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Azadî bo Kurdistan

Meqam
Lingua: Curdo


Lista delle versioni e commenti


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La ballata dell'Ardizzone
(Ivan Della Mea)
Karwan u sinûr
(Muhammad Abbas-Bahram)
Lorî Lorî Lorîka min
(anonimo)


Testo e musica di Muhammad Abbas Bahram
Interpretazione di Meqam


Una canzone di libertà dove si menziona espressamente Halabje (in curdo: Hellebje), il villaggio curdo i cui abitanti, il 16 marzo 1988, furono interamente sterminati dal regime di Saddam Hussein con l'arma chimica. Nel nostro sito sono presenti decine di canzoni contro la guerra di Bush e contro l'invasione dell'Iraq, ma non vogliamo certamente chiudere gli occhi su cosa sia stato il sanguinario regime di Saddam Hussein.

Sul massacro di Halabja sono presenti in rete innumerevoli siti. Scegliamo questo, particolarmente completo, la cui visione consigliamo espressamente e caldamente proprio alle cosiddette "persione impressionabili". Non si può voltare gli occhi davanti a certe cose, mai.

http://www.kdp.pp.se/chemical.html

Riccardo Venturi
9 aprile 2005
Qurbanit bim xakî Kurdistan
Ke estake wêraneye
Xoshewîstît hênde billinde
lenau dilma, lenau xunima hêlaneye

Taqanekem
Taqanekem shehîd kra
Korpay sauay Hellebje bû
Çon negiriyem bo em xake
Bû be paruy kundebebû

Xeyalltan xawe, Kurd qet namirê
Nexishey Kurdistan
Qet têknaçê, qet lanabirê
Qet têknaçê, qet lanabirê.

inviata da Riccardo Venturi - 9/4/2005 - 17:37




Lingua: Inglese

Versione inglese di Rebwah Fatar
da:

http://www.kurdmedia.com/ac/ac.asp?id=148
I sacrifice myself for you my homeland
That is now left in ruins
My love for you is so great
In my heart and in my blood like a nest

My only child
My only child was martyred
He was a baby of Halabja
How could I not cry?
How could I not cry for this homeland?
That has become a prey to owls

You are wrong
Kurds shall never die out
The map of Kurdistan
Shall never be destroyed,
shall never be removed.

inviata da Riccardo Venturi - 9/4/2005 - 17:39




Lingua: Italiano

Versione italiana di Riccardo Venturi
(Dalla versione inglese)
9 aprile 2005
Mi sacrifico per te, terra mia
adesso lasciata in rovine.
Il mio amore per te è tanto grande,
nel cuore e nel sangue sei come un nido

Il mio unico figlio
il mio unico figlio martoriato
era un bambino di Halabja
Come non potrei piangere,
come non potrei piangere per questa mia terra
divenuta preda degli uccelli rapaci?

Vi sbagliate
i Curdi non moriranno mai
la mappa del Kurdistan
non sarà mai distrutta,
non sarà mai cancellata.

9/4/2005 - 17:41


segnalo in rete:

I curdi, da Ocalan ai peshmerga
Filed in curdi, etnismo, geopolitica, iraq, turchia by Gianni Sartori del 22/09/2014

Venticinque anni di ricerche, interviste, analisi geopolitiche e testimonianze dirette: un saggio fondamentale per capire le vicende di questo popolo leggendario

ciao
GS


Onore al PKK - Ocalan libero!

Gianni Sartori - 2/10/2014 - 09:17


Mentre la Turchia, cane da guardia dell’imperialismo statunitense, attende che gli integralisti completino il loro sporco lavoro di genocidio nei confronti dei curdi (per poi magari “mettere in sicurezza” le aree curde in territorio siriano) anche i borghesi nostrani sembrano essersi accorti dei curdi. Ed emerge con forza quale sia il ruolo delle donne sia nella lotta di liberazione che nell’autorganizzazione della società curda.
Invio questo contributo, in parte datato, ma forse ancora utile.

Onore al PKK, libertà per Ocalan!
GS

DONNE CURDE
di Gianni Sartori – 29/03/2014

La difficile situazione del popolo curdo, una “nazione senza stato” sottoposta a feroce repressione (soprattutto in Turchia, ma non solo), rischia periodicamente di venire oscurata dai drammatici eventi mediorientali. In particolare non sempre viene adeguatamente riconosciuto il fondamentale ruolo ricoperto dalle donne nei movimenti di liberazione curdi. Inizialmente, a causa di una atavica subalternità che per secoli ha seminato paura nelle donne curde, non veniva presa in considerazione la loro possibilità di integrarsi nella guerriglia, combattere sulle montagne. Ma in seguito le cose erano cambiate. “Al nostro interno, mi riferisco al PKK ed alle organizzazioni collegate, non ci sono discriminazioni – ci spiegava ancora nel 1996 Ahmet Yaman, all’epoca portavoce dell’Eniya Rizgariya Netewa Kurdistan (Fronte di Liberazione Nazionale del Kurdistan)- e lottiamo anche perché questo tipo di mentalità diventi patrimonio comune di tutto il nostro popolo. Pensa solo ai cambiamenti che si vedevano già dopo tre-quattro anni di lotta armata, grazie anche alla grande determinazione delle donne. Sempre più spesso i genitori lasciano che le loro figlie vadano a combattere, quando fino a poco tempo fa non sarebbe stato permesso loro neanche di uscire di casa! Ora (1996 nda) ci sono più di 5mila guerrigliere sulle montagne”. Sempre negli anni ’90, era sorta un’organizzazione che operava sia in Turchia che in Europa, il “Movimento Indipendente delle Donne Curde”. Nel momento di maggiore espansione contava circa 10mila militanti. Oltre che per difendere l’identità e i diritti negati del popolo curdo, si batteva per “un ruolo di primo piano della donna nella società”.
 Nello stesso periodo venne creata una divisione dell’esercito guerrigliero esclusivamente femminile. Un modo esplicito per rompere con le strutture di stampo feudale e con la mentalità che vedeva le donne subordinate. Stando alle testimonianze rese successivamente da un gran numero di militanti, le donne partecipavano a tutte le decisioni e sicuramente il loro impegno è stato fondamentale per portare avanti la causa curda.

Va collocata in questo contesto di forte presenza delle donne nella resistenza, la drammatica azione di protesta di due militanti curde (Beriwan e Ronaxi) che si erano date fuoco a Mannheim, in Germania, per protestare contro il governo tedesco che aveva messo fuorilegge il PKK e l’ERNK.


Il 30 giugno 1996, Zeynep Kinaci, una guerrigliera ventiquattrenne dell’ARGK, si gettò su una parata militare nella città di Tunceli (Dersim) facendo esplodere una bomba nascosta sotto i vestiti e uccidendo nove soldati turchi. Per spiegare il suo gesto estremo lasciava alcune lettere, una delle quali indirizzata al presidente del PKK, Abdullah Ocalan.
 Qualche mese dopo, il 25 ottobre 1996, Leyla Kaplan, una ragazza curda di 17 anni, nascondendo una bomba in modo da sembrare incinta, ha ucciso quattro poliziotti in un attacco suicida alla stazione di polizia della città di Adana per protestare contro le atrocità commesse dall’esercito turco. Eventi estremi, sicuramente, non sempre comprensibili. Ma non si può giudicare tanta disperata determinazione senza tener conto di quale sia stata per molte donne curde l’esperienza del carcere, della tortura e degli stupri subiti dagli aguzzini in divisa della polizia e dell’esercito turchi. Arrestata perché cantava in curdo, Hevi Dilara (questo il suo nome curdo, ma sui documenti risultava come “Bengin Aksun”, dato che i nomi dei curdi venivano forzatamente turchizzati) venne ripetutamente torturata. “Mi portavano davanti a mio padre svestito, con gli occhi bendati -ha raccontato – torturavano me e minacciavano di uccidere mio padre; poi torturavano lui davanti ai miei occhi e dicevano che dovevamo pentirci perché avevamo cantato in curdo. Poi, viceversa, svestivano me, bendavano i miei occhi quando c’era mio padre davanti a me, mi torturavano con il manganello facendo delle cose molto brutte, delle cose che non si possono nemmeno raccontare…Soprattutto quando mio padre era davanti a me, mi torturavano con getti d’acqua intensa o corrente elettrica alle dita e alle parti intime del corpo: tutto questo è durato quindici giorni…”.

Allo scopo di far conoscere, almeno parzialmente, quale sia stato e sia il ruolo delle donne curde nella lotta di liberazione ripropongo due mie interviste (risalenti rispettivamente al 2007 e al 2008, ma la situazione non sembra sostanzialmente cambiata) a Hevi Dilara e Leyla Zana.

INTERVISTA A HEVI DILARA, esponente di Uiki (4 novembre 2007)

Hevi Dilara, rifugiata politica curda ed esponente di Uiki (Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia), è nata a Urfa. Da circa dieci anni vive in Italia. In passato è stata detenuta nelle prigioni turche, subendo la tortura per la sua militanza.

Rimane alta la preoccupazione per quanto sta avvenendo (novembre 2007 nda) alle frontiere fra Turchia e Iraq nell’eventualità di altre operazioni militari contro le basi del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan). Ci si occupa meno, invece, delle ragioni del popolo curdo e di quello che continua a subire.
Da trent’anni ormai c’è una lotta di liberazione da parte del popolo curdo, che è stato costretto a prendere le armi per difendere i suoi diritti. Dal 1993 in poi, il PKK ha offerto varie tregue unilaterali per una soluzione politica, chiedendo il riconoscimento della propria identità e di poter partecipare a un processo di democratizzazione della Turchia. In particolare, ha chiesto di applicare nella zona curda una forma di autonomia analoga a quella dell’Alto Adige in Italia o dei Paesi Baschi in Spagna. I turchi sembrano non voler riconoscere l’identità curda, sia culturalmente che fisicamente, quindi non riconoscono nemmeno il movimento curdo.

Il PKK era nato come movimento studentesco nonviolento. Un insieme di cause (la repressione, le impiccagioni, le torture subite dai militanti…) lo ha poi portato alla scelta armata (da segnalare l’analogia con quanto avvenne in Sudafrica nell’ANC nel 1960, dopo la strage di Sharpeville nda). Sicuramente ha influito anche il fatto che il Kurdistan è rimasto un’area sottosviluppata. E’ un territorio ricco di risorse, però la popolazione è molto povera. Come popolo abbiamo ben conosciuto lo sciovinismo turco che vorrebbe annientare la nostra identità. Da bambina non potevo parlare la mia lingua in pubblico, a scuola…

Perfino la musica curda era proibita. Sono stata arrestata anche per aver cantato nella mia lingua. Lo Stato turco ha praticato l’assimilazione nei confronti delle diverse etnie (assiri, armeni…) e la discriminazione religiosa. Esiste, per esempio, una piccola percentuale di curdi che sono rimasti zoroastriani, ma non possono manifestarlo. La necessità di difenderci ha portato alla nascita del PKK, ma sempre con l’idea di lasciare le armi, di trovare una soluzione politica per il conflitto. Inoltre il PKK condanna le azioni contro i civili, com’è scritto anche nel suo statuto.

Come ha risposto lo Stato turco alle proposte di tregua?
La risposta di Ankara è sempre stato “no”. Di fronte ai numerosi “cessate il fuoco” del PKK, la Turchia ha reagito con altre operazioni militari. Dal 1993 a oggi sono entrati in Iraq ventiquattro volte (questa è la venticinquesima) e sempre sono stati respinti dai guerriglieri. Nell’ottobre 2006 c’è stato un importante “cessate il fuoco”. La risposta turca è venuta con le bombe dei servizi segreti e con la “guerra sporca”. Sono state colpite famiglie curde e sono rimasti uccisi anche alcuni bambini. Inoltre vi sono stati nuovi casi di desaparecidos. In quella circostanza alcuni militari turchi di alto grado hanno affermato pubblicamente “la vita di un soldato turco vale quella di dieci curdi”. Da parte sua il PKK ha dichiarato che è legittimo difendersi.

Quindi la presenza dell’esercito turco in Iraq non è una novità.
In Iraq i militari turchi c’erano già. Anche prima della mozione votata il 17 ottobre 2007 in Parlamento, in varie occasioni avevano bombardato i villaggi curdi dell’Iraq. Ma il loro obiettivo non è soltanto il PKK. Dietro questa ennesima operazione si può vedere una costante della politica di Ankara, l’idea di una “Grande Turchia” fino a Kirkuk. Inoltre, la Turchia si è resa conto che la zona curda irachena sta diventando veramente autonoma, con un proprio esercito, l’università curda, le risorse autogestite dai curdi…E questo naturalmente potrebbe contagiare anche i curdi dei territori sotto l’amministrazione turca.

D. Significa che la creazione nel Nord dell’Iraq di un’area autonoma rappresenta una possibilità anche per i curdi di Turchia, Siria e Iran?

E’ sicuramente una cosa molto positiva. La nostra terra è attualmente divisa in quattro parti e tutti i curdi hanno subito violenza dai vari stati. Coloro che hanno potuto visitare la zona autonoma del Nord dell’Iraq hanno detto: “Adesso almeno una parte della nostra terra è libera”. Soprattutto ha favorito la solidarietà tra curdi, ha permesso il superamento di vecchie ostilità per esempio tra il PKK, il PUK (Unione patriottica del Kurdistan) di Talabani e il PDK (Partito democratico curdo) di Barzani.

D. Quali sono le conseguenze delle operazioni militari turche contro i villaggi curdi? Dietro questo accanimento ci sono anche ragioni di interesse economico?

I villaggi curdi distrutti in Turchia sono stati circa quattromila. Attualmente i “profughi interni” sono cinque milioni. Alcuni sono fuggiti in Iraq, altri in Europa. Quanto alle ragioni di interesse economico, è evidente che la Turchia vuole poter gestire le risorse del Kurdistan. Oltre al petrolio, ricordo che qui nascono due fiumi molto importanti, il Tigri e l’Eufrate. La Turchia sta utilizzando sia economicamente che politicamente tali risorse, indispensabili per conservare un ruolo strategico nella regione. Questo spiega le alleanze con altri paesi come la Siria e l’Iran, dove vivono popolazioni curde. Prima della mozione che autorizzava l’intervento militare in Iraq, iraniani e turchi avevano firmato accordi per attacchi congiunti alle basi del PKK. Il giorno prima del voto del Parlamento turco, il capo del governo siriano, Assad, si trovava in Turchia e aveva dato la sua disponibilità alla lotta comune contro i curdi . Poi, tornato a Damasco, ha smentito. La Siria collabora con la Turchia fin da quando ha scacciato Ocalan. Lo fa soprattutto per paura di perdere i rifornimenti di acqua controllati da Ankara (ovviamente si parla del 2007; attualmente i rapporti tra Ankara e Damasco sono di ben altro tenore nda).

D. L’opinione pubblica in Turchia ha reagito molto duramente contro il PKK per il rapimento da parte della guerriglia curda di otto soldati turchi dopo l’attacco al ponte di Hakkari in cui ne erano morti altri diciassette. Un suo commento…

In un primo tempo, l’esercito turco aveva negato che ci fossero prigionieri. Aveva parlato di “guerra psicologica” della guerriglia. Successivamente aveva insinuato che forse i soldati si erano consegnati spontaneamente, disertando, e avevano cominciato a chiamarli “traditori”. Poi la televisione curda ha trasmesso le immagini che confermavano i comunicati del PKK. Ricordo che questi avvenimenti sono accaduti nel corso di un’operazione dell’esercito. In una operazione analoga di poco tempo fa sono stati usati anche i gas e undici guerriglieri sono rimasti uccisi. I familiari non hanno ancora potuto riavere le salme per impedire che vengano riconosciuti gli effetti dei gas. Chi ha visto i cadaveri ha detto che apparivano come bruciati. La reazione in Turchia ai fatti di Hakkari è stata una manifestazione di sciovinismo. Tutta la stampa e molti scrittori hanno attaccato indistintamente i curdi. Sono stati assaliti sedi, ristoranti, librerie…In questo momento molti curdi non osano uscire di casa; dovunque sentono dire continuamente che “bisogna bombardare i curdi”. Lo Stato turco ha saputo alimentare lo sciovinismo (una “mobilitazione reazionaria delle masse” da manuale nda) e siamo di fronte al rischio di uno scontro tra le due popolazioni, non solo in Kurdistan. Infatti, tantissimi curdi, generalmente profughi, vivono a Istanbul, ad Ankara. Proprio a Istanbul recentemente il Comune ha fatto scacciare i curdi di una baraccopoli, abbattendo le loro povere case perché “imbruttivano la città”. La maggior parte dei profughi sono poverissimi e, in quanto curdi, hanno molte difficoltà a trovare lavoro.

D. Scioperi della fame contro le celle “F”, rivolte dei prigionieri, esecuzioni extragiudiziali e tortura. Sicuramente la situazione dei diritti umani in Turchia suscita parecchie preoccupazioni. Da questo punto di vista, come giudica l’eventuale ingresso della Turchia in Europa?

