella Sila, 1848, da una schiera di cantori che si scoperse poi come la comitiva di briganti di tal Giuseppe Majarò, davanti alla casa del giudice regio, il quale, come gli dettava la potenza tolleravala in pace, finché un colpo d'arma da fuoco gli venne tirato dal balcone, al quale il summentovato Comandante dato alle perfine di piglio al suo fucile corrispose bravamente all'invito, e con un sol colpo sperperò i vili che lo avevano provocato».
Il canto era ripetuto varie volte di notte in Spezzano e faceva rinserrare in casa il giudice regio, e contristava i sonni dei 'galantuomini', cioè dei benestanti, e li faceva tremare di paura. Ed il giudice regio si avviliva tanto, che si sentiva prossima una rovina, la rovina della classe dei buoni, se non fosse arrivata a proteggerli la forza pubblica.
Ci sono in realtà alcune varianti, non molte, ma bastano a cambiare il tono al breve canto. Nel secondo verso, al posto del dubitativo «Fuossi ca esci a morte la cunnanna» abbiamo il più decisivo verso di sfida «E tirammilla a morte la cunnanna», nel sesto al posto di «iu sugnu lu re de la campagna» troviamo «Iu su' lu generali de la campagna». Il cambiamento più importante si ha però negli ultimi due versi, dove al posto di «Tannu nemicu miu, tannu mi riennu, quannu lu capu miu gira a la 'ntinna» espressione di coraggio, ma anche triste presentimento che lotta difficile si chiuderà con la sconfitta del ribelle, il quale finirà sulla forca, noi troviamo i due versi «Tira, nemicu miu, tira riennu / Finca lu capu tua fazzu 'na 'ntinna», che esprimono invece l'odio, dell'oppresso, che terminerà con la morte dell'oppressore. È cambiata la mentalità: si sente nel 1848 la possibilità di una lotta che potrebbe finire in favore del brigante ribelle. Non per nulla nello stesso anno accanto e contemporaneamente alla rivoluzione politica per la libertà, della quale sarà protagonista la borghesia con i suoi nuovi bisogni e le sue nuove necessità, divamperà terribile in Calabria la Jacquerie dei contadini per rivendicare le terre usurpate dai ricchi ed il movimento, come sanno gli storici, avrà episodi di inaudita violenza..
Tira, nimicu miu, tira la pinna
Fuossi ca esci a morti la cunnanna.

Tu tieni carta calamaru e pinna.
ed ju purvera e palle a me cummannu

Tu sì lu viceré de chistu regnu,
ed ju sugnu lu re di la campagna

Tannu nimicu miu, tannu mi riennu,
quannu la capu mia gir' a la 'ntinna.
[x2]

Tira, nimicu miu, tira la pinna,
tira, nimicu miu, tira la pinna..

Contributed by giorgio - 2011/7/24 - 09:21




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