Ferhat Mehenni (Ferḥat Mhenni)

Chansons contre la Guerre de Ferhat Mehenni (Ferḥat Mhenni)
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Ferhat Mehenni (Ferḥat Mhenni)Ferhat Mehenni è nato il 5 marzo 1951 nel villaggio di Maraghna a llloula nella regione di Azazga in Cabilia (Algeria). La sua infanzia ha coinciso con il periodo della guerra anticoloniale, nella quale il padre, resistente contro i Francesi, trovò la morte nel 1961. È solo dopo l’indipendenza, all’età di 12 anni che comincia a frequentare la scuola, a Tabouda, a otto chilometri da casa. Andrà poi in collegio a Chateauneuf e a Larba n At Yiraten, dove comincia ad appassionarsi alla musica. «Se sono approdato alla musica lo devo all’amore per Cherif Kheddam e anche ad una vocazione familiare» Ferhat ricorda che un giorno suo padre aveva cantato una canzone senza accompagnamento strumentale davanti a tutto il villaggio. Sempre da lui aveva appreso la canzone Ameddakʷel di Laimèche Ali, la versione in berbero del canto per i caduti di guerra Ich hatte einen Kameraden di Uhland, uno dei primi canti berbero-nazionalisti, che entrerà a far parte del suo repertorio. Il figlio seguirà le orme del padre, con la complicità del fratello : «Un giorno, il mio fratello maggiore rientra dalla Francia portando con se un liuto. Io provo a pizzicarlo un po’». Questo gli darà la voglia di imparare a suonare lo strumento, ma, incerto se optare per lo stile chaabi o la musica loukoum dell’epoca, finirà per cantare e suonare il folk. Non prima, però, di aver seguito la scuola di Cherif Kheddam e di avere imitato Lounis Ait Menguellat e Kamel Hamadi. «Ad ogni modo —precisa— all’epoca era impensabile che un giovanotto potesse cavarsela con la sola chitarra per accompagnare la canzone con tre accordi minori.» C’era sempre e soltanto la mandola coi quarti di tono. Compone la sua prima canzone, Un fiore blu, prima di esibirsi per la prima volta alla radio (la ‘Chaîne II’, che trasmette in cabilo) nel 1969. Al suo debutto però non fece particolare impressione. Il successo arriverà quattro anni dopo, ma prima deve lavorare per mantenere la famiglia, che si è ingrandita nel 1970. Lavoro, vita famigliare e pratica della musica: gli rimane ancora del tempo da dedicare allo studio? «Ho preso la maturità da privatista a Algeri nel 1972. Con la lode, non dimenticatelo!» Ferhat scoppia in una sonora risata. Questo ammiratore di Abdelhalim Hafez, di Johnny Halliday, dei Beatles, avrà il suo colpo di fulmine nel 1973 con l’uscita di Vava Inouva, l’indimenticabile canzone di Idir. «Vava lnouva è un fattore che scatena in me una rivoluzione.» Due chitarre sole, tre o quattro accordi minori e dei testi che raccontavano la Cabilia, le sue colline dimenticate e i suoi uomini rimasti abbarbicati alle loro montagne o partiti per lavorare nelle fabbriche di Parigi o nelle fonderie di Alsazia e Lorena. Decide di fare come Idir.

Gli lmazighen Imoula

Ottobre 1973: forma il suo primo complesso per partecipare al concorso nazionale della canzone algerina. Il nome del gruppo è Imazighen Imoula: «Per la verità —precisa— doveva essere llloula, il nome del mio villaggio». Ma farà buon viso a cattivo gioco. Conserva lo stesso quel nome. «Imula, in berbero, significa il versante nord delle montagne». Vince il primo premio e con esso il diritto a farsi trasmettere dalla radio algerina. Ma invece di annunciare il nome del suo gruppo Imazighen Imoula, il presentatore si limita a gridare “Ferhat Mehenni”. «lo mi presento per protestare, tenendo in mano il diploma del ministero della Cultura in cui è menzionato il nome del gruppo». La radio corregge il tiro. «Per la prima volta la parola “Imazighen” viene pronunciata su di un mezzo di comunicazione ufficiale algerino». Prima vittoria dell’uomo, primi attriti tra il cantante e le autorità algerine.