Ritengo che l’entrata della Turchia in Europa non sia un fatto negativo, ma bisognerebbe capire “quale Turchia”. Sicuramente non la Turchia che viola i diritti umani di un terzo della sua popolazione, i curdi. In questi ultimi tempi ci sono stati tentativi di adeguarsi alle richieste europee di una maggiore democratizzazione. I turchi hanno liberato Leyla Zana, sospeso la pena di morte, concesso una mezzora giornaliera di trasmissioni televisive in lingua curda. Tuttavia chi parla curdo dal palco (in occasione di comizi, concerto ecc.) o si richiama alle tradizioni curde, viene censurato. Non si può parlare curdo negli uffici pubblici. Addirittura gli anziani, che parlano solo la loro lingua, non possono portare un interprete. Tra il 2004 e il 2005 erano stati rilasciati anche molti prigionieri politici, passando da 12mila a circa 5mila. Ma da un anno a questa parte sono di nuovo aumentati, almeno 10mila. Gli ultimi arresti sono il risultato delle azioni della polizia contro insegnanti, giornalisti e militanti del “Partito democratico della società”. Questo partito è presente in Parlamento con ventidue deputati, gli unici che abbiano votato contro l’invasione dell’Iraq. La maggior parte dei prigionieri curdi è appunto rinchiusa nelle famigerate celle “F” in totale isolamento, senza poter mai uscire, nemmeno per la prevista ora giornaliera, senza radio, senza poter telefonare. Rimane poi molto grave, anche dal punto di vista della salute, la situazione del presidente Ocalan. Contro questo stato di cose anche recentemente ci sono state proteste e scioperi della fame. Anche Leyla Zana è nuovamente sotto processo per aver difeso l’identità curda. Lo stesso sta accadendo a molti sindaci di località curde. Recentemente il sindaco di Diyarbakir è stato condannato a sei mesi per un saluto in curdo. Una Turchia così diventerebbe un problema per l’Unione europea. Forse alla fine prevarranno soltanto gli interessi economici, ma sarebbe un peccato che i Paesi europei, fondati sulla democrazia, accettassero questa Turchia. Potrebbero invece presentare un “pacchetto di proposte” per risolvere democraticamente la questione curda. Una Turchia che rispettasse le minoranze, etniche e religiose, rappresenterebbe una ricchezza per l’Europa. (

(Gianni Sartori – 4 novembre 2007)

INTERVISTA A LEYLA ZANA, LA VOCE DEI CURDI (30 ottobre 2008)

L’8 dicembre 1994 veniva pronunciata la sentenza di condanna contro otto parlamentari curdi, sette dei quali membri del Partito democratico, DEP, messo fuorilegge. Accusati di collaborazione con il PKK e di “attentato all’integrità dello stato”, cinque imputati, tra cui Leyla Zana, furono condannati a 15 anni di carcere. Gli altri a 3 anni e sei mesi. La corte aveva lasciato cadere le accuse di “alto tradimento” evitando quindi ai condannati la pena di morte. Presumibilmente grazie alle pressioni internazionali – tra cui un appello dal presidente francese Mitterand – esercitate sul governo di Tansu Ciller (“donna dell’anno” 1993 secondo i telespettatori di Euronews). E intanto proseguivano le attività anti-curde, sia quelle ufficiali ( secondo l’agenzia Anatolia l’ultima offensiva dell’esercito nella provincia di Tunceli aveva causato la morte di una cinquantina di presunti guerriglieri) che quelle “coperte”: qualche giorno prima era stato colpito il giornale Ozgur Ulke, un morto e una ventina di feriti. Nel 1995 il Parlamento Europeo assegnava a Leyla Zana il premio Sakharov per la libertà di espressione; nel 1996 ha ricevuto il premio internazionale Rose dell’organizzazione del movimento operaio danese per la difesa dei diritti umani. Mentre era ancora detenuta nel carcere speciale di Uculanlar (Ankara) le è stata accordata la cittadinanza onoraria di Roma. Per molti anni l’ex prigioniera politica è stata la “bestia nera” delle unità speciali turche, responsabili di una durissima repressione nei territori curdi. La sua immagine veniva usata come bersaglio nei poligoni di tiro. A Leyla Zana stava per essere attribuito anche il premio Nobel per la Pace, ma poi la candidatura venne accantonata per le proteste della Turchia.

Giovedì 30 ottobre 2008, presso l’Ateneo Veneto di Venezia, si è svolto un incontro-dibattito con Leyla Zana. Vi hanno preso parte anche Hevi Dilara, Tiziana Agostini, Orsola Casagrande, Baykar Sivazliyan e Luana Zanella. Un’occasione per conoscere “non solo la sua storia di donna curda, ma la storia di una comunità, di una nazione senza stato” ha commentato Tiziana Agostini. I curdi sono un popolo che “dall’antica Mesopotamia hanno saputo arrivare fino ai nostri giorni per la loro forte identità, forza morale, generosità”. Attualmente smembrato in quattro stati, il Kurdistan “galleggia” su un mare di petrolio. Nel Kurdistan “iracheno” (Kurdistan Sud) i bombardamenti ordinati da Saddam – sulla città di Halabja e sui villaggi del Nord-est – sono stati un disastro per un popolo in buona parte di agricoltori. Il cianuro è penetrato nel terreno e gli effetti durano ancora a venti anni di distanza. Se qui oggi i curdi possono parlare la loro lingua, altrove il “diritto alla parola” viene ancora negato. In particolare nel Kurdistan “turco” (Kurdistan Nord, 20-25 milioni di curdi) dove le tensioni sono maggiori. La giornalista Orsola Casagrande ha ricordato che “sono ormai passati diciotto anni da quando Leyla Zana venne eletta pronunciando poi nell’aula del Parlamento parole di pace e speranza in lingua curda. Successivamente arrestata e condannata per separatismo, ha trascorso 11 anni in carcere e decine di altri processi nei suoi confronti restano ancora aperti”.
“Nel Kurdistan “turco” c’è la guerra –ha continuato Casagrande- e anche in questi giorni proseguono i bombardamenti da parte dell’esercito e dell’aviazione. Inoltre la Turchia si è arrogata il diritto di bombardare il Kurdistan “iracheno”. Per aver tradotto in curdo (oltre che in inglese, tedesco, francese…) gli opuscoli turistici, alcuni sindaci sono ora sotto processo. Nelle scuole la lingua ufficiale è quella turca. Si può scegliere di studiare l’inglese o il tedesco come lingua straniera, ma non il curdo. Quest’anno lo stand dei curdi a Francoforte è stato assalito da estremisti turchi per aver esposto la bandiera del Kurdistan e le emittenti curde in Europa sono minacciate di chiusura”. Un panorama desolante. Baykar Sivazliyan, autore del recente libro Ospiti silenziosi. I curdi in Italia, ha ricordato che “ormai un quarto di secolo fa l’Ateneo Veneto aveva organizzato a Venezia, insieme alla Fondazione Lelio Basso e alla Lega per i diritti e la liberazione dei popoli, un incontro analogo dedicato al genocidio armeno di cui oggi almeno si comincia a parlare anche in Turchia”. Una nazione moderna, coraggiosa dovrebbe affrontare alcune questioni come il fatto che “in Turchia non esistono solo turchi, quasi un terzo della popolazione è costituito da curdi”. Per la prima volta in Italia, Leyla Zana racconta che “quando ieri sera sono arrivata a Venezia era buio, ma oggi non riuscivo a staccare gli occhi dalle infinite bellezze della città”. In mattinata c’era stato l’incontro con il sindaco Massimo Cacciari e con l’assessora alla cultura Luana Zanella che ha paragonato la situazione dei curdi a quella del Tibet. Leyla Zana ha ringraziato soprattutto “Tiziana e Orsola per aver raccontato quello che sta subendo il mio popolo”.

In Turchia per il vostro popolo la situazione resta difficile. Rifiuto da parte del governo di riconoscere l’identità curda e dura repressione. Ce ne può parlare?
Penso che nessun popolo al mondo altrettanto numeroso come i curdi (circa 40 milioni nda)
sia rimasto senza un proprio stato. Quando venne fondata la Repubblica di Turchia i parlamentari curdi eletti sono andati nel Parlamento, ma poco tempo dopo molti furono impiccati. Eppure Mustafa Kemal, Ataturk, aveva detto che era “la repubblica dei turchi e dei curdi”. Anche nel 1991 siamo stati eletti come curdi, 22 maschi e io, la prima donna eletta dal mio popolo a cui avevo promesso “sarò la vostra lingua”. Ho giurato in curdo, nella mia madre lingua e quasi tutti i parlamentari mi hanno attaccato. Io dicevo: perché non ascoltate le mie parole che parlano di pace? Loro sostenevano che dovevo parlare in turco, ma noi siamo nati curdi, abbiamo la nostra cultura, storia, lingua. Noi vogliamo convivere con voi, dicevo, ma voi dovete accettare la nostra identità. Ma per loro noi siamo “i turchi rimasti sulle montagne” e così ci hanno incarcerato per molti anni. Oggi, a causa della lotta di liberazione, riconoscono l’esistenza dei curdi, ma non i loro diritti. E tutto il mondo sembra ascoltare il governo turco quando dichiara che non sta violando i diritti umani. Ovviamente gli stati fanno i loro interessi e chiudono gli occhi sulla condizione dei curdi. Noi non siamo contro i rapporti economici, ma chi vende armi alla Turchia dovrebbe sapere che verranno usate contro i villaggi curdi. Molti curdi sono venuti in Europa, anche qui a Venezia. Però vorrei precisare che il mio popolo non è scappato per un pezzo di pane. Se avessero potuto continuare a vivere nella loro terra, a lavorare nella loro terra, i curdi non sarebbero venuti all’estero. Il Kurdistan non è ricco soltanto di petrolio e giacimenti minerari, ma anche di acqua, la principale fonte di vita. Se si avviasse un dialogo la ricchezza della nostra terra ci basterebbe per vivere.

D. Vien da chiedersi come possano i curdi continuare a vivere in questa situazione…
Vivono male infatti. Nel Nord Kurdistan più di 3500 villaggi sono stati evacuati. Molti curdi sono fuggiti in Europa, altri nelle metropoli turche. Soprattutto questi ultimi incontrano grandi difficoltà, il loro tasso di disoccupazione è altissimo. Nelle città turche i bambini curdi di sei-sette anni vendono fazzoletti e altri oggetti per la strada, mentre i loro coetanei vanno a scuola, fanno sport, imparano altre lingue. Molti bambini curdi figli di sfollati devono lottare per un pezzo di pane. Noi diciamo che “il peso della vita gli ha bloccato la schiena”. Nel mio caso, anche la mia famiglia è spezzata in quattro, come il mio popolo.

D. Esiste qualche Stato disposto a riconoscere l’indipendenza del Kurdistan?
Il Kurdistan è diviso in quattro stati, due arabi, uno persiano e uno turco che hanno stretto alleanze per non riconoscere uno stato curdo. Dopo la caduta di Saddam la repressione è aumentata sia in Iran (dove molti curdi sono stati impiccati) che in Siria, dove attualmente i curdi non hanno diritti. Ogni volta che i curdi, divisi dalle frontiere statali, riprendono a dialogare tra loro, gli stati intervengono attaccandoli, creando difficoltà. Da quando nel Kurdistan Sud (la parte “irachena”) esiste una certa autonomia, la Turchia attacca militarmente perché non accetta questa realtà. Nessun governo aiuta i curdi. Naturalmente noi non chiediamo aiuti agli stati; ci basterebbe che almeno non sostenessero quelli che ci bombardano. Ogni popolo ottiene la libertà con le proprie mani, ma l’amicizia tra i popoli può avvicinare questo momento.
(Gianni Sartori – ottobre 2008)

PS. Poco tempo dopo questa intervista, il 4 dicembre 2008, Leyla Zana veniva nuovamente condannata a dieci anni di carcere dalla corte di Diyarbakir. La sua “colpa”, aver espresso durante conferenze e manifestazioni, sostegno al PKK e al suo fondatore Ocalan. Per il momento la condanna è sospesa.

ESECUZIONE DI RUE LA FAYETTE: FORSE UN “EFFETTO COLLATERALE” DEI MUTAMENTI IN ATTO NELLO SCACCHIERE MEDIORIENTALE?

Questo intervento sul ruolo delle donne curde nella lotta per l’autodeterminazione risulterebbe monco se non ci occupassimo anche dei tragici eventi dell’anno scorso (9 gennaio 2013) a Parigi, nella sede del Centro d’informazione del Kurdistan in rue La Fayette.
Non è forse del tutto casuale che l’assassinio delle tre militanti sia avvenuto in momento di significativi interventi francesi nello scacchiere mediorientale (in senso lato). Mentre l’esercito francese interveniva sia nel Mali che in Somalia, il presidente Hollande si preoccupava di portare in Francia alcune centinaia di interpreti afgani che in patria rischiavano di subire ritorsioni in quanto “collaborazionisti”.
E anche gli omicidi di rue La Fayette proiettavano l’ombra dei conflitti medio-orientali nel cuore dell’Europa. In un primo momento la triplice esecuzione delle esponenti curde legate al PKK ha rischiato di far saltare le trattative tra il governo turco e il prigioniero politico Abdullah Ocalan, leader del Partito dei lavoratori curdi. Oltre al capo dei servizi segreti segreti Hakan Fidan, agli incontri avevano partecipato anche esponenti del Partito per la pace e la democrazia (BDP, talvolta considerato la “vetrina legale” del PKK). Particolare inquietante, l’uccisione di Sakine Cansiz, Fidan Dogan e Leyla Soylemez è avvenuta appena due giorni dopo le rivelazioni del giornale turco Radikal sull’esistenza di trattative per porre termine al conflitto iniziato nel 1984. In particolare Ocalan aveva richiesto ai combattenti un nuovo cessate-il-fuoco e ottenuto dai militanti curdi in carcere la sospensione dello sciopero della fame iniziato un mese prima. Tra le ipotesi inizialmente più accreditate, quella di un’azione dei “Lupi Grigi” (estrema destra nazionalista turca), in combutta con settori dell’esercito contrari alla soluzione politica. Questa sembrava essere l’opinione anche di Zubeyir Aydar che aveva definito il triplice omicidio “un attacco diretto contro i negoziati sull’isola di Imrali (dove Ocalan è rinchiuso dal 1999 nda)”. L’alto responsabile in Europa del PKK aveva quindi accusato “forze oscure legate allo Stato profondo turco”. Alcuni osservatori evocavano invece un possibile intervento dei servizi segreti siriani che avrebbero visto con favore la ripresa della guerriglia curda in quanto destabilizzante nei confronti della Turchia. Scontate le dichiarazioni di Erdogan e del vice-primo ministro Bulent Arinc. Per i due esponenti dell’AKP si trattava di “un regolamento di conti interno al PKK”. Una tesi non facilmente sostenibile pensando al ruolo delle tre militanti assassinate. Particolarmente amata dalla resistenza curda, Sakine Cansiz era stata una delle fondatrici del PKK e aveva trascorso molti anni in prigione dove aveva subito la tortura. Fidan Dogan, 32 anni, era la responsabile del Centro d’informazione del Kurdistan dove è avvenuto il massacro. La più giovane, Leyla Soylemez di 24 anni, dirigeva l’organizzazione giovanile. Tra le persone indagate, un giovane turco che da qualche tempo collaborava con il Centro di informazione del Kurdistan di Parigi.
Gianni Sartori

*Nel gennaio di quest’anno (2014) i sospetti si erano concentrati su Omer Guney. L’uomo potrebbe essere stato un esecutore di ordini provenienti dai servizi segreti turchi. Dal suo passaporto, rimasto a lungo nascosto nell’auto, è stato possibile scoprire che si era recato varie volte a Istanbul e Ankara, in particolare nel dicembre 2012, poco prima della triplice esecuzione. Dal suo telefono portatile si è potuto scoprire che l’8 gennaio 2013, il giorno prima degli omicidi, tra le 4,23 e le 5,33 del mattino, era entrato di nascosto nella sede dell’associazione curda a Villiers-le-Bel per fotografare 329 tessere di aderenti. Due giorni prima aveva ugualmente fotografato altri documenti non pubblici. Alcuni suoi amici, rintracciati in Germania da vari giornalisti, hanno dichiarato che quando Guney viveva in Germania (tra il 2003 e il 2011) era considerato “un turco di estrema destra, simpatizzante del partito nazionalista MHP, i Lupi Grigi”. La polizia francese sta ancora indagando sul gran numero di telefonate verso numeri definiti “atipici, tecnici la cui funzione o origine non può essere individuata”. Anche i documenti pubblicati recentemente dalla stampa turca di sinistra, sembrano confermare che Omer Guney agiva su ordine del MIT, i servizi segreti turchi. In una registrazione pubblicata in Internet si sente una persona, presentata come Omer Guney, spiegare dettagliatamente il suo piano per eliminare Sakine Cansiz. Nella conversazione si parla poi di altri possibili bersagli curdi, in particolare di Nedim Seven. Mentre la polizia francese sta ancora indagando per identificare la voce in questione, per le associazioni curde e per le persone che lo hanno conosciuto non ci sarebbero dubbi. Quella è la voce di Guney, riconoscibile per alcuni caratteristici tic linguistici. Convinto che quello di rue La Fayette sia “un assassinio ordinato dalla Turchia” anche Gulten Kisanak, co-presidente del Partito per la Pace e la democrazia. Incarcerato a Fresnes, Omer Guney continua a proclamare la sua innocenza. Non ha però saputo nemmeno spiegare perché lui, un turco, si spacciasse per rifugiato curdo da quando era arrivato in Francia.
Il quotidiano “Sol Gazete” ha invece pubblicato un documento, definito “un rapporto del MIT” e datato 18 novembre 2012, dove si parla di un finanziamento di 6mila euro per una “fonte” allo scopo di “procurarsi l’equipaggiamento necessario per il lavoro da compiere” e di ulteriori istruzioni per “passare alla fase finale”.
Se i sospetti dovessero essere confermate saremmo di fronte all’ennesimo omicidio di Stato (gs)

Gianni Sartori - 8/10/2014 - 12:55


Gianni Sartori - 15/10/2014 - 07:11


segnalo in rete:
ETNIE, Terrore di Stato in Turchia: i comunicati delle organizzazioni curde
Filed in autonomismo, curdi, etnismo, turchia by Gianni Sartori del 19/08/2015

Gianni Sartori - 19/8/2015 - 19:48


segnalo in ETNIE, la lotta dei curdi è per l'umanità" intervista ai rappresentanti del popolo curdo in Italia (UIKI Onlus) di Gianni Sartori

Gianni Sartori - 27/8/2015 - 16:30


Gianni Sartori - 29/8/2015 - 10:06


Un appello: TOGLIERE L'ASSEDIO A SILVAN

(Di Gianni Sartori)


Mentre venerdì 13 novembre molti commentatori, da Adriano Sofri al ministro Gentiloni, elogiavano il ruolo dei Curdi nella liberazione di Shingal (opera soprattutto dei combattenti di PKK e YPG), in territorio sotto amministrazione irachena per quanto ormai autonomo, quasi nessuno si preoccupava della situazione drammatica in cui versa un'altra città curda, Silvan, nella provincia di Diyarbakir, territorio sotto amministrazione turca.
Dalla città assediata è giunto l'appello della popolazione sottoposta dal 2 novembre a insensati e criminali bombardamenti da parte dell'esercito turco, forse coadiuvato da miliziani jihadisti. Sono in particolare i quartieri di Tekel, Mescit e Konak ad essere stati occupati militarmente dai militari e dalle forze speciali di polizia. Alla popolazione non è concesso di lasciare le proprie case nemmeno per le necessità essenziali o per recuperare i feriti e seppellire i morti. Il coprifuoco resta in vigore 24 ore su 24. Mentre le persone si nascondono nelle cantine, i carri armati turchi percorrono le strade sparando. Altri carri armati, dalle alture circostanti, aprono il fuoco contro le abitazioni. Impossibile stabilire quali sia finora il numero delle vittime, tra cui molti sono vecchi, donne, bambini.

Un breve riepilogo: La situazione nel Kurdistan sottoposto all'amministrazione turca
è precipitata negli ultimo tempi dopo che il governo turco ha deciso unilateralmente di abbandonare il processo di pace, un processo grazie al quale per circa due anni quasi nessuno era stato ucciso in scontri tra guerriglieri curdi e forze di polizia o esercito. La campagna elettorale di giugno era stata funestata da almeno170 violenti attacchi contro gli uffici del HDP (Partito Democratico del Popolo). Da segnalare i veri e propri bombardamenti a cui sono stati sottoposti gli uffici di Mersin e di Adana. Alcuni curdi venivano poi uccisi da una bomba lanciata contro la manifestazione conclusiva del HDP a Diyarbakir. Il risultato elettorale, come è noto, aveva reso impossibile la costituzione della maggioranza del partito di Erdogan in Parlamento e da qual momento la violenza è andata via via crescendo con metodi che ricordano la strategia della tensione nell'Italia degli anni sessanta e settanta (Piazza Fontana, Brescia, Italicus...). Una trentina di giovani in missione umanitaria a Kobane venivano assassinati in un attentato a Suruc e il governo turco lanciava poi una serie di aggressioni contro le aree curde che avevano proclamato l'”Autonomia” come forma di protezione per la popolazione. Da parte di esercito e forze speciali veniva proclamato il coprifuoco permanente, mentre dai tetti i soldati sparavano su chi osava mostrarsi nelle strade. In questo modo molti civili hanno perso la vita.

Dal 2 novembre è questa la situazione in cui versa la città di Silvan. Ziya Pir, eletto nelle liste del HDP, ha raccontato di aver cercato di intervenire sulla situazione di Tekel, Mescit e Konak presso un funzionario del Ministero degli interni per sentirsi rispondere che “cancelleremo questi tre quartieri dalla mappa”. Il deputato ha poi dichiarato che “sparano in maniera indiscriminata dappertutto. Soldati, polizia e persone assolutamente non registrate, che posso solo chiamare “cacciatori di teste”, stanno distruggendo gli edifici da cima a fondo con i cannoni. Carri armati sono stati posizionati per controllare queste zone e noi non vi possiamo entrare”.
“Secondo le informazioni che abbiamo dall'interno - ha poi aggiunto – le persone a gruppi di 10-15 si nascondono nelle cantine. Nessuno può uscire perché ci sono cecchini appostati sui tetti. Se vedono anche un'ombra dentro una casa o qualsiasi segno di vita aprono il fuoco. In operazioni precedenti solitamente c'era una interruzione di una o due ore: Adesso si spara 24 ore su 24 senza interruzione”.


Sempre dall'interno di Silvan sono giunte notizie in merito a “uomini con la barba di lingua araba che prendono parte alle operazioni militari”. Operazioni militari, va precisato, rivolte contro la popolazione civile.
Il personale di un ospedale locale ha dichiarato che “alcuni uomini in uniforme da corpi speciali hanno portato funzionari della sicurezza in ospedale per le cure. Questi uomini che hanno barba lunga come gli esponenti di ISIS erano sicuramente stranieri e tra loro parlavano in arabo”. Sulla questione è intervenuto anche il parlamentare del HDP della città di Batman confermando, in una trasmissione televisiva, la presenza di miliziani che molto probabilmente appartengono a ISIS. Notizie analoghe erano già pervenute durante il coprifuoco a cui erano state sottoposte Cizre nel distretto di Sirnak e Nusaybin nel distretto di Mardin. Ovviamente, le aree sottoposte a questa dura repressione sono soprattutto quelle in cui è più forte la presenza elettorale del HDP.
Tutto questo avviene mentre il governo turco ospita una conferenza del G 20 a Antalya (15-16 novembre) ben sapendo che la maggior parte dei governi europei è ben disposta a chiudere entrambi gli occhi sulle violazioni dei diritti umani in cambio di una limitazione del flusso dei profughi.
Gianni Sartori (novembre 2015)

Gianni Sartori - 14/11/2015 - 18:00


IN TEMPO REALE:
E' APPENA ARRIVATO IL COMUNICATO DI UIKI CHE INVIO INTEGRALE, ciao
GS


SILVAN HA VINTO!
Dopo 12 giorni, a Silvan è stato revocato il coprifuoco che teneva stretta d’assedio la città. La decisione è stata presa alle 14.00 di oggi.

Le truppe militari turche e i carri armati si sono ritirati dai quartieri al 12 ° giorno di assedio e repressione contro le zone di autogoverno a Silvan distretto di Amed.Il ritiro delle truppe turche è stato contrassegnato da un protesta di massa da parte delle popolazioni che si sono riversate in piazza scandendo lo slogan “Biji berxwedana Farqînê” [Lunga vita alla resistenza di Farqîn (Silvan) .

Durante i 12 giorni di coprifuoco,che è stato rimosso oggi,il distretto è stato teatro di una pesante aggressione della polizia turca e delle forze militari nei quartieri di Tekel, Konak e a Mescit con tutti i mezzi tecnici disponibili,che hanno provocato 7 morti.

Solo oggi i soldati ed i carri armati dell’esercito turco si sono ritirati nel comandi di reggimento della gendarmeria che si trova nel centro del distretto.

“Assassini fuori dal Kurdistan” è “Bijî berxwedana Farqînê” sono gli slogan cantati da centinaia di persone che si sono radunate nelle strade durante la ritirata delle forze militari e dei carri armati.Ha colto l’attenzione che i soldati durante la ritirata hanno puntato le loro armi contro i civili,e che la polizia ha dato l’annuncio dai veicoli blindati affermando:”Grazie per aver liberato il distretto dai terroristi” indirizzando le loro lodi ai soldati.

Allo stesso tempo centinaia di persone si sono riversate oggi pomeriggio nei tra quartieri dopo la rimozione del coprifuoco.Nonostante gli attacchi delle polizia puntavano a ostacolare e a disperdere la folla,la popolazione si è organizzata per entrare nei quartieri dopo 12 giorni di repressione militare.

Anche se la polizia ha attaccato con gas lacrimogeno, le persone hanno continuato ad affollare le strade e i quartieri manifestando contro il blocco.

La violenza dei militari è tale che hanno sparato con armi da fuoco contro un deputato dell’HDP e la cosindaca di Silvan. Nonostante la revoca del coprifuoco, coloro che si avvicinano alle barriere della polizia sono comunque oggetto di duri attacchi.

Le case sono in rovina e le strade devastate dai colpi dell’artiglieria turca, ma i cittadini di Silvan continuano la propria resistenza e l’aria risuona dei canti della guerrigliera martire DELILA che proprio di Silvan aveva i natali.

GIANNI SARTORI - 14/11/2015 - 19:41


Gianni Sartori - 6/2/2016 - 16:20


1936 – 2016: LA RESISTENZA CONTINUA
(Gianni Sartori)

1936: a Barcellona, Donosti, Madrid operai, braccianti, libertari, democratici...scendono, armati, nelle strade per contrastare il golpe fascista di Francisco Franco e per conquistare una vita degna.

2016: nel Rojava e nel Bakur , a Kobane come a Cizre e Dijarbakir, la popolazione curda resiste sia ai fascisti di Isis-Daesh (moderna versione mediorientale dei “corpi franchi” e delle S.A. tedeschi, apripista del nazismo istituzionalizzato) che al fascismo, lievemente mascherato, di Erdogan. Per la Libertà, per l'Umanità, per una vita degna di tutte e di tutti.

Il governo turco, foraggiato dalla Unione europea con 3 miliardi di euro, ha scatenato una vera pulizia etnica, all'interno dei propri confini, contro i curdi.
Qualche esempio: sono oltre 300 i morti accertati nella sola città di Cizre, sottoposta a continui bombardamenti, mentre sono ormai una novantina i giorni del coprifuoco imposto a Sur (quartiere di Dijarbakir, in teoria patrimonio mondiale dell'Unesco) dove i civili, in gran parte donne e bambini, nascosti negli scantinati, chiedono di non essere abbandonati ad un ennesimo massacro per mano delle truppe di Erdogan.

Complessivamente le vittime civili di questi attacchi alle città curde nel Bakur sono centinaia; e presumibilmente ancora di più i militanti della Resistenza del PKK caduti sotto il piombo turco.
E non è certo un caso che a essere prese di mira dalla polizia e dall'esercito turchi siano spesso le donne e le bambine (una quarantina finora accertate, con età compresa dai 3 mesi ai 52 anni). Inevitabilmente vien da fare un parallelo con quanto accadde un secolo fa agli armeni. Quello che il nazionalismo turco ha organizzato nel 1915 (ittahat ve terakki) si sta ripetendo oggi contro i curdi.

Mentre il popolo curdo, da solo o quasi, tiene alta la bandiera della dignità umana e di un progetto sociale che garantisca la libertà di tutte le componenti (etniche, religiose...) presenti in quei territori, cosa fa il nostro paese?
L'Italia sta dando una mano vigorosa agli aguzzini, sia tacendo sui massacri per salvaguardare i propri interessi, sia fornendo armi e sistemi militari (vedi Finmeccanica). E ora, forse con quelle stesse armi (sempre che non le abbiano già passate a Isis-Daesh) la Turchia sta bombardando anche i curdi delle Ypg-Ypj nel Rojava.

Piccola consolazione, sono numerose (anche se sempre troppo poche) le manifestazioni nella penisola per protestare contro il massacro operato da Ankara. A Roma il 25 gennaio, a Trieste e Bolzano il 27...
Ma in marzo è possibile dare una testimonianza ancora più concreta della nostra solidarietà partecipando al Capodanno curdo (Newroz) del 21 marzo 2016.
Allego l'appello-invito delle organizzazioni curde, girato da UIKI che chiede la presenza di osservatori internazionali che possono registrarsi direttamente.

Care amiche,
Cari amici,

Vi invitiamo cordialmente a raggiungerci per il Newroz (Capodanno Curdo, 21 marzo) a Diyarbakir il 21 marzo 2016.

Il Newroz, l’equinozio di primavera, viene celebrato in una vasta are geografica come l’annuncio del risveglio comune della natura e della società. Per il popolo curdo il Newroz è anche il simbolo della lotta contro la tirannia e la libertà dal giogo.

Mentre il Newroz di quest’anno si avvicina stiamo assistendo all’inasprimento delle politiche di violenza e oppressione del governo turco contro il popolo curdo, all’intensificarsi del conflitto interno in Siria e all’aumento delle minacce di conflitti regionali e globali. In un simile contesto vorremmo celebrare il Newroz come parte delle lotte per una pace giusta e sostenibile, l’autogoverno autonomo e la coesistenza democratica in Turchia, Rojava (Siria settentrionale) e nel Medio Oriente più ampio. Per piacere venite e unitevi a noi per sostenere lo spirito libero del Newroz. Saremo onorati e rafforzati dalla Vostra presenza.

In solidarietà,

A nome del Comitato Organizzativo Newroz 2016

Selahattin Demirtaş & Figen Yüksekdağ /Co-Presidenti, Partito Democratico dei Popoli (HDP)
Selma Irmak & Hatip Dicle/ Co-Presidenti, Congresso della Società Democratica (DTK)Ayla Akat Ata /Portavoce, Congresso delle Donne Libere (KJA)
Kamuran Yüksek /Co-Presidente ,Partito Democratico delle Regioni (DBP)

PROGRAMMA

Data: 21 marzo 2016
Luogo: Piazza Newroz a Diyarbakir
Sede e orario incontro: Edificio del Congresso della Società Democratica – ore 08:00

REGISTRAZIONE:
Per piacere inviateci le seguenti informazioni a international@hdp.org.tr

Nome e cognome:
Istituzione/organizzazione/ Paese:
E-mail/numero di telefono:
Orario di arrivo e partenza (giorno e ora)
Nome dell’Hotel:
Esigenze specifiche (Interprete e altro):

Per ulteriori informazioni per cortesia contattate:
Rappresentanza HDP in Europa: hdpeurope@skynet.be
Commissione esteri HDP: diplo.hdp@outlook.com

E concludo: l'odierna resistenza dei Curdi è per l'Umanità e ognuno di noi, per quanto sta nelle sue possibilità, dovrebbe schierarsi al loro fianco. Qui e ora.
Se lo meritano.
Gianni Sartori

nota: Per evidenti limiti finanziari, il Comitato organizzativo del Newroz 2016 non è in grado di coprire alcuna spesa di viaggio e alloggio. Chi fosse in grado di partecipare ha la possibilità di prenotare in uno dei seguenti hotel:

1.Hilton Garden Inn: http://hiltongardeninn3.hilton.com/en/...
2.Dies Hotel: http://diesotel.com/?lang=en
3.Miroğlu Hotel: http://www.mirogluhotel.com/
4.Turistik Hotel: http://www.turistikotel.com.tr/
5.Dedeman Hotel: http://www.dedeman.com/hotel-diyarbaki...
6. Mitannia Hotel: http://www.mitanniaregencyhotel.com/

Gianni Sartori - 26/2/2016 - 19:53



KURDISTAN: LA LOTTA CONTINUA
(Gianni Sartori - 6 marzo 2016)

SCIOPERO DELLA FAME DEI PRIGIONIERI CURDI

I prigionieri curdi del PKK e le prigioniere curde del PAJK (Partito della Liberazione delle Donne del Kurdistan) hanno iniziato uno sciopero della fame nelle prigioni turche dove sono rinchiusi. Lo sciopero si preannuncia a tempo indeterminato e in alternanza, a turno.