I primi arresti

1976: l’Algeria è immersa in una grande effervescenza politica. I dibattiti sulla Carta nazionale e sulla Costituzione toccano il loro apice. Un concerto al Théâtre National gli causerà di essere ricercato dalla polizia. «Sono venuti a prendermi alle 6 del mattino nella mia camera universitaria a Kouba». Direzione "Barberousse", la prigione resa tristemente celebre dai ghigliottinati della Rivoluzione algerina. Gli occhi di Ferhat sono umidi quando rievoca l’episodio: «Ho passato la notte più atroce della mia vita. Mi credevo perduto per sempre». Questo arresto costituirà per lui il battesimo del carcere, e sarà seguito, nel corso della sua vita, da molti altri arresti, lunghe notti di torture e molti mesi di detenzione. Ma l’arresto, lungi dallo spingerlo a lasciare da parte la chitarra, a rimangiarsi la collera e lasciar perdere la sua “foga rivoluzionaria”, lo rende invece ancora più testardo. Decide di scrivere testi
decisamente impegnati e moltiplica i concerti nei campus universitari, senza per questo abbandonare gli studi. La discussione della sua tesi di laurea avrà luogo nel giugno del 1977.
Col suo diploma in tasca, Ferhat decide di tentare la fortuna nel Sud algerino. Nel gennaio del 1978 è a Hassi Messaoud, il polmone petrolifero dell’economia algerina. Vi resta meno di un anno prima di recarsi a Parigi, dove incontra per la prima volta Hocine Ait Ahmed, il leader del FFS.
« Davanti a questo monumento della storia algerina mi sono commosso ». Ait
Ahmed aveva appena rotto il suo silenzio in occasione del 1° novembre, anniversario dell’avvio della Rivoluzione. L’incontro tra i due uomini sarà determinante per il cantante, che più tardi entrerà in politica.

La “Primavera berbera” del 1980

Quando arriva la “Primavera” (Tafsut) dell’aprile 1980. Ferhat, che sarà uno dei suoi protagonisti, viene colto di sorpresa. Il 19 aprile 1980 sbarca all’aeroporto di Algeri. I poliziotti sono lì che lo attendono: nei suoi confronti è stato emesso un mandato di comparizione. Ad aggravare la situazione, Ferhat trasportava nei suoi bagagli una videocassetta di Ait Ahmed. Un corpo del reato ideale. Fa la conoscenza del commissariato centrale di Algeri, dove soggiornerà fino al 27 aprile. Menù quotidiano, interrogatori “robusti”: viene torturato per fargli confessare di appartenere al FFS, e successivamente viene trasferito in una prigione. Liberato il 14 maggio, si reca a Tizi-Ouzou per organizzare uno sciopero generale.
Per farla breve, il fatidico 20 aprile lui non era con i manifestanti. Il 20 aprile 1980 era già in una cella dove subiva interrogatori fino alle 3 di notte. Apprende della rivolta cabila da alcuni manifestanti di Algeri arrestati dalla polizia e dalla Sécurité Militaire. Quando uno di essi lo riconosce e gli va incontro per abbracciarlo, lo mettono in isolamento totale. Gli avvenimenti della "Primavera berbera" lo portano a stringere sempre più la sua amicizia con un giovane medico, poi divenuto psichiatra e presidente di un partito politico (il RCD), Said Sadi. Insieme, essi animano conferenze, meetings e seminari, organizzano scioperi e redigono articoli nella rivista Tafsut.