Deniz Kaya, parlando a nome del PKK e del PAJK, ha dichiarato che questa protesta dei prigionieri va interpretata come un “avvertimento” al presidente turco Recep Tayyp Erdogan e al governo AKP. Con questo sciopero i prigionieri intendono rivendicare “il riconoscimento dell'autonomia per il popolo curdo e le liberazione di Abdullah Ocalan”.
I prigionieri hanno così voluto portare all'attenzione dell'opinione pubblica l'attuale politica di annientamento condotta, con una barbarie senza precedenti, dal governo turco contro la popolazione curda.
Deniz Kaya si è rivolto a quanti si considerano “intellettuali, scrittori o giornalisti, ma restano in silenzio sul brutale massacro” chiedendo loro di “rispettare i valori umani” mettendo poi in guardia sul fatto che “la guerra condotta da Erdogan contro i curdi sta portando la Turchia sull'orlo di un baratro”.
E proseguiva: “Noi dobbiamo dire chiaramente che non abbiamo mai ceduto davanti a questi politici corrotti durante 43 anni e che non abbiamo mai abbandonato la lotta. Bruciando la gente ancora viva dentro gli scantinati e appendendo i corpi nudi delle vittime, il governo AKP dimostra apertamente di non rispettare né le leggi di guerra, né l'umanità”.
Appare evidente come Erdogan e i suoi complici abbiano ormai superato il limite della decenza e “un giorno saranno giudicati dal popolo curdo” avverte il comunicato. Nel comunicato si informa che lo sciopero iniziato oggi (6 marzo 2016) proseguirà condotto da gruppi di prigioniere e prigionieri che si alterneranno ogni dieci giorni. Rivolge poi un appello tutte le “orecchie sensibili” affinché denuncino pubblicamente le atrocità commesse dal governo turco e diano sostegno al popolo curdo.

ALTRE PROVE DELLA COMPLICITA' TURCA CON L'ISIS

“Isis assassino, AKP collaborazionista” gridavano i manifestanti turchi scesi in strada per protestare contro il loro stesso governo, ritenuto complice dello stato islamico, dopo gli attentati del 20 luglio 2015 in cui avevano perso la vita 32 militanti di sinistra. Ora altre prove si sono aggiunte, a conferma di questa collaborazione in chiave anti curda e anti Assad.
In un recente articolo di Martin Chulov (sul “Guardian”) veniva spiegato come tra gli effetti collaterali di un recente raid contro il complesso residenziale di Abu Sayyaf (responsabile finanziario dello stato islamico, ucciso nel raid), vi fossero ulteriori prove che funzionari turchi di alto livello trattano direttamente con dirigenti di Isis (o Isil, o Daesh...). Sayyaf era il responsabile della direzione delle operazioni del gas e del petrolio in Siria per conto di Daesh che guadagna circa 10 milioni di dollari al mese dalla vendita di idrocarburi al mercato nero.
Il sequestro di vari documenti e chiavette (“unità flash”) sembrano confermare in maniera inequivocabile (“in modo chiaro e inequivocabile” si legge nell' articolo) i collegamenti tra Turchia e Isis. Le prove così ottenute potrebbero secondo l'articolo del Guardian (riportando le dichiarazioni di un “alto funzionario occidentale” che ha potuto accedere ai documenti sequestrati): “avere profonde implicazioni politiche nel rapporto tra noi e Ankara”.
Niente di nuovo. Le buone relazioni tra Ankara e l'Isis (in particolare il vasto contrabbando di armi e di combattenti verso la Siria, sia per provocare la caduta di Bashar Assad che, soprattutto, per combattere i curdi) erano stati denunciati perfino da Joe Biden. Va ricordato quanto dichiarava nel novembre 2015 un ex membro di Isis a Newsweek: “I comandanti di Isis ci avevano detto che non temevano nulla perchè c'era piena cooperazione con i turchi” aggiungendo che “isis vedeva l'esercito turco come un suo alleato specialmente quando si è trattato di attaccare i curdi in Siria”.

E più recentemente, in febbraio, un diplomatico occidentale aveva detto al The Wall Street Journal che: “ la Turchia adesso è intrappolata, ha creato un mostro e non sa come affrontarlo”.

ANCHE TURKMENI E ARABI NEL MIRINO DI DAESH E ANKARA

Mi aveva sinceramente colpito la notizia (risalente ancora al 2014) che i militanti curdi del PKK erano intervenuti per portare in salvo gli abitanti di un villaggio di turkmeni attaccato dall'Isis. Ma come, mi dicevo, non sono stati forse i “turcomanni” (popolazione linguisticamente turcofona) a collaborare in passato con la Turchia contro i curdi (v. l'attacco al campo profughi di Atrush nel 1997)?
Come mai ora vengono attaccati dall'Isis, notoriamente “in batteria” con Ankara? Forse dipendeva dal fatto che quel villaggio aveva, agli occhi dei fascisti di Isis, un grave difetto: gli abitanti sarebbero stati in maggioranza sciiti e quindi “eretici”. Bontà loro, i curdi (che evidentemente non portano rancore) si sono prodigati per proteggerli, così come hanno fatto con cristiani, alawiti e yazidi. Questi ultimi, una popolazione curda, vengono considerati ancora peggio che eretici (“pagani” addirittura) da Isis che si conferma come l'odierna versione islamica della “Santa” Inquisizione.
Un altro villaggio a maggioranza turmena (Tel Abyad) è stato attaccato in questi giorni da Isis, con il sostegno turco. In un comunicato, Xali Redur denuncia che “i gangster di Daesh hanno massacrato 2 turkmeni, 3 curdi e 3 arabi, mentre durante la nostra liberazione di Tel Abyad nessun civile era stato ferito”. E aggiunge il portavoce di YPG: “con il sostegno dello stato turco, Daesh si accinge a massacrare anche turkmeni e arabi della regione”.

CHE FINE HANNO FATTO LE DONNE EZIDE SEQUESTRATE DA DAESH?

Un dramma senza fine quello delle donne curde ezide sequestrate a centinaia nell'agosto del 2014, considerate “bottino di guerra” e violentate dai terroristi di Daesh. Secondo il sindaco di Sinjar (nord Iraq) sarebbero state deportate in altri paesi come l'Afghanistan, il Pakistan, la Libia e la Cecenia. Una notizia confermata dalle dichiarazioni di numerose donne ezide liberate, dopo il pagamento di un riscatto, grazie all'opera di mediatori.
“In questo momento -ha spiegato il sindaco di Sinjar(liberata dalla coalizione curda il 13 novembre 2015) – non sappiamo quanti giovani donne sono state portate al di fuori dell'Iraq e della Siria, ma riteniamo che Daesh ha potuto farle uscire clandestinamente per via terra”.
In precedenza altre donne erano state portate nelle città di Mosul e di Tel Afar, ma al momento si troverebbero in località siriane ritenute “più sicure” per Daesh.
Ha poi aggiunto che “molte donne sequestrate possono ancora utilizzare i loro telefoni portatili, parlano con i loro familiari e chiedono di essere riscattate”. In base ai dati forniti da uffici governativi, delle oltre seimila e duecento persone ezide sequestrate, quasi quattromila sono ancora nelle mani dei rapitori e tra loro circa duemila sono donne e bambine.
Hussein Koro che si occupa delle persone sequestrate per conto del governo regionale del Kurdistan iracheno (KRG) spiega che “abbiamo pagato il riscatto di molte vittime di rapimento” ma non sempre il pagamento garantisce la liberazione delle donne rapite. In altri casi sono state le famiglie a pagare anche se, purtroppo, in molti casi le persone che si erano offerte come intermediari sono risultate dei truffatori.
Xudeda Misto, un anziano membro della comunità yazida di Shingal (a cui Daesh nel 2014 ha rapito la moglie, tre figlie e un figlio) ha raccontato che gli erano stati chiesti 15mila dollari per riavere la figlia maggiore (detenuta in Siria) “ma io ne possedevo soltanto 5mila”.
Secondo le associazioni per i diritti umani, migliaia di donne e ragazze ezide sono state costrette a sposarsi o sono state vendute come schiave sessuali dai terroristi di Daesh. Nel novembre dell'anno scorso, l'ONU ha definito l'attacco alla popolazione ezida come “un possibile genocidio”.
Da parte sua il Parlamento europeo ha riconosciuto Daesh “colpevole di genocidio per aver rapito migliaia di donne curde ezide e ucciso migliaia di uomini, donne e bambini a Shengal”.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 6/3/2016 - 16:41


I CURDI, UN POPOLO RESISTENTE
(Gianni Sartori – marzo 2016)


Grazie ad una informazione quantomeno reticente e tardiva, negli ultimi mesi lo stato turco ha potuto bombardare e massacrare impunemente la popolazione curda entro i suoi stessi confini.

Non senza ragione l'Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia (UIKI)
si chiedeva:

“L'obiettivo principale della UE non dovrebbe essere quello di proteggere i diritti umani fondamentali, la democrazia e la pace?”.

sollecitando quindi i responsabili politici europei a:

“condannare le azioni dello Stato turco e portare questi criminali di guerra davanti ai vostri tribunali”. Speranza vana, presumibilmente, dato che la Turchia, membro della Nato, difficilmente verrà mai giudicata da un tribunale internazionale.

Si calcola che i civili curdi uccisi in sei mesi a Cizre, Silopi, Gever, Sur, Nusaybin e Idil siano un migliaio (768 quelli finora identificati). Almeno 150 sarebbero stati bruciati vivi all'interno degli scantinati dove cercavano di ripararsi dai bombardamenti.
Il 10 e l'11 marzo il Partito democratico delle regioni (DBP) aveva diffuso i risultati dell'indagine svolta a Cizre. La maggior parte delle vittime sono bambini, donne e anziani trattati da Ankara come “nemici combattenti”. Molti di loro (in particolare quelli bruciati) hanno avuto soltanto una sepoltura anonima mentre altri corpi (e parti di corpi smembrati) si trovavano ancora tra le macerie. Sconvolgente lo spettacolo di alcuni cadaveri che apparivano amputati, torturati, tagliati a metà.
A scopo intimidatorio, anche molti animali domestici erano stati uccisi e buttati in mezzo alle strade mentre sui muri i mercenari turchi scrivevano frasi ingiuriose, razziste e sessiste, contro la popolazione curda e contro le donne in particolare. Niente da invidiare, come mentalità, ai fascisti islamici di Isis.
Almeno l'80% del distretto risultava fortemente danneggiato dai bombardamenti operati dall'esercito turco che aveva fatto ampio uso di carri armati contro le abitazioni.
A Cizre la maggior parte dei quartieri (Cudi, Nur, Sur, Yasef...) hanno subito 80 giorni di coprifuoco, almeno 500 edifici risultano completamente distrutti e oltre 2000 gravemente danneggiati. I militari, inoltre, si sono accaniti sparando contro mobili, armadi, letti, frigoriferi, condizionatori etc. Danneggiate seriamente anche la rete idrica e le fognature. Una vera e propria rappresaglia per intimidire e “punire” (ma di cosa? Del fatto di esistere e di essere curdi?) collettivamente la popolazione. Quanto alle abitazioni rimaste in piedi, molte venivano occupate dai militari.
Tra le richieste immediate del DBP “l'autorizzazione per i comitati nazionali e internazionali di visitare il distretto” e l'avvio di “politiche democratiche allo scopo di evitare che simili catastrofi si ripetano in futuro”.
Inoltre la Commissione guidata dal foro degli avvocati dovrebbe “perseguire legalmente e punire gli avvenimenti succedutesi nel distretto”.
Gli osservatori del DBP concludevano dicendo di “voler sottolineare ancora una volta il dolore immenso, la ferocia e la sofferenza che sono stati vissuti a Cizre durante il coprifuoco durato 80 giorni”. E gli effetti umilianti e dolorosi della feroce repressione sono ancora ben “visibili sui volti degli abitanti”.
Tuttavia, nonostante tutto quello che è successo, questi appaiono “resistenti e fiduciosi”. Non solo. Molti intervistati si dicono “pronti a tutto, affinché altre persone non debbano affrontare quello che ci troviamo di fronte”.


Verso la metà di marzo, mentre la Commissione del DBP rilevava le nefandezze compiute dall'esercito turco contro la popolazione curda di Cizre, alla periferia di Singal (in arabo Sinjar, una cittadina a 120 km da Mosul) riprendevano i combattimenti.
Il PKK e i Peshmerga (combattenti del Kurdistan “iracheno”, legati al partito di Barzani) si scontravano nuovamente con le milizie di Isis che avevano riaperto le ostilità lanciando una decina di missili. Ricordo che Singal era divenuta tristemente famosa nell'agosto 2014 per gli eccidi qui perpetrati dall'Isis contro gli abitanti curdi yezidi, poi tratti in salvo dall'intervento di un centinaio di combattenti, donne e uomini, del PKK.

Da segnalare un particolare inquietante: sui resti di uno degli ordigni lanciati da Isis sono state trovate sostanze chimiche proibite dalle convenzioni internazionali.
L'episodio ha riportato alla memoria della popolazione curda la tragedia di Halabja.

IERI SADDAM, OGGI ERDOGAN: NIENTE PACE PER IL POPOLO CURDO

Nel 1988, da febbraio a settembre, con almeno otto attacchi chimici consecutivi, Saddam Hussein operava uno sterminio di massa (operazione Anfal) nei territori curdi sotto amministrazione irachena. Utilizzando gas proibiti dalle convenzioni internazionali, il dittatore (che all'epoca godeva del sostegno, anche militare, occidentale) intendeva “punire” una popolazione ritenuta troppo ribelle. I morti furono quasi 200mila e centinaia di località curde scomparvero dalla carta geografica. Un vero e proprio tentativo di genocidio.
Stando ai racconti dei sopravvissuti “le bombe utilizzate dal regime iracheno spandevano un odore di mela”. Molti bambini uscirono in strada gridando “questo è odore di mela, è odore di mela”. Non vedendoli rientrare anche le madri uscivano a cercarli cadendo a loro volta vittime dei gas.
“Per questo” - mi raccontavano - “abbiamo trovato tanti bambini morti abbracciati alla loro mamma”.
La strage più nota è quella di Halapja (16 marzo 1988) con oltre 5mila morti.
La ricorrenza è stata ricordata anche quest'anno e alcuni oratori hanno voluto sottolineare l'analogia tra i massacri operati da Saddam nel secolo scorso e l'attuale politica repressiva del capo di stato turco. Anche Erdogan gode oggi del sostegno occidentale e “ha potuto massacrare un migliaio di civili curdi in sei mesi, cacciandone centinaia di migliaia dalla loro casa e distruggendo intere città”. E giustamente si chiedevano: “dopo tutto questo, potrà Erdogan sfuggire al verdetto della storia e alla collera di un popolo decimato soltanto perché curdo?”.
Intervenendo alla commemorazione del 16 marzo per il 28° anniversario di Halapja, Emine Omer, ministro del cantone di Cizre, ha dichiarato che “contro la politica del massacro operata nel Kurdistan Nord (sotto amministrazione turca nda) e nel Kurdistan siriano, non può esserci che una sola risposta: resistere”. E proseguiva: “Noi condanniamo il massacro di Halabja in cui migliaia di persone sono state uccise. Quale era il crimine commesso da queste persone inermi? Uno stato dittatoriale e fascista voleva annientare i Curdi. I Curdi hanno resistito contro questi massacri nel passato e oggi continuano a resistere. La nostra sola aspirazione è di vivere liberi sulla nostra terra. E' un nostro legittimo diritto e anche se ogni giorno perdiamo molti di noi, non potranno mai scoraggiarci. Oggi i Curdi si battono contro i poteri sovrani nelle quattro parti del Kurdistan. Tutti gli stati hanno operato massacri contro i Curdi, ma la resistenza continua. Per questo i Curdi alla fine vinceranno”.
Emine ha poi voluto ricordare che la rivoluzione era cominciata nel Kurdistan siriano, a Qamislo, città abitata oltre che dai curdi, da assiri, arabi e armeni (e diventata nel frattempo la capitale di fatto del Rojava).

“I Curdi – ha sottolineato - si sono organizzati politicamente, militarmente e socialmente adottando il sistema dell'Autonomia democratica che non è solamente per i Curdi, ma per tutti quelli che vivono in Siria, garantendo l'uguaglianza per tutte i gruppi etnici”. Quanto alle donne che resistono nel Kurdistan siriano e nel Kurdistan del Nord (sottoposto all'amministrazione turca), esse sono diventate “il primo obiettivo del nemico”.
Ma questo non potrà né intimidirle né fermarle: “Si, noi donne stiamo pagando un prezzo elevato, ma non siamo intimidite, resistiamo per un futuro libero. Dobbiamo sollevarci contro un sistema dominato ovunque dagli uomini e continuare a resistere fino alla conquista dei nostri diritti”.

Sempre in merito al ruolo delle donne curde in lotta contro l'oppressione degli stati (e ora anche contro la versione islamica del fascismo, l'Isis) va segnalata la partecipazione, in qualità di “invitate d'onore”, delle combattenti curde delle YPJ alla seconda Conferenza mondiale delle donne che si è tenuta in Nepal (dal 13 al 19 marzo)
Alla presenza di 700 delegate provenienti da ogni parte del mondo hanno pronunciato una loro esplicita dichiarazione:
“Le donne hanno il diritto di educarsi, di prendere decisioni per se stesse e di seguire una formazione ideologica e militare. Questo è avvenuto con l'organizzazione di YPJ creata come struttura autonoma. Le donne di YPJ combattono fiancoi a fianco con gli uomini nella prima linea della resistenza e della guerra. Le donne di YPJ combattono per la libertà di pensiero, la difesa del loro popolo, per esse stesse e per l'umanità”.
Gianni Sartori

gianni sartori - 16/3/2016 - 19:25


ciao, segnalo che il sito di "Etnie" dove erano reperibili una quindicina almeno di articoli sui curdi (e la versione quasi integrale del mio libro sempre sui curdi) da una decina di giorni è "sotto attacco"...
chissà mai chi sarà Stato...?
GS

Gianni Sartori - 30/3/2016 - 09:35


GIU' LE MANI DA ARARAT!
(Gianni Sartori)


Minacce di sgombero calano come avvoltoi sul centro ARARAT di Roma.

Perseguitato in Turchia, il popolo curdo rischia di subire altre angherie anche nella nostra penisola.

Attualmente, oltre a subire vessazioni e repressione da parte del Governo turco, il popolo Curdo viene aggredito e minacciato dall'ISIS in territorio Siriano. Contro questi fascisti la popolazione si è opposta con coraggio e valore liberando la città di Kobane e salvando dal massacro altre comunità etniche e religiose presenti nella regione.
Ma ora, si parva licet, anche il nostro paese sembra intenzionato a dare il suo contribuito nel limitare i diritti del popolo curdo, in particolare di quei curdi, scampati ai massacri, che forse pensavano di aver trovato rifugio in Italia.

Come ricordavano alcuni cittadini. “da molti anni l’associazione ARARAT ONLUS svolge attività culturali e ricreative di grande rilevanza sociale; attività volte alla conoscenza della storia, della cultura e delle arti del territorio della Mesopotamia, zona compresa tra i fiumi Tigri ed Eufrate, culla della civiltà Indoeuropea, ma anche delle radici del popolo Curdo”.
E la denominazione stessa della Piazza dove risiede l’associazione (Largo Dino Frisullo) ricorda l’impegno di un cittadino romano che spese la sua vita senza risparmiarsi per la difesa dei diritti umani e civili del Popolo Curdo.

Un pro-memoria: il Centro 'Ararat' prende il suo nome dalla nave omonima che approdò sulle coste italiane il 3 gennaio 1998, in Calabria. A bordo circa un migliaio di curdi: famiglie intere,donne, bambini...tutti in fuga per scampare alla repressione turca. Per un certo tempo vissero a Badolato (poi riconosciuto come villaggio curdo) e successivamente sono giunti a Roma.
“Il centro Ararat -mi spiegano amici curdi - era nato nel maggio 1999 al Campo Boario, in un edificio inserito nel complesso in disuso dell'ex Mattatoio di Testaccio”. Quello che era soltanto uno stabile abbandonato divenne in breve tempo un dignitoso “spazio di accoglienza e di ospitalità, ma anche un luogo dove sperimentare forme di condivisione tra attività artistica e culturale, solidarietà civile e trasformazione del territorio”. L'edificio riportato a nuova vita venne ribattezzato con il nome di Ararat, il monte leggendario su cui si arenò l'Arca di Noè scampata al Diluvio Universale (portando in salvo tutte le specie animali e vegetali del pianeta). Ma Ararat era anche il nome dato alla prima nave carica di profughi curdi giunta in Italia. Da secoli il monte Ararat è un simbolo, una “Montagna sacra” per Curdi e Armeni, due popoli entrambi vittime dello stato turco.
In molti, nel corso degli anni, avevano contribuito alla realizzazione di questo spazio: in primo luogo i profughi curdi che vi hanno trovato accoglienza, ma anche varie associazioni come: Azad, Villaggio Globale, Senzaconfine, le Donne in nero, gli architetti di Stalker, l'associazione “Un ponte per...” (oltre a un gran numero di artisti e volontari).

Attualmente il centro è fornito di: sala da tè, cucina, barbiere, la sala di lettura (in cui è possibile leggere pubblicazioni sulla questione kurda e vedere il canale satellitare in lingua kurda Roj TV).

Tutte le attività (tra cui anche corsi di lingua curda e corsi di ballo curdo) sono autogestite e autofinanziate dagli ospiti del centro con la collaborazione di volontari e volontarie esterni. Parallelamente alla funzione di accoglienza, Ararat “è uno spazio in cui coltivare coraggiosamente la propria cultura e identità (pur mutevole e in continuo divenire), attività che diventa fondamentale per non sentirsi completamente persi dopo aver varcato il confine del proprio paese con la prospettiva di non tornarci mai più, o di non potervi rientrare per un periodo molto lungo”. Infatti la comunicazione delle ragioni dell'esilio alla società ospitante, ma anche delle bellezze e del valore storico della cultura di provenienza possono fornire un significativo percorso di inserimento e legittimazione per delle persone che hanno perso molto, e che molto sono state costrette a lasciare dietro di sé.
Non scordiamo che la Mesopotamia, culla della civiltà e luogo di scambio e di transito fra l'occidente e l'oriente, ha visto nel corso del suo sviluppo storico un moltiplicarsi di culture. In particolare è stata il luogo d'origine e sviluppo fra gli altri del popolo curdo. Analogamente qui, nel cuore della capitale d'Italia, Ararat rappresenta un ponte fra Oriente e Occidente, non soltanto un punto di riferimento per la diaspora curda nel nostro paese.
Oggi Ararat rappresenta una parte importante della città di Roma e anche il Comune e le istituzioni cittadine finora sembravano riconoscerne – seppur informalmente – il ruolo di accoglienza.


La funzione sociale svolta, ormai da anni, dall'associazione Ararat si concretizza nel costituire un punto di riferimento essenziale per i cittadini Curdi che in Italia vogliono chiedere asilo politico: a loro Ararat onlus fornisce servizi di orientamento e informazione per l’accesso all’audizione presso la Commissione Territoriale (Commissione che, per la Convenzione di Ginevra, riconosce la protezione internazionale per i rifugiati politici e di guerra). Tale attività è di aiuto e di supporto agli organismi istituzionali ed attua le linee di intervento per i rifugiati e richiedenti asilo, previste dalle direttive europee, senza oneri per lo Stato e per gli enti delegati e preposti all’accoglienza dei richiedenti asilo, quali i Comuni e Roma Capitale.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 31/3/2016 - 17:13


Egregio Giovanni Sartori,

vorrei dirLe un paio di cose che penso spesso quando vedo uno dei suoi frequenti contributi su queste pagine:

1) Meno male che c'è ancora qualcuno che pensa ai curdi, ai baschi, ai nordirlandesi!

2) Certo che questo Sartori proprio non ha il dono della sintesi... Ma non si sarà reso conto che spesso i suoi post sono così lunghi da poter indurre molti ad astenersi dalla loro lettura?!?

3) Ma Gianni Sartori si sarà reso conto che questo è prima di tutto un sito di Canzoni, seppur Contro la Guerra?!? E allora perchè - conoscendo bene quei mondi - non prova a contribuire qualche CCG in curdo, in basco, in gaelico, corredando la pagina coi propri commenti, magari solo un pelo più stringati?

Grazie per l'attenzione.
Saluti

PS Il sottoscritto è solo un contributore abituale delle CCG. Le osservazioni mosse non coincidono quindi necessariamente con le opinioni degli Amministratori del sito (Aut. Min. Rich.)

Bernart Bartleby - 1/4/2016 - 11:41


Non so chi attualmente ammazza i Kurdi ma sta canzone dice parecchio della Turchia...ù

https://www.youtube.com/watch?v=aKJvbTEnp0I

krzyś - 1/9/2016 - 04:46



Italia in piazza il 12 novembre: la giornata nazionale di mobilitazione a sostegno del popolo curdo e per la libertà di Abdullah Öcalan…


12 NOVEMBRE 2016

Appello per una giornata nazionale di mobilitazione a sostegno del popolo curdo e per la libertà di Abdullah Öcalan

L'ORARIO E IL LUOGO DELLE MANIFESTAZIONI

Roma, ore 10.00 /Piazza San Giovanni
Martano, ore 10.00/ Piazza Caduti
Venezia, ore 11.30 / Campo S. Geremia sotto la sede Rai
Parma, ore 11:30 / Piazza della Pace
Brescia, ore 15.00/ Piazza della Loggia
Milano, ore 15.00 /Piazza San Babila
Firenze, ore 15.00/ Piazza dei Ciompi
Trieste, ore 15.30/ Piazza Unità – Ambasciata turca
Genova, ore 17.00 /Largo PertiniRagusa, ore 17.00 / Via Roma angolo Corso Italia
Bari, ore 17.00 / Via Dalmazia- Sede Rai
Catania, ore 18.30 / Via Etnea angolo via Prefettura
Reggio Calabria, ore 18.30/ Casetta
Napoli,
12nov

--
UIKI Onlus
Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia

Via Ricasoli 16, 00185 Roma

Gianni Sartori - 11/11/2016 - 19:23


11/12/2016 - 10:15


Gianni Sartori - 4/2/2017 - 13:37



A OTTANTA ANNI DAL BOMBARDAMENTO DI GERNIKA AEREI FASCISTI TORNANO A COLPIRE UN POPOLO CHE LOTTA PER LA SUA AUTODETERMINAZIONE

(Gianni Sartori)

Con un drammatico appello l'Unione delle Comunità del Kurdistan (KNK) ha informato l'opinione pubblica che l'esercito turco sta attaccando i curdi yezidi e i villaggi del Rojava
Aerei da guerra turchi hanno bombardato Şengal (Sinjar-Iraq/Kurdistan) e Dêrik (Karaçokê-Rojava/Kurdistan).
Sarebbero almeno 26 gli aerei da guerra turchi che hanno attaccato Amûd e Geliyê Kersê di Şengal/Sinjar. In queste ore (tarda serata del 25 aprile) ill bombardamento è ancora in corso. Preventivamente, in vista dei bombardamenti, a Dêrik e nelle zone circostanti sono state completamente interrotte le reti di comunicazione. Molti civili e molti combattenti curdi sono rimasti uccisi e altri feriti a causa degli attacchi aerei.

La scorsa notte aerei da guerra turchi avevano bombardato Dengê Rojava Radio e ÇIRA-FM e anche il quartier generale delle YPG a Karaçokê presso la città di Dêrik. Dal comando generale delle YPG era partito un appello all'autodifesa e all'insurrezione rivolto alla popolazione del Rojava.
Riporto testuale:
“Alle 2.00 di martedì, 25 aprile 2017, aerei da guerra turchi hanno lanciato un attacco su larga scala sul quartier generale del Comando Generale delle Unità di Difesa del popolo (YPG) sul monte Karaçokê vicino alla città di Dêrik, dove si trovano anche un media center, una radio locale, il quartier generale della comunicazione e alcune istituzioni militari. Questo vile attacco ha portato la morte e il ferimento di diversi nostri compagni. Ulteriori dettagli sulle loro generalità verranno resi noti più avanti.
E il comunicato prosegue: “Noi come Unità di Difesa del Popolo ribadiamo che questo vile attacco non scoraggerà la nostra determinazione e la nostra libera volontà di combattere e scontrarci con il terrorismo. Chiediamo anche al nostro popolo nel Rojava con tutte le sue componenti di prendere posizione al fianco delle sue forze legittime a fronte di questa offensiva."

Per il co-presidente del PYD “questi attacchi aerei vengono eseguiti per dare sostegno a ISIS e per questo le forze della coalizione devono chiarire la loro posizione”. Ha poi specificato che l'aviazione turca sta attaccando “una società che sta combattendo contro il terrorismo. Le forze della coalizione non devono rimanere in silenzio di fronte a questo. Nessuno deve accettare questo attacco.”
Appare evidente che con questi atti irresponsabili (azzardo un'ipotesi: terrorismo di stato?) il governo turco sta tentando di neutralizzare l'operato anti-Isis dei curdi a Raqqa.

Ed è esattamente questa la convinzione espressa dalla Assemblea Siriana Democratica (MSD): Mentre è in corso l’operazione a Raqqa e le nostre forze stanno prendendo il sopravvento su ISIS, aerei da guerra turchi stanno bombardando il nostro quartier generale sia nella zona di Karaçokê che di Şengal. Questi attacchi mostrano che lo Stato turco vuole neutralizzare l’operazione a Raqqa per far prendere fiato a ISIS.

Ma in ogni caso, ribadisce la MSD: “un attacco del genere servirà solo a rafforzare la nostra determinazione contro il terrorismo”.
Gianni Sartori

Gianni Sartori - 26/4/2017 - 09:24



Prima di dire
di Ivan Della Mea
da Prima di dire, cantate. Dalla caduta del muro di Berlino alla seconda guerra del Golfo Editoriale Jaca Book, 2004

Ditemi: Giacomo Matteotti fu un terrorista.
Ditemi: Antonio Gramsci e Piero Gobetti furono terroristi. Ditemi: i fratelli Rosselli furono terroristi.
Ditemi: Don Minzoni fu un terrorista.
Ditemi: Giovanni Pesce fu un terrorista.
Ditemi: Ferruccio Parri, Luigi Longo, Giovanni Amendola, Pietro Secchia, Piero Calamandrei furono terroristi.
Ditemi: Eugenio Curiel fu un terrorista.
Ditemi: Dante Di Nanni fu un terrorista.
Ditemi: i partigiani combattenti furono terroristi:
Achtung Banditen!
Ditemi: i sette fratelli Cervi furono terroristi.
Ditemi: Franchi, Tondelli, Reverberi, Farioli e Serri furono terroristi.
Ditemi: Mahatma Gandhi con la sua violentissima non-violenza fu un terrorista.
Ditemi: l'algerino Ben Bella fu un terrorista.
Ditemi: lo spagnolo Julian Grimau fu un terrorista.
Ditemi: l'angolano Agostinho Neto fu un terrorista.
Ditemi: il sudafricano Nelson Mandela fu un terrorista.
Ditemi: il Piccolo An vietnamita fu un terrorista.
Ditemi: Ernesto «Che» Guevara fu un terrorista.
Ditemi: Malcolm X fu un terrorista.
Ditemi: il cecoslovacco Jan Palach fu un terrorista.
Ditemi: il ragazzo di Piazza Tien An Men fu un terrorista.
Ditemi: chi lotta per la libertà del suo popolo è un terrorista.
Ditemi: chi lotta per l'identità culturale del suo popolo è un terrorista.
Ditemi: chi lotta, anni contro le armi, per il diritto alla vita è un terrorista.
Ditemi: Apo Öcalan è un terrorista.
Ditemi: anche tu sei un terrorista.
Ditelo, per favore, fatemi felice.

CCG Staff - 5/11/2019 - 21:47


No, Nelson Mandria, Malcon X e Apo Ocalan non furono terroristi...
Terrorista è il CCG Staff che non ha riletto prima di contribuire gli strafalcioni!

Acbtung Barditen!

Hi, hi, hi!

Saluzzi

B.B. - 5/11/2019 - 22:31


Terrorista è l'OCR!

CCG Staff - 5/11/2019 - 22:37


L'OCR è innocente!
I terroristi siete voi!

B.B. - 5/11/2019 - 22:39


ROJHILAT (KURDISTAN IRANIANO): UN ALTRO MILITANTE CURDO CONDANNATO A MORTE

(Gianni Sartori)

Houshmand Alipour, prigioniero politico curdo di 25 anni accusato di far parte di un'organizzazione curda dissidente, è stato condannato a morte dal tribunale rivoluzionario di Sanandaj il 29 dicembre 2019. Nel processo (assai discutibile per quanto riguarda il rispetto dei diritti dell'imputato) era accusato di “Baghi”, un termine con cui si definisce la rivolta armata.

In base a quanto ha verificato Amnesty Internationale, il giovane curdo sarebbe stato arrestato ancora il 3 agosto 2018 e tenuto in prigione segretamente per diverse settimane. Con un altra persona che era stata arrestata insieme a lui, Houshmand è stato sottoposto a tortura e costretto a rendere una confessione forzata (in merito ad una sua presunta partecipazione all'attacco della base militare di Saqez nell'ovest dell'Iran). Confessione poi diffusa dalla televisione nazionale.

Sempre secondo A.I., i due prigionieri non avrebbero avuto praticamente la possibilità né di incontrare i familiari (solo una volta), né di scegliere un avvocato di fiducia. In una sua pubblica dichiarazione il padre di Houshmand, Mostafa Alipour, ha dichiarato che il figlio non ha mai preso parte ad azioni armate.

Houshmand era stato trasferito nella prigione principale di Saqez dopo 110 giorni dal momento del suo arresto (giorni trascorsi presumibilmente nel centro di detenzione e di informazione di Sanandaj). Finora i familiari hanno potuto visitarlo una volta soltanto.
Gli ultimi prigionieri politici giustiziati dal regime (l'8 settembre 2018 a Rajai Chahr) erano stati i curdi Ramin Hossein Panahi, Loghman Moradi e Zaniar Moradi (tutti e tre imparentati tra loro in quanto cugini).