La Lega Algerina dei Diritti dell’Uomo

Nel 1985 crea, insieme a Said Sadi, a Mokrane e Arezki Ait Larbi, e ad Ali Yahia Abdenour, la Lega Algerina dei Diritti dell’Uomo.
Il 5 luglio 1985 decidono di celebrare l’anniversario dell’indipendenza al di fuori dei festeggiamenti ufficiali. Male glie ne incoglie. Le autorità colgono l’occasione per arrestarlo e gettarlo in prigione. Viene arrestato con Mokrane Ait Larbi e trasferito alla prigione di Berrouaghia, nel braccio dei condannati a morte. Anche gli altri membri saranno arrestati. In dicembre vengono giudicati e condannati a 3 anni di prigione e a 5000 dinari di ammenda per attentato alla sicurezza dello Stato.

Lambèse

Il 2 gennaio 1986, Ferhat e i suoi compagni vengono trasferiti nel terribile bagno penale di Lambèse, una fortezza gelida costruita dai Francesi. Questa esperienza verrà raccontata più tardi in una canzone che si dice abbia fatto piangere Said Sadi quando la sentì. Il comitato d’accoglienza gli riserva un trattamento particolarmente duro. Chiedono a Ferhat di spogliarsi per indossare la divisa carceraria. Lui rifiuta. Lo mettono in cella. «Mi svestono. Tutto nudo a cinque gradi sotto zero». Nel dicembre del 1986 viene trasferito a Blida, da cui esce il 27 aprile 1987.

Il multipartitismo

Dopo i sanguinosi moti dell’ottobre 1988, l’Algeria entra nel multipartitismo. I protagonisti del Movimento Culturale Berbero fondano il RCD, il Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia. Ferhat annuncia di abbandonare la canzone per la politica. «Ogni lotta ha le sue armi. Metto da parte la chitarra per indossare l’abito del politico». Ma l’impegno come politico a tempo pieno non durerà molto. L’Algeria piomba nell’incubo degli integralisti. Giornalisti, intellettuali, militari, poliziotti e semplici cittadini vengono quotidianamente falciati dai proiettili e dai coltelli del GIA. Ferhat si rimette in discussione. «Che ruolo può svolgere un politico in questi momenti di tormento e di disperazione?», si dice. Torna a privilegiare il suo primo amore, la canzone. Nel 1993 escono i suoi Canti d’acciaio e di libertà e comincia a prendere le distanze dal partito e da Said Sadi. Le prime divergenze si erano avute il 29 giugno 1992 in occasione della manifestazione organizzata dal partito per commemorare l’assassinio del presidente Boudiaf. Una bomba scoppia al passaggio del corteo. Due morti e decine di feriti. Ferhat rifiuta di seguire il partito che considera la lotta antiterrorista prioritaria rispetto a qualsiasi altra rivendicazione. La frattura sarà evidente un anno più tardi, e si amplierà nel biennio 1994/95. Dal settembre del 1993 abbandona ogni incarico all’interno del RCD, ma sarà solo nel maggio del 1997 che darà formalmente le proprie dimissioni dal partito.

Non darà mai le dimissioni, invece, dal Movimento Culturale Berbero, e quando questo si frazionerà in due correnti orientate secondo i due partiti politici prevalenti in Cabilia (“MCB Coordinamento Nazionale”, filo-RCD e “MCB-Commissioni Nazionali”, filo-FFS), dapprima egli cercherà (in un meeting del 28 giugno 1995) di ricucire lo strappo e di ricreare l’unità, e poi, visti inutili i suoi sforzi, darà vita ad un terzo polo, “MCB-Raggruppamento Nazionale”, indipendente dai partiti, di cui è tuttora il presidente.