Anche nel loro caso c'era il fondato sospetto che avessero subito torture per estorcere la confessione e anche il loro processo si era svolto senza garanzie.

Quanto a Houshmand Alipour, dopo la condanna rischia di venir impiccato in qualsiasi momento.

In suo sostegno da lunedì 27 gennaio, alle ore 19,30 (Ora dell'Europa centrale) partirà una campagna internazionale di tweets. Due gli hashtags da far circolare:


#SAVE_HOSHMAND_ALIPOUR

e

#FREE_POLITICAL_PRISONERS

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 25/1/2020 - 12:34



AMNISTIATO DA ERDOGAN L'ISLAMISTA TURCO RESPONSABILE DELLA STRAGE DI SIVAS

(Gianni Sartori)

Quello che viene ricordato come il “pogrom di Sivas” risale al 2 luglio 1993.
A Sivas era stato organizzato un festival culturale per ricordare il poeta alauita Pir Sultan Abdal ucciso alla fine del XVI secolo all'epoca dell'Impero ottomano. Il 1 luglio numerosi artisti e intellettuali (scrittori, poeti, musicisti...in maggioranza di confessione alauita) si erano ritrovati nella città natale di Pir Sultan Abdal.
Il giorno successivo, dopo la preghiera del venerdì, migliaia di islamo-nazionalisti (circa 20mila) si radunarono davanti all'hotel Madimak dove si svolgeva l'incontro circondando l'edificio e dandolo poi alle fiamme. Risultato: 37 morti nel rogo. La maggior parte tra gli intellettuali qui riuniti. Due vittime erano impiegati dell'hotel e altri due facevano parte degli assalitori. Mentre le fiamme avvolgevano lo stabile, la folla applaudiva entusiasticamente. Tra le persone bruciate vive, il cantante curdo Hasret Gultekin di 22 anni, Metin Altiok, Edibe Sulari, Nesimi Cimen, Behcet Aysan, Muhlis Akarsu.

In questi giorni Erdogan ha concesso la grazia a uno dei principali organizzatori della strage, Ahmet Turan Kilic (il criminale la cui iniziale condanna a morte era stata poi commutata in ergastolo). Come giustificazione per tale iniziativa il leader di AKP ha invocato “lo stato di salute” dell'anziano stragista (86 anni). Proteste, oltre che dalla comunità alauita e dai parenti delle vittime, sono venute da varie associazioni di difesa dei Diritti umani. Inevitabile il confronto con gli oltre 1350 prigionieri – in larga parte politici – ammalati che invece rimangono in cella. Tra loro circa 500 versano in gravi condizioni, incompatibili con la carcerazione, ma non vengono rimessi in libertà e nemmeno agli arresti domiciliari. Appena una settimana fa in una prigione di Tekirdag – dopo 24 anni di detenzione - era deceduto il prigioniero politico Huseyin Polat. Nonostante diverse emorragie allo stomaco, non era stato né curato, né portato in ospedale. Alcuni parenti di detenuti gravemente ammalati hanno definito la decisione di Erdogan “immorale e disumana” annunciando proteste.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 3/2/2020 - 19:05


Gianni Sartori - 12/6/2020 - 21:45


gianni sartori - 30/6/2020 - 22:28


Gianni Sartori - 31/10/2020 - 08:53


Gianni Sartori - 11/2/2021 - 00:02


Gianni Sartori - 21/2/2021 - 18:08


ROJAVA: BASTA LA PAROLA

(Gianni Sartori)

Un mio recente, breve intervento sulla tragica fine di una giovane donna curda di Afrin (selvaggiamente picchiata da una banda di collaborazionisti, era morta al momento di partorire due gemelli) aveva scatenato la reazione di qualche sostenitore di Assad e della intangibile integrità dello Stato siriano.

Commenti che - almeno credo - non provenivano da seguaci di Forza Nuova, Casa Pound o da qualche rosso-bruno, ma - sempre presumibilmente - da esponenti della "sinistra antimperialista".

Cosa dire? Forse “più realisti del re” in questa difesa d’ufficio dell’attuale regime siriano.

Nell’articolo, sottolineo,non si affrontava minimamente la questione dell’autonomia - meno che mai dell’indipendenza - curda.

Ma forse era bastato nominare il Rojava!

Non sia mai, questa è Siria (e basta!).

Ora non è mia intenzione approfondire la questione “sovranità nazionale”. Per quanto mi riguarda - l’ho appreso dai baschi - più che una prerogativa degli Stati (comunque una costruzione artificiale) la considero organica ai diritti dei popoli, della “Nazioni” (anche quelle “senza Stato” appunto).

Tra i commenti spiccava poi un esplicito invito al governo di Damasco per farla finita una volta per tutte con ‘sti curdi.

Non si entrava nello specifico, ma presumo non con le buone maniere.
Magari - ma in seconda battuta - mandando via anche via anche i turchi che hanno invaso il Paese. Ripristinando quindi la situazione precedente (quella di dieci anni fa).
Ora, verrebbe da dire che se aspettavamo Assad, l’Isis faceva in tempo a radicarsi nell’intera Siria, non solo nel Nord-Est. Da dove, pagando un prezzo altissimo, l’hanno sloggiata i curdi delle YPG.

Inoltre è chiaro che Assad non farà nulla - non autonomamente almeno - contro Ankara, visto che Putin lo tiene saldamente al guinzaglio.

Altra questione: il petrolio venduto agli statunitensi (una nota dolente, lo ammetto) che verrebbe “rubato” al legittimo proprietario, la Siria. Ma ci si dimentica che comunque fino a non molto tempo fa Damasco acquistava - senza particolari problemi - dagli stessi curdi il greggio per poi rivenderglielo - trasformato in benzina - a caro prezzo.

La scelta dei curdi - popolo colonizzato e senza Stato, ma comunque “nazione” - è stata semplicemente quella di coglier l’opportunità di rimodernare gli impianti per essere in grado di produrre in proprio l’indispensabile carburante. Per non parlare dei costi a cui l’amministrazione autonoma si sottopone rifornendo a prezzi bassissimi la popolazione (indistintamente, non solo la componente curda ovviamente) di carburante, anche per il riscaldamento. Così come avviene per esempio con il pane, prodotto ora in ogni villaggio e quartiere dai forni appositamente ripristinati o realizzati ex novo.

Quanto alle spesso evocate - ed enfatizzate - rivolte delle tribù arabe locali contro l’amministrazione autonoma curda, vorrei ricordare che - in parte almeno - nascevano dalla richiesta di liberare i miliziani arruolati - per amore o per forza - nell’Isis. Come era poi avvenuto (per chi non si era reso responsabile di fatti di sangue) dietro la garanzia fornita dagli anziani dei villaggi che non si sarebbero reintegrati nell’organizzazione fondamentalista.

E concludo. Per quanto possa risultare difficile, complessa, talvolta perfino contraddittoria, l’esperienza del Confederalismo democratico rimane - a mio avviso - una delle poche cose decenti sorte in questa area geografica. Una opportunità, non solo per i curdi, di realizzare un sistema sociale non gerarchico, non autoritario, non sessista. Nel rispetto dei Diritti umani ed ecologicamente compatibile…

Per quanto umanamente possibile almeno.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 21/2/2021 - 21:01


NEL BASUR (KURDISTAN DEL SUD) POTREBBE SCOPPIARE UNA SOLLEVAZIONE CONTRO L'OCCUPAZIONE TURCA

(Gianni Sartori)

Dopo gli attacchi di aprile (sia aerei che terresti) della Turchia contro i territori dove, legittimamente in quanto curdi, sono installati i guerriglieri delle HPG (Hezen Parastina Gel – Forze di difesa del popolo, braccio armato del PKK) la situazione è andata costantemente aggravandosi. Sia per l’uso da parte dell’esercito turco di armi proibite dalla Convenzione di Ginevra, sia per l’evidente tentativo da parte di Ankara di trascinare, coinvolgere nelle sue operazioni contro il PKK anche un altro partito curdo, il PDK che amministra il Kurdistan del Sud (quello “iracheno”, appunto il Basur). Suscitando indignazione e risentimento nella popolazione curda in generale, tra i militanti di base dello stesso PDK e anche nei ranghi dei peshmerga (i combattenti curdi in Basur).
Sia per il possibile “collaborazionismo” dei dirigenti del PDK, sia – soprattutto – per quella che ormai ha tutti i crismi di una vera e propria occupazione militare permanente della Turchia nei confronti di questa regione curda.
Un altro tassello nel folle progetto di Erdogan di ripristinare l’Impero ottomano. Come si intuisce dai suoi interventi a 360 gradi sullo scacchiere medio-orientale (Siria, Cipro, Armenia, Libia, Iraq…). A tale proposito era intervenuto Abdul Karim Seko, segretario del Partito Democratico del Kurdistan – Siria. Esprimendo grande apprezzamento per la presa di posizione (contro l’invasione-occupazione e contro i “collaborazionisti”) recentemente espressa pubblicamente da alcuni partiti curdi e dai peshmerga (oltre che dalla presidenza irachena). Un segnale, a suo avviso, di una possibile, prossima sollevazione di massa dei curdi contro l’occupazione turca (rifiutando di farsi ingannare da Erdogan e dalle sue tattiche del “divide et impera”). Per Seko la resistenza delle HPG dovrebbe rappresentare un campo di battaglia anche per i combattenti peshmerga. Non essendoci che due alternative per i curdi: “allinearsi con il nemico storico o invece con l’amico che continua a resistere”. Ossia a fianco dei fratelli curdi del PKK. Senza ambiguità. La resistenza delle HPG costituisce “una vittoria per tutto il Kurdistan. Rappresenta la speranza per il popolo curdo e tutti i Curdi responsabili dovrebbero sollevarsi contro l’occupazione rifiutandola”. Si era poi rivolto in modo particolare a Necivan Barzani (dirigente del PDK), invitandolo a recedere dalle sue posizioni in quanto dovrebbe avere “piena consapevolezza che comunque non potranno innescare un guerra tra curdi” in quanto “le prese di posizione del popolo curdo e dei suoi alleati contro l’occupazione e contro i politici che la sostengono (come appunto alcuni dirigenti del PDK nda) si vanno allargando e intensificando”. Ancora alla fine dell’anno scorso Abdul Karim Seko aveva criticato duramente le aggressioni da parte del PDK nei confronti di alcuni veicoli delle HPG, attacchi che avevano causato il ferimento di almeno tre guerriglieri. Denunciando il fatto che “mentre i guerriglieri delle HPG si scontrano con l’esercito di occupazione, il PDK cerca di ostacolarli. Definendo questa politica come un “errore gravissimo” e l’attacco contro le HPG un “grande crimine che verrà giudicato dalla Storia e dal popolo curdo”.

Gianni Sartori - 22/6/2021 - 17:16


Secondo me "meqam" non è il nome dell'autore ma il riferimento al tipo di composizione musicale, può essere?

Makam - Wikipedia

Lorenzo - 22/6/2021 - 21:59



SQUADRE DELLA MORTE TURCHE E VECCHIE INFAMIE IRANIANE

(Gianni Sartori)

Una volta c’era il GAL, ma prima ancora il BVE, la tripla A (con un evidente richiamo a quella argentina), l’ATE (un acronimo al contrario di Euskadi Ta Askatasuna...).

Gli squadroni della morte spagnoli, costituiti da elementi della mala marsigliese, neofascisti italici e portoghesi e integrati da agenti fuori servizio, operarono soprattutto negli anni della transizione - pilotata - alla democrazia. Colpendo i rifugiati baschi in Ipar Euskal Herria (la parte nord del Paese Basco, in territorio francese). Le speranze sbocciate con la morte del caudillo (20 novembre 1975) vennero stroncate sul nascere. In questo senso il 1976 per i baschi fu un anno decisivo: rapimento e scomparsa di Pertur (a cui secondo alcuni storici potrebbe aver preso parte Concutelli), l’assalto squadrista a Jurramendi (dove vennero fotografati, tra gli altri, Delle Chiaie e Cauchi), i lavoratori baschi assassinati durante una manifestazione a Gasteiz, il fallimento dell’evasione di numerosi prigionieri politici baschi (insieme al catalano Oriol Solé del MIL, poi ucciso dalla G.C.)…

Abbastanza per far capire anche a quelle teste dure dei baschi (con i loro sogni di indipendenza e socialismo) che se qualcosa stava mutando, non cambiava la sostanza dei rapporti sociali. Concetto ribadito nel 1981 con il colpetto di stato ufficialmente “fallito”, ma non per Euskal Herria dove fu propedeutico all’inasprirsi della repressione.

Da sottolineare come oltre ai militanti della sinistra abertzale (non solo quelli di ETA) sotto i colpi delle squadre inviate da Madrid cadessero anche dissidenti di altro genere (per dirne una: in un attentato venne ucciso un giovane basco renitente alla leva).

Ugualmente negli anni dell’apartheid i governanti di Pretoria non esitarono a colpire rappresentanti dell’African National Congress e altri oppositori che si trovavano all’estero. Basti pensare a Ruth First e a Dulcie Septembre (assassinate rispettivamente a Maputo nel 1982 e a Parigi nel 1988). Una lezione che Ankara sembra aver ben appreso. Come aveva già dimostrato con il triplice assassinio di tre femministe curde in Rue la Lafayette nel 2013.

E da allora l’impegno turco è andato intensificandosi.

Anche recentemente un altro esponente politico curdo, Hasip Kaplan, aveva reso noto che il suo nome era inserito in una delle liste in possesso delle squadre della morte turche.

Ora finalmente anche il governo tedesco ha dato conferma ufficiale di quanto era già noto. Ossia l’esistenza di tali “liste di esecuzione” con nomi di dissidenti, sia curdi che turchi, residenti all’estero.

“Esistono attualmente delle indicazioni di varie liste con i nomi di persone ritenute critiche nei confronti del governo turco”. Così Helmut Teichmann, Segretario di Stato presso il Ministero dell’Interno, ha risposto all’interrogazione di Helim Evrim Sommer, esponente del partito di sinistra Die Linke. Aggiungendo che da parte del governo tedesco “ le indagini proseguono”. Una conferma di quanto aveva già dichiarato la polizia tedesca mettendo in guardia alcuni oppositori di Erdogan che vivono in Germania. Come già scritto in precedenza, solo in una delle liste (di sicuro non è l’unica in circolazione tra i nazionalisti turchi) ci sarebbero ben 55 nomi di oppositori. 

Tra quelli ormai di pubblico dominio, il giornalista, Celal Baslangic, informato di essere in pericolo direttamente dalla polizia giudiziaria.

Così come il musicista curdo Ferhat Tunc che vive a Darmstadt e l’ex deputato curdo di HDP - in esilio - Hasip Kaplan. 

Continua intanto lo stillicidio delle aggressioni mirate, dalla Germania al Galles, alla Francia. Non più di venti giorni fa il rifugiato Erk Acarer veniva percosso duramente da uomini armati nel cortile di casa sua a Berlino. Giornalista, lavora sia per una catena televisiva “in d’esilio” (insieme a Celal Baslangice) che per un giornale turco dissidente e aveva indagato sui rapporti tra Turchia e Daesh.
Più volte minacciato, era - in teoria almeno - sotto scorta di protezione da parte della polizia.
Vive invece nel Galles lo scrittore curdo in d’esilio Gokhan Yavuzel. Membro dell’Unione internazionale degli scrittori (PEN), anche il suo nome si troverebbe nella famigerata lista.
Per ora anche lui è stato “soltanto” aggredito, picchiato e minacciato qualche giorno fa da alcuni turchi.  

Notizie di altro genere, per quanto complementari, dalla Svezia. Si è avuta conferma che l’iraniano sessantenne arrestato due anni fa, verrà processato con l'accusa di aver partecipato negli anni ottanta del secolo scorso all’uccisione di un gran numero (si parla di migliaia) di prigionieri politici, anche curdi. Sarebbe il primo iraniano a essere sottoposto a giudizio in un tribunale- in base alle norme del diritto internazionale - per le esecuzioni di massa avvenute in Iran nel 1988. Avvocato, l’uomo avrebbe operato presso il carcere di Gohardasht (a Karaj) dove i prigionieri venivano riuniti prima dell’esecuzione.

Tra i suoi compiti, scegliere i prigionieri da sottoporre alle commissioni giudiziarie, quelle che all’epoca venivano chiamate “commissioni della morte”. Al processo è prevista la partecipazione di oltre settanta testimoni, sia familiari dei detenuti uccisi, sia persone che all’epoca si trovavano rinchiuse nella prigione incriminata. Tali esecuzioni di massa- paragonabili alle “Sacas” franchiste dopo il 1939 -per qualche magistrato sarebbero da valutare come crimini di guerra.
va anche detto che da parte sua l’imputato rigetta tali accuse e sostiene che si tratterebbe di uno scambio di persona.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 28/7/2021 - 23:47


Gianni Sartori - 14/1/2022 - 22:04



ULTERIORI CONSIDERAZIONI SUL TRADIMENTO DELL'ARMENIA NEI CONFRONTI DEI CURDI

Gianni Sartori

Ancora in agosto (ma la conferma è arrivata solo alla fine di settembre) l’Armenia ha estradato Leheng et Alişer, due esponenti delle HPG (Forze di Difesa del popolo, braccio armato del PKK), verso la Turchia. Falsamente Ankara l’aveva mascherato come il risultato di un’operazione del MIT (i servizi segreti turchi) nel campo per rifugiati di Makhmour (nel Kurdistan del sud).

Nel comunicato delle HPG si legge che “i compagni Leheng et Alişer avevano incontrato i soldati dello Stato armeno nella zona di frontiera con l’Armenia nell’agosto del 2021 e avevano agito con prudenza per evitare situazioni negative”.

Quindi i due curdi venivano arrestati e imprigionati. A seguito di un contenzioso giuridico davanti alla Corte d’appello avevano ottenuto un verdetto favorevole alla loro rimessa in libertà il 23 febbraio 2022. Ma in seguito venivano prima prelevati e trattenuti dai servizi segreti armeni e poi, circa un mese fa, estradati in Turchia.

Secondo le HPGl l’Armenia avrebbe “violato le norme giuridiche internazionali e le stesse proprie leggi”. Il comunicato prosegue denunciando che trattare in questo modo “dei rivoluzionari che lottano per l’esistenza e la libertà del loro popolo, consegnandoli allo Stato turco è una vergogna per l’Armenia”.

In precedenza, il 14 settembre, l’ufficio stampa delle HPG aveva già segnalato l’estradizione di altri due curdi dall’Irak verso la Turchia. Smentendo anche in questo caso la versione ufficiale di Ankara, ossia che si trattava di “brillanti operazioni esterne” del MIT a Makhmour.

Tali episodi risultano particolarmente disgustosi se pensiamo allo stillicidio di prigionieri politici curdi che in carcere perdono o si tolgono direttamente la vita. In molti casi ritengo si dovrebbe parlare di “suicidi indotti” se, come confermano diverse testimonianze, dopo aver subito maltrattamenti e torture, quando rientrano in cella i prigionieri rischiano di trovare un cappio già pronto.

A volte può sembrare una via d’uscita (o anche una forma estrema di protesta, l’unica consentita) per sfuggire alle sofferenze. L’ultimo caso, per ora, è quello del venticinquenneBarış Keve, rinchiuso da una settimana in una cella di isolamento del carcere di tipo T di Malatya Akçadağ. Condannato a sei anni e tre mesi per “appartenenza a un’organizzazione terrorista”, Keve era stato arrestato a Edirne. Trasferito nella prigione di Malatya Akçadağ, veniva immediatamente posto in isolamento per “sanzione disciplinare”. Alla notizia della morte (arrivata dall’amministrazione penitenziaria nel cuore della notte il 18 settembre) il fratello del giovane defunto, ha dichiarato di avergli parlato per l’ultime volta (per telefono presumo) venerdì 16 settembre e di non aver colto nessun intento negativo in Barış

Nel frattempo la notizia che l’Armenia aveva consegnato ai servizi segreti turchi (MIT) i due militanti curdi arrestati nel 2021 è stata accolta prima con stupore e poi con indignazione da numerose organizzazioni armene, sia in Armenia che nella diaspora. Per il deputato armeno Gegham Manukyan (esponente della Federazione Rivoluzionaria Armena) non si sarebbe “mai visto un tradimento di tale portata negli ultimi trent’anni”.

Parlando dei due curdi estradati ha detto che essi “avevano combattuto a Dersim, la regione dove molti nostri compatrioti sono stati soccorsi dai curdi all’epoca del genocidio armeno e hanno in seguito preso parte all’insurrezione di Dersim. Ora i due curdi si trovavano nel territorio della Repubblica di Armenia e sono stati prelevati e consegnati alle autorità assassine della Turchia. Uno stato – ha voluto sottolineare Manukyan – che ha attivamente preso parte alla guerra di 44 giorni contro di noi e sostiene tuttora l’aggressione dell’Azerbaigian”.

Protesta anche il Consiglio di coordinamento delle organizzazioni armene in Francia (CCAF). In un comunicato del 25 settembre si legge che il CCAF “ha preso conoscenza con stupore della consegna da parte dell’Armenia alla Turchia di due militanti curdi delle HPG che erano stati arrestati un anno fa e poi rimessi in libertà per una decisione della Corte di cassazione”. Continua sostenendo che “niente può giustificarequesta misura” e di attendere spiegazioni dalle autorità armene per questo atto definito “vergognoso”.

Ricorda anche che “le organizzazioni curde hanno fatto il loro dovere nei confronti della memoria storica riconoscendo e condannando il genocidio degli Armeni (a cui sotto la spinta dei Turchi parteciparono alcune tribù curde, come a suo tempo aveva onestamente riconosciuto il parlamento curdo in esilio nda) e hanno sempre manifestato la loro solidarietà nei confronti dell’Armenia e dell’Artsakh”. Aggiungendo che le organizzazioni armene della Francia hanno sempre dato il loro sostegno “alla resistenza del popolo curdo e alla sua lotta contro lo Stato fascista turco”.

Non potrebbero inoltre mai “approvare delle misure così contrarie ai principi democratici, al diritto dei popoli e alla solidarietà che deve esistere tra popoli oppressi”. Anche perché è facile prevedere quali conseguenze potrebbero esserci sul piano della violazione dei diritti umani, un terreno in cui la Turchia spesso si è resa responsabile di violazioni nei confronti dei prigionieri politici. In conclusione il CCAF riafferma con forza il suo “sostegno totale alla lotta del popolo curdo”.

Da segnalare anche, da parte curda, la dura presa di posizione del KCK (Koma Civakên Kurdistanê – Unione delle comunità del Kurdistan) che qualifica la misura presa dal governo armeno di Pashinyan come “tradimento”, esortandolo a interrompere immediatamente i suoi rapporti di collaborazione con lo Stato turco, presentando le proprie scuse sia al popolo armeno che al popolo curdo.

Questo il comunicato del KCK: “I nostri amici Leheng (Atilla Çiçek) e Alişer (Hüseyin Yıldırım) sono stati recentemente consegnati alla Turchia dallo Stato armeno. (…) Leheng et Alişer, nuovamente imprigionati dal governo armeno dal novembre 2021 (dopo che in primo tempo erano stati liberati nda) sono stati consegnati allo Stato turco con il tradimento. Con notizie false si è cercato di mascherare l’operato dello Stato armeno (inventando una cattura operata dal MIT in un campo profughi del Kurdistan del sud nda). E’ significativo che il governo armeno abbia consegnato due rivoluzionari curdi – che combattono per la libertà del popolo curdo e che si erano recati in Armenia all’interno di una operazione della resistenza – allo Stato turco nel momento in cui il territorio armeno è occupato con il sostegno della Turchia. Questo rivela chiaramente che il governo Pashinyan collaboracon lo Stato turco colonialista e genocida e con il governo fascista AKP-MHP.

Come Movimento curdo per la libertà, condanniamo fermamente il governo Pashinyan per il suo comportamento collaborazionista”. Infatti, appare evidente che, mentre le terre armene sono sotto occupazione anche grazie alla Turchia, invece di sostenere chi combatte la Turchia il governo armeno si rimette alla volontà di Ankara.

Questo gesto rappresenterebbe anche “un tradimento della lotta del popolo armeno contro il genocidio”. In sostanza il governo Pashinyan avrebbe tradito sia la causa dei popoli in generale, sia quella del popolo armeno in particolare. Oltre a quella dei curdi ovviamente.

“La lotta per la liberazione del Kurdistan – prosegue il comunicato del Koma Civakên Kurdistanê – non è soltanto per la libertà del popolo curdo, ma anche per la libertà di tutti i popoli della regione, in particolare per quella del popolo armeno. Il popolo curdo considera il popolo armeno come suo prossimo e il paese in cui vive come una patria comune e sostiene la loro causa”.

Dopo aver evocato i reciproci “sentimenti positivi” tra i due popoli, il KCK garantisce che comunque l’operato dei collaborazionisti non potrà danneggiare l’amicizia e la fraternità tradizionali tra i due popoli. Al contrario consentiranno ai popoli curdo e armeno di “impegnarsi in una lotta comune ancora più vigorosa”.

Vien da chiedersi se l’operato del governo armeno vada considerato tout court “collaborazionismo” (e della peggior specie) o magari un pietoso, direi quasi miserabile, tentativo di captatio benevolentiae. Ossia, la piccola Armenia non sentendosi più sufficientemente garantita dal suo protettore storico (ieri l’Unione Sovietica, oggi la Russia, almeno fino a qualche tempo fa) si rivolge ad altri possibili alleati (se pur da una posizione subalterna).

Sentendosi abbandonata a se stessa con la recente aggressione subita dall’Azerbaigian. Abbandonata – va detto – anche per colpa sua dato che aveva cercato di fornicare con Nato e Unione Europea allontanandosi dall’alleato tradizionale.
In una vecchia intervista con Baykar Sivazliyan mi veniva spiegato che “l’Armenia, nata nel 1918 e dal 1920 facente parte dell’ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, è diventata un paese indipendente nel 1991. È situata su un decimo del suo territorio storico, è la periferia di se stessa. Questo piccolo paese, subito dopo la sua formazione , prima ancora di guarire dalle ferite profonde del Genocidio, ha dovuto sopportare anche il peso enorme della Seconda Guerra Mondiale, a fianco delle forze sovietiche , perdendo altri 250 mila dei suoi migliori figli. Gli armeni, in proporzione al loro numero, sono stati la popolazione sovietica che ha dato il maggior numero di ufficiali, decorati e Eroi dell’Unione Sovietica”.

E continuava: “la Repubblica dell’Armenia attuale è il baluardo della cultura e delle tradizioni armene, per tutti gli armeni sparsi per il mondo che sono ormai quasi una decina di milioni: 3,3 milioni in terra armena, due milioni in Russia, più un milione nell’America del Nord, mezzo milione in Francia, altrettanti in Medio oriente e il resto sparso per il mondo intero. La parte della popolazione armena più controversa numericamente si trova in Turchia: ufficialmente ci sono 60mila armeni cittadini turchi e 30mila armeni cittadini dell’Armenia, e circa 10mila armeni di varie cittadinanze, cioè in totale circa 100mila. Per altre fonti invece pare che in Turchia ci siano almeno due milioni di armeni o armeni turchizzati. E’ sicuramente una questione molto delicata. Ogni tanto si mormora dell’armenità di qualche pezzo grosso turco oppure salta fuori l’armenità di alcuni turchi molto importanti del passato. Un esempio lampante, causa di grande scandalo, risale a circa un anno fa. La figlia adottiva di Mustafa Kemal Ataturk, la prima Ufficiale dell’aeronautica turca della storia, risultava figlia di una famiglia armena di massacrati. Gli armeni della diaspora guardano all’Armenia come una grande speranza della rinascita.

La realtà dell’Armenia ha le sue radici in una storia plurimillenaria. E’ noto che anche gli storici dell’antica Grecia parlavano degli armeni e dell’Armenia. Malgrado l’unità nazionale e lo stato nazionale armeno abbiano cessato di esistere per molti secoli (precisamente dal 1375 al 1918) sul territorio geograficamente chiamato Armenia, non ha mai cessato di esistere il popolo armeno, anche sotto numerose dominazioni (araba, persiana, ottomana e russa). I due anni della Repubblica Armena Indipendente nata dopo il genocidio del 1915 sono stati il preludio difficilissimo della Repubblica Sovietica Socialista dell’Armenia che faceva parte dell’URSS. Per settant’anni, fino al 1991, è stato un angolo di rinascita per il popolo armeno. Cosa mai vista nella storia dell’unione Sovietica, dal 1948 numerose famiglie armene decisero di trasferirsi nell’Armenia Sovietica acquisendone la cittadinanza. Se pensiamo alla quantità di cittadini sovietici desiderosi di andare in occidente, possiamo capire l’originalità del fenomeno.

E ancora sottolineava come nonostante “fossero usciti da una immane tragedia come quella del Genocidio, gli abitanti dell’Armenia Sovietica hanno partecipato molto attivamente alla Seconda Guerra Mondiale”.

Un patrimonio duramente conquistato che oggi l’Armenia (o almeno l’attuale governo) sembra voler sprecare, buttare al macero. Illudendosi forse di trovare ascolto e protezione da parte dell’Occidente (magari per interposta persona, la Turchia comunque membro della Nato). Una pia illusione ovviamente. E di cui – temo – avrà ampiamente modo di pentirsi. Amaramente.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 29/9/2022 - 09:28


Gianni Sartori - 1/10/2022 - 15:37



USO DI ARMI CHIMICHE CONTRO LA RESISTENZA CURDA
Gianni Sartori

Nella mattinata del 20 ottobre oltre duecento persone stavano manifestando in place de Luxembourg (nei pressi della sede della Commissione europea) a Bruxelles contro l’impiego di armi chimiche e gas tossici da parte della Turchia. Utilizzati, ça va sans dire, contro la Resistenza curda nel Bashur (il Kurdistan del Sud, dentro i confini iracheni). In questo periodo soprattutto nell’area montagnosa di Werxelê (regione curda di Avashîn).

Ma contro i manifestanti curdi è immediatamente scattata l’ordinaria repressione a base di lacrimogeni e manganellate.
Eppure la cosa ormai dovrebbe essere di dominio pubblico. Se non bastavano le testimonianze raccolte e portate a conoscenza dell’opinione pubblica ormai da anni (soprattutto l’anno scorso, mentre era in pieno svolgimento l’operazione militare da Ankara in aprile), ultimamente stanno circolando alcuni video in cui si assiste all’atroce agonia del guerriglieri curdi sottoposti all’attacco chimico nelle regioni del Kurdistan iracheno invase dall’esercito turco.
Tuttavia, nonostante le prove inequivocabili, finora l’OPCW (l’Organizzazione per l’interdizione delle armi chimiche) non è intervenuta e nemmeno sembra intenzionata a farlo.
Sulla drammatica emergenza in questi giorni è intervenuto con un comunicato il Consiglio esecutivo del Congresso nazionale del Kurdistan (KNK) accusando lo Stato turco di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità.

E rinfacciando alle grandi potenze e alle istituzioni internazionali (vengono esplicitamente chiamate in causa il Consiglio d’Europa, le Nazioni Unite, l’Organizzazione per l’interdizione delle armi chimiche…) il loro complice silenzio. Silenzio che – a conti fatti – non fa altro che incoraggiare la Turchia nel suo operato genocida.
Nel comunicato si denuncia che “l’esercito turco utilizza da anni armi chimiche contro i guerriglieri del Movimento di liberazione del Kurdistan. Dal febbraio 2021 queste armi vengono impiegate senza interruzione. Dalla metà di aprile, avvio dell’operazione di invasione turca nel Sud-Kurdistan, l’uso di tali armi si è intensificato”.

Fornendo poi alcuni dati provenienti dall’Ufficio stampa delle HPG (Le Forze di Difesa del Popolo, braccio armato del PKK): tali armi sarebbero state usate 367 volte nel 2021 (nelle zone di Siyanê/Gare, Zendûra/Metîna, Mamreşo/Avaşîn, Girê Sor, Aris Faris, Girê Kartal e Werxelê) causando una cinquantina di vittime e ben 2470 volte nel corso degli ultimi sei mesi.
I guerriglieri deceduti per esserne stati contaminati sarebbero un centinaio.

Sempre secondo l’Ufficio stampa delle HPG “oltre ai gas tossici, l’esercito turco ha utilizzato vari tipi di bombe proibite.”. Comprese alcune “armi nucleari tattiche in combinazione con gas tossici per distruggere il sistema dei tunnel e contaminarli”.
Non si tratterebbe di armi nucleari in grado di contaminare vaste aree, ma comunque di “ordigni proibiti il cui potenziale distruttivo si manifesta con una fortissima pressione e con un enorme calore uccidendo in un’area circoscritta”.
Caratteristiche simili a quelle delle “bombe termobariche e delle bombe al fosforo ugualmente utilizzate”.
Tra le numerose prove, le recenti immagini di 17 guerriglieri morti nel corso degli attacchi chimici di ottobre. Nove nella regione di Şikefta Birîndara, cinque nella regione di Karker e tre nella regione di Werxelê (caduti che vanno ad aggiungersi ad altri 27 morti recentemente per le stesse cause e già identificati).

Sulla questione è intervenuto il KCDK-E (Congresso delle organizzazioni democratiche curde in Europa) che ha chiamato curdi e amici del popolo curdo ad “azioni immediate di protesta per denunciare i crimini di guerra del regime di Erdogan”.
Dal l comunicato del KCDK-E si apprende che “prima di portare alla morte gli agenti chimici utilizzati dall’esercito turco causano gravi alterazioni del sistema nervoso, paralisi respiratoria e perdita di memoria”. Definendo tali metodi “un crimine disumano e intollerabile”.
Nella appello finale il KCDK-E si rivolge alle ONG che si occupano di diritti umani affinché prendano posizione.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 20/10/2022 - 20:50



IRAN: IMPICCAGIONE DI UN ALTRO PRIGIONIERO POLITICO CURDO

Gianni Sartori

Sarkut Ahmadi, un militante (o - secondo altre fonti - ex-militante) di Komala, in carcere da due anni, è stato impiccato il 22 febbraio nel carcere di Dizelababd a Kermanshah.