La proclamazione del berbero “lingua nazionale e ufficiale”

Il 17 gennaio 1994, al termine di una imponente manifestazione a Tizi Ouzou, Ferhat, a nome del Movimento Culturale Berbero, proclama il berbero “lingua nazionale e ufficiale" dell’Algeria. I mesi che seguono saranno caratterizzati da forti tensioni tanto nei confronti del potere quanto all’interno delle varie anime del Movimento Culturale Berbero. Gli avvenimenti salienti saranno il rapimento del cantante Matoub Lounès e lo sciopero scolastico indetto dal MCB. Ferhat è il principale animatore del boicottaggio delle scuole. «La divisione principale stava in quelle che io consideravo le priorità politiche in quei momenti: io ero per il boicottaggio delle scuole e la costituzionalizzazione della lingua amazigh. Said Sadi era per la lotta al terrorismo. Io potevo concedere che le due cose fossero considerate prioritarie allo stesso titolo, ma lui non voleva ammettere nemmeno questo. Ma questo per me è ormai storia passata». «In quanto militante e attore politico, io ritengo che i nostri democratici si diano da fare per cause che non sono le loro. Si sono trasformati in satelliti sia del potere militare sia degli integralisti, malgrado il sangue che questi ultimi (il potere e gli integralisti) versano da una parte e dall’altra. Per me l’obiettivo essenziale resta, anche se non ho i mezzi per realizzarlo, la creazione di un polo democratico per fare fronte tanto agli integralisti quanto ai sostenitori del regime attuale».

Nell’Airbus dirottato

Nel dicembre del 1994, Ferhat è tra i passeggeri dell’Airbus dell’ Air France dirottato dai terroristi del GIA all’aeroporto di Algeri e bloccati successivamente all’aeroporto di Marsiglia. In quell’occasione rischia veramente la vita. Riesce per miracolo a sfuggire ai rapitori, che sulle prime non si sono accorti della sua presenza a bordo. «Mi sono sempre domandato: ma chi saranno questi assassini capaci di simili atrocità? È stato in occasione del dirottamento aereo che ho potuto vederli bene in volto. E ho scoperto dei giovani che sprizzavano bellezza e salute fisica. Li ho visti ridere e sorridere, a volte perfino mostrarsi amichevoli con i passeggeri. E poi li vedevo sparare e uccidere. Sono una generazione di mostri. Sono sfuggito alla morte per miracolo. Dopo le prime ventiquattr’ore i terroristi mi hanno riconosciuto. Mi hanno ordinato di fare la preghiera. Stavano per farmi saltare la testa. Ho simulato un malore. Devo la vita ad un’infermiera, che ha confermato la crisi cardiaca: ‘Ne avrà per non più di 15 o 30 minuti, tanto vale lasciarlo morire’, ha suggerito. Un quarto d’ora più tardi le teste di cuoio intervenivano...»

Sei mesi più tardi, Ferhat vide altri uomini del genere ad una fermata del métro di Parigi. «Mi riconobbero e cominciarono a inseguirmi dicendo “Sei un infedele nemico dei credenti nell’islam!”. Riuscii ad infilarmi in una vettura proprio mentre la porta si chiudeva», Viene a stabilirsi in Francia ma conserva stretti contatti con la madrepatria. Torna a dedicarsi anche
alla canzone. Ferhat ritrova la sua ispirazione in una fattoria della Normandia dove compone «in quattro giorni» il suo album intitolato Canti del fuoco e dell’acqua. L’album fa il punto sulla sua vita di cantante, sulla sua lotta per la tamazight (la lingua berbera) e per le libertà democratiche in Algeria.

La “Primavera Nera” e la fondazione del MAK

Il 18 aprile 2001, con l’uccisione del giovane Massinissa Guermah in una caserma della Gendarmeria, si apre un periodo di lotta e di durissima repressione in CabiIia, che in un anno farà oltre cento morti e migliaia di feriti: la “Primavera Nera”. Nel pieno degli eventi, il 5 giugno 2001, in una conferenza stampa a Tizi Ouzou Ferhat avanza per la prima volta esplicitamente la richiesta di “un’ampia autonomia” per la Cabilia, e annuncia la creazione del MAK, “Movimento per l’Autonomia della Cabilia”. «Ciò che motiva questo cambiamento nel nostro percorso militante è, soprattutto, la Primavera Nera del 2001. Ci siamo resi conto all’improvviso di quanto eravamo soli nelle sventure che ci trovavamo ad affrontare. Per più di un mese e mezzo nessuna regione del paese, nessun partito politico è stato solidale con noi o ha condannato i massacri perpetrati dal potere in Cabilia».

Come tutti i leaders politici e intellettuali della Cabilia, Ferhat è perennemente in pericolo per la propria vita. Ancora nel marzo del 2002 è sfuggito a un attentato. Su di un uomo che da giorni cercava di vederlo è stata trovata una pistola. «Lo abbiamo consegnato alla polizia. Quando ho voluto depositare la denuncia, hanno rifiutato di accoglierla. Ho voluto portare la denuncia direttamente al procuratore deIla repubblica. Niente da fare: mi ha rimandato dalla polizia. Alla fine il commissario ha accolto la denuncia ma ha rifiutato di fornirci le generalità e le funzioni di quell’individuo. Da allora non ne. abbiamo più alcuna notizia. Secondo le nostre informazioni, sarebbe un agente di polizia e sarebbe stato trasferito ad Algeri». Ferhat ammette che questo tentativo non è che l’ultimo episodio di una serie di intimidazioni e minacce. Ma evita di fare del vittimismo: «Am nekk am wiyaḍ» (“È così per tutti...”). Come sempre, all’impegno politico si accompagna la creazione artistica. Dopo quasi un anno di sosta forzata per il precipitare degli eventi, nel 2002 è uscito un nuovo album, contenente tra l’altro una canzone, Idammen n tafat “Sangue di luce”, interamente dedicata ai martiri della “Primavera Nera”. «L’album è composto di 8 titoli di cui uno I Tmurt n Leqbayel “Per la Cabilia”, il titolo faro. Quattro strofe, ciascuna delle quali è dedicata ad uno dei capoluoghi della Cabilia. La seconda canzone è dedicata ai Berberi. Un titolo completamente personale in cui ritorno su tutto. Ho fatto una canzone sulle cascate del Niagara. E un titolo consacrato all’unità che dobbiamo costruire in Cabilia. C’è poi un gioiellino di poesia e di musica che
non ricerca altro obiettivo che la bellezza e l’estetica, che strizza un po’ l’occhio a “la Colline Oubliée”...» La concezione che Ferhat ha della sua arte è bene espressa in queste sue parole: «Il canto è la linfa che nutre la lotta. La sua compagnia è vitale per trasformare l’idea in realtà. Con il suo verbo e la sua melodia io voglio sconfiggere autoblindo e prigioni, le tenebre e la disperazione. Voglio, con il suo grido, ricreare la vita e la libertà».

“Bella ciao”: la morte del figlio

Le sventure personali di Ferhat non sono ancora finite: il 19 giugno 2004 uno
sconosciuto ha ucciso con una coltellata a Parigi Ameziane, il figlio maggiore del cantante. L’inchiesta della polizia non ha potuto individuare il responsabile, ma è molto forte il sospetto che si tratti di un “avvertimento” di stampo mafioso contro un personaggio che sempre più si sta dedicando alla lotta politica per la democrazia nel suo paese. Tra le carte lasciate dal figlio, Ferhat ha scoperto che Ameziane, che lo aveva accompagnato a Milano per un concerto nell’estate del 2002, aveva in tale occasione fatto la conoscenza di alcuni canti della resistenza italiana e meditava di trasporre “O bella ciao” in cabilo. Ferhat si è quindi sentito in dovere di esaudire questo desiderio del figlio, ed ha approntato una trasposizione del canto (non ancora registrato), che ha eseguito, con voce rotta dall’emozione, nel corso della cerimonia di sepoltura: Ijeǧǧigen a yi-ttarran tili « E i fiori mi faranno ombra »...