Dalle notizie diffuse dall’Organizzazione per i Diritti Umani Hengaw, il giovane curdo (29 anni) era stato arrestato nel gennaio 2021 quando aveva già lasciato l’organizzazione e mentre si recava in Turchia per poi raggiungere l’Europa.

Era stato condannato a morte in quanto si presumeva fosse coinvolto nell’uccisione di un membro delle forze di sicurezza, Sargurd Hassan Maleki. Un fatto risalente all’agosto 2017 e rivendicato da un gruppo che si firmava “Combattenti della bandiera rossa”.

All’epoca, agosto 2017, nei giorni immediatamente successivi all’uccisione di Hassan Maleki, una decina di familiari di Sarkut Ahmadi erano stati arrestati dalla polizia iraniana a Sulaymaniyah nel Kurdistan iracheno.

Il Partito Komala del Kurdistan Iraniano (Komełey Şorrişgêrrî Zehmetkêşanî Kurdistanî Êran), in passato comunista (maoista dal 1969 al 1979), attualmente si sarebbe posizionato su una linea politica definita da vari osservatori come “socialdemocratica”.

Soprattutto in passato aveva praticato forme di lotta armata (utilizzando fucili AK-47 e lanciagranate RPG) e si calcola che - almeno fino al 2017 - disponesse di circa un migliaio di militanti in servizio attivo con una forte presenza femminile.

Da segnalare che in base ai dati forniti il 2 febbraio 2023 da Hengaw, erano già 18 i prigionieri curdi (sia politici che comuni) di cui è stata accertata l’esecuzione nel gennaio 2023. Ossia il 30% su un totale di sessanta cittadini iraniani giustiziati in gennaio. L’anno scorso i curdi giustiziati erano stati 52 (sempre quelli accertati, per difetto quindi).

Sempre secondo Hengaw, le esecuzioni di altri 17 prigionieri non sono state annunciate in fonti governative e giudiziarie. E in molti casi sono i media a non darne notizia.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 27/2/2023 - 18:12


COSI’ GLI EZIDI PRESERVANO LE PROPRIE TRADIZIONI E IL DIRITTO IRRINUNCIABILE ALL’AUTODETERMINAZIONE

Nonostante il persistente rischio di genocidio e le continue persecuzioni provenienti da vari fronti ostili (oltre a Daesh, Ankara…) anche quest’anno i curdi ezidi celebrano il “Mercoledì Rosso”. Fieri di una identità che non si è mai omologata o fatta omologare.









Gianni Sartori





I Curdi ezidi attualmente non sarebbero più di milione (per altre fonti solo 700mila).

Vivono principalmente nel Kurdistan del Sud (Bashur) oltre che in Siria, Turchia, Armenia, Russia Georgia e - nella diaspora - in Europa (soprattutto in Germania).

Come è noto nel 2014 hanno subito un autentico genocidio da parte dello Stato islamico (Daesh) a Shengal (Irak). E qui, come ricordava in uno dei suoi ultimi lavori Zero Calcare “si è stabilita dal 2017 l'autonomia basata sui principi della rivoluzione curda”. Ossia quelli di “una società che mette al centro la parità tra uomo e donna, la ridistribuzione delle ricchezze, la convivenza pacifica fra tutte le religioni ed etnie”. Il Confederalismo Democratico in sostanza.




Per concludere, forse con un eccesso di ottimismo che “dovremmo imparare anche noi qui”.

Ma intanto, nonostante tutto (oltre alle “pulizie etniche” ricordiamo pure i recenti attacchi con i droni e i bombardamenti da parte della Turchia…) anche quest’anno gli ezidi (i sopravvissuti almeno) di Shengal celebrano il loro nuovo anno, il Mercoledì Rosso (Çarşema Serê Nîsanê; in curdo: Çarşema Sor).




La ricorrenza viene celebrata il primo mercoledì di aprile. Per l’occasione gli ezidi raggiungono il tempio di Lalesh (Laleş, Lalish: luogo santo a Bahdinan/Behdînan), nella provincia di Ninive (35 chilometri a nord di Mosul, Iraq settentrionale) dove si trova la tomba di shaykh Adi (Adi bin Musafir al-Hakkari). Deceduto nel 1162 è  qui sepolto insieme al successore shaykh Hasan. Accendendo 365 candele per festeggiare la creazione dell’Universo e celebrare la natura e la fertilità.




Ma perché proprio di mercoledì?


Con riferimento alla Genesi, i curdi ezidi ritengono che “Nostro Signore ha cominciato a creare l’universo il venerdì” e avrebbe “terminato il suo lavoro mercoledì”.

Festa sostanzialmente primaverile, coincide con un momento di grande fioritura, in particolare di rose rosse e di anemoni.



Per la mitologia ezida l’Universo sarebbe avvolto dalle ombre e dalla nebbia, mentre la Terra era ricoperta di ghiaccio.

Dio avrebbe inviato, sempre di mercoledì, “il Re Ta’wes” in forma di uccello nella regione di Sheikhan (Sud Kurdistan) facendo sciogliere il ghiaccio e fiorire a migliaia fiori rossi, gialli e verdi (da cui i colori della bandiera curda a cui spesso si aggiunge il bianco - il ghiaccio? - mentre il giallo viene talvolta rappresentato da un sole).




Si ritiene che fino al 612 avanti Cristo tale ricorrenza venisse celebrata dai Curdi esclusivamente come festa religiosa mentre in seguito divenne una vera e propria ricorrenza nazionale.

Ricoperti dai loro abiti migliori, ezidi provenienti da ogni parte si riuniscono nel luogo santo sacrificando montoni e vitelli. E su questo ovviamente, per quanto solidale con questa minoranza oppressa e perseguitata, chi scrive non può che dissentire apertamente (anche se non si può escludere che si tratti di un rituale acquisito successivamente, per “contaminazione” cristiana o islamica).




Comunque, nella circostanza le giovani e i giovani dipingono dodici uova (simbolo della Terra gelata, ma anche della sua sfericità di cui evidentemente gli ezidi erano a conoscenza da tempi immemorabili) con i tre colori canonici della primavera portata da re Ta’wes. Per poi deporli in un piatto al centro della casa.

Nel giorno della vigilia vengono visitate le tombe dei defunti e distribuiti uova e dolciumi. Inoltre nel mese di aprile, per tradizione, non si dovrebbe scavare, zappare la terra e in genere lavorare. Non solo. Nello stesso periodo non avvengono matrimoni per non contrapporsi a quello che viene considerato il matrimonio tra aprile (la “sposa”) e l’anno nuovo.

Fondamentale per chi visita il mausoleo di shaykh Adi (turisti compresi, non solo i pellegrini) è ricordarsi di camminare scalzi. In quanto “gli angeli risiedono sulla soglia di ogni entrata, per questo è importante non calpestare gli scalini d’ingresso”.




Molte abitazioni degli ezidi portano sul cancello l’effige di Melek Taus, raffigurato come un pavone. Stando alla tradizione (con evidenti influenze dello zoroastrismo), dopo aver creato il mondo, Dio ne aveva affidato la tutela a sette angeli, tra cui appunto Melek Taus (conosciuto anche come “l’angelo pavone”). Chiedendo loro di inchinarsi davanti ad Abramo. Essendosi rifiutato di farlo, da quel momento Melek Taus venne emarginato, rifiutato dall’umanità. Tranne che dagli ezidi.

In qualche modo la sua figura si sovrappose a quella di Lucifero (oltre che alla vicenda analoga di Iblis, raccontata nel Corano). Questo antecedente mitico nei secoli successivi fornì il pretesto per le persecuzioni subite dagli ezidi in quanto presunti “adoratori del diavolo”. Soprattutto da parte degli islamici.

In realtà è probabile che l’attuale religione praticata dagli ezidi abbia origini più recenti, ossia dalla predicazione di shaykh Adi (XII secolo).


Gianni Sartori

Gianni Sartori - 25/4/2023 - 15:22


CADE OGGI, 12 MAGGIO, IL 49° ANNIVERSARIO DEL MARTIRO DELLE FEMMINISTA CURDA LEYLA QASIM, condannata alla pena capitale dal regime di Saddam Hussein

IN MEMORIA DELLA “SPOSA DEL KURDISTAN”

Gianni Sartori

Ovviamente sappiamo tutti che Saddam Hussein non venne abbattuto (e che l’Iraq non venne invaso) per aver impiccato o sterminato con gas letali i curdi.

Tantomeno per la guerra con l’Iran durante la quale godeva del sostegno statunitense.

Tuttavia si rimane perplessi quando altri popoli oppressi talvolta lo ricordano ancora - questo macellaio - un campione dell’antimperialismo.

“Contraddizioni in seno ai popoli” verrebbe da dire.

Oggi 12 maggio, cade il 49° anniversario dell’impiccagione di Leyla Qasim e di altri quattro compagni curdi: Jawad Hamawandi, Nariman Fuad Masti, Hassan Hama Rashid e Azad Sleman Miran.

Nella memoria della Resistenza curda il nome della giovane militante femminista assassinata a soli 22 anni rimane ancora integro. Un esempio perenne come quelli di Sakine Cansiz, Zarife Xatun, Hevrin Khalaf … i cui ritratti campeggiano sui muri di tante abitazioni curde e nei luoghi pubblici del Kurdistan (dove questo è possibile ovviamente).

Leyla era nata nel 1952 a Xanequin (Kurdistan del Sud, in territorio iracheno) da Dalaho Qasim e Kanî, poveri contadini che avevano altri cinque figli.

Con suo fratello Chiyako aveva appreso l’arabo dalla madre.

Nel 1971 si era iscritta alla facoltà di sociologia di Bagdad e qui aveva contribuito alla costituzione di un sindacato degli studenti militando sia per i diritti delle donne sia per la causa curda.

Già alla fine degli anni sessanta, insieme al fratello, aveva scritto e diffuso alcuni opuscoli contro la politica del partito Baas (in particolare contro le torture e la repressione della popolazione curda). Il suo arresto per “separatismo” rientrava in una vasta operazione condotta dall’esercito iracheno e in carcere venne torturata, sottoposta a trattamenti disumani.

Si ritiene sia stata la prima donna giustiziata in Iraq e forse la quarta prigioniera politica nel mondo a venire impiccata.

Soprannominata “la Sposa del Kurdistan”, per ricordarla vennero scritti poemi, canzoni e in suo onore eretta una statua a Erbil.

Ancora oggi quel nome viene donato a migliaia di bambine nate in Kurdistan. Non è quindi casuale se centinaia di “Leyla”, combattenti e militanti della Resistenza curda, stanno ora lottando sia in Royava che in Bakur o Rojhilat.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 12/5/2023 - 11:04


In Turchia le “carceri di sterminio” lavorano a pieno ritmo. E mentre proseguono le retate di militanti curdi (sia in Bakur che a Instanbul, anche contro le madri dei desaparecidos), altre nuvole scure si vanno addensando sul destino dei prigionieri.


ALMENO 93 (QUELLI ACCERTATI, MA CI SONO MOLTI CASI DI “MORTI SOSPETTE”) I PRIGIONIERI MALATI DECEDUTI NELLE GALERE TURCHE NEL 2022 E 2023.
IN MAGGIORANZA CURDI…

Gianni Sartori

Sono soprattutto curdi i detenuti malati deceduti in carcere negli ultimi 17 mesi (da gennaio 2022 a maggio 2023).

In una dichiarazione dell’Associazione per i diritti dell’uomo (İHD) si legge che “il governo sta applicando la legge del taglione”. Ma forse si dovrebbe parlare di “rappresaglia”.
Le politiche adottate da Ankara nelle carceri mostrano con ogni evidenza la loro natura discriminatoria. Infatti un gran numero di prigionieri gravemente ammalati, in molti casi ormai in fine di vita, non vengono rimessi in libertà per ragioni legate alla loro identità politica o di origine etnica.

Sempre stando ai dati forniti da İHD sono “78 i prigionieri deceduti nel 2022 e 15 nei primi cinque mesi del 2023”.

In maggioranza abbandonati al loro destino anche per le discutibili (“controverse”) valutazioni dell’Istituto di medicina legale (ATK, accusato da İHD di essere “al servizio del governo”) e spesso perché le cure necessarie sono state negate.

Senza tener poi contio delle numerose morti sospette di altri detenuti nello stesso arco di tempo.

Attualmente sarebbero almeno 1517 i prigionieri malati e 652 di loro in condizioni critiche. Non rientra più nella lista Abdulhalim Kırtay, già gravemente ammalato, liberato il 22 marzo e deceduto il 12 maggio. Come si disse per Luther King e Bobby Sands “Libero alla fine”.

Un altro prigioniero, il trentenne Behçet Kaplan condannato a 15 anni per presunta appartenenza al PKK,  è morto il 15 maggio (tre giorni dopo Kirtay) nel carcere di tipo T di Ahlat.

Ancora in vita invece Mehmet Emin Özkan, contemporaneamente “vecchio e gravemente ammalato” (come ricordava İHD), ma a quanto sembra destinato a restare rinchiuso fino alla fine dei suoi giorni.

Dalla Commissione carceri della sezione di Izmir di İHD viene un’ulteriore denuncia. Il diritto ai trattamenti sanitari avrebbe subito ulteriori restrizioni per i prigionieri politici. Tra l’altro i detenuti ammalati non vengono portati in ospedale con l’ambulanza, ma con i mezzi della polizia. Per cui talvolta essi stessi si rifiutano di essere trasferiti. Ormai alcune prigioni turche si sarebbero trasformate in “anticamera della morte”: Suggerirei anche “carceri di sterminio”.

Ma non certo per qualche altra categoria di “detenuti politici”, quelli legati a movimenti filogovernativi come i "Lupi grigi" o l’Hezbollah turco (Türkiye Hizbullahı), movimento armato sunnita, utilizzato contro i curdi e la sinistra rivoluzionaria turca (niente a che vedere con quello storico, sciita, del Libano). Molti di loro sarebbero stati recentemente rimessi in libertà per decisione diretta di Erdogan

E intanto, come segnala l’agenzia Mezopotamya, continuano gli arresti. Nella mattinata del 24 maggio, per il secondo giorno consecutivo, vere e proprie retate di militanti curdi (22 esponenti di Yeşil Sol Parti accusati di “terrorismo”) si sono svolte in molte città e villaggi. Da Gaziantep (Dilok, distretto di Mardin Artuklu) a Kerboran (Dargeçit), Hezex (Idil, provincia diŞirnak) e Manisasi.

Tra gli arrestati a Manisa anche il candidato alle elezioni Ayşe Karagöz, Gülsüm Tozan (responsabile del partito per il distretto diSaruhanlı) e Kardelen Çetin (figlia di Hasret Çetin, co-portavoce di Yesil Sol ).

A Dilok sono stati incarcerati Abdurrahman Elmas (esponente del Consiglio dei giovani di Yeşil Sol Parti (Partito della Sinistra Verde, in curdo Partiya Çep a Keskdel) con Cengiz Uslu, Murat Basut e Bayram Ayhan.

A Sirnak, a seguito di numerose perquisizioni, i militanti curdi Hezex, Civan Karaviş, Ümit Geçgel, Yusuf Kargol, Murat Kavçin, Emrullah Kavçin e Rojhat Pişkin.

Talvolta le porte del carcere si sono aperte per intere famiglie o quasi.

Come a Mardin per i fratelli e le sorelle Ramazan e per Agit ed Heja Kalkan (oltre a Merve Oğuz e altre persone non identificate).

Così a Saraçoğlu (distretto di Artuklu) per Hividar e Berivan Taş.

Mentre Fırat Akar e Rojhat Altaş sono stati prelevati a Mêrdîn in seguito a un’inchiesta giudiziaria sull’Assemblea dei giovani di HDP.

Tra gli arresti “di gruppo” più eclatanti, quello di una decina di persone il 20 maggio durante  la 947° veglia delle “madri del sabato” (madri dei desaparecidos) in piazza Galatasaray a Istanbul.

Alla manifestazione avevano aderito anche Musa Piroğlu (deputato del partito democratico dei popoli, HDP), l’avvocato curdo Eren Keskin (presidente di İHD) e Ümit Efe, rappresentante della Fondazione turca dei diritti dell’uomo (TİHV).

Mentre i giornalisti venivano brutalmente allontanati, la polizia procedeva all’arresto di:

Hanife Yıldız, Eren Keskin, Besna Tosun, Ali Ocak, Sebla Aran, Gülseren Yoleri, Hasan Karakoç, İrfan Bilgin, Leman Yurtsever, Hünkar Hüdai Yurtsever, Nazim Dikbaş, Taylan Bekin e Ümit Efe.

Gianni Sartori


Gianni Sartori - 27/5/2023 - 10:21




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