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FriestkIl loro EP si chiama “Fame” ed è una rilettura dei testi di Matteo Salvatore, cantore di Apricena. Li abbiamo visti all’esordio sul palco dello Sponz Fest e oggi ci raccontano come nasce questo rural sound, un folk sporco e antico legato alle visioni del paesaggio e alle esperienze di tre musicisti calitrani, più una voce che arriva dai Monti Lattari

4 MESI FA di Maria Fioretti

Intrattabile, non socievole (lat. forensis). Forestico, selvatico (da foresta), abitante della foresta. Il dizionario calitrano di Michele Cerreta racchiude in poche parole quell’universo di musica e ispirazioni che sono i Friestk. Nome che appare impronunciabile fuori dalla Campania, tanto ostico quanto identitario per questa quaterna rurale di corde e pellami che abbiamo ascoltato durante lo Sponz all’Osso – nell’estate 2021 - sotto la luna del Vallone Cupo: «Magari un giorno faremo una clip per chiedere alle persone di pronunciare questo nome - scherzano – non potevamo scegliere termine più azzeccato, va bene che non sia immediatamente comprensibile, ci rappresenta, ci fa sentire messi al lato della luce».

Indisciplinati, non destinati al consumo di massa – ma questo per loro non sembra essere un cruccio – il loro EP Fame è una rilettura dei malesseri e delle burrascose debolezze di Matteo Salvatore, cantore di Apricena, già disponibile su tutte le piattaforme digitali, mentre in copertina potete guardare il loro primo video ufficiale, diretto da Alessandro Scarano e Raffaele Aquilante che hanno tradotto in immagini il brano Pasta Nera .

Sono quattro i Friestk e si presentano da soli: Alfredo Cesarano è un avvocato specializzato in privacy, contadino dei Lattari – irpino di adozione – è fotografo della carnalità, sua la voce e la chitarra selvaggia, poi c’è Niko Di Muro, vichingo calitrano, manipolatore dei suoni elettronici, cajon, darbuka, campanacci ed altre chincaglierie, Osvaldo Cicoira è l’altro calitrano, compositore del disegno industriale, sosia non ufficiale di Frank Zappa, lo troviamo al basso acustico rampante e infine Vito Galgano, sempre calitrano, ideatore di suoni ed arrangiamenti, esperto di tecniche di registrazione, abile pescatore, alle chitarre elettrificate e non, si muove tra banjo e totalità.

«Nasciamo come patto naturale, in una situazione unica che già vivevamo andando in giro, osservando e suonando insieme, soprattutto durante le passeggiate in natura. Ci legava la passione per la musica, all’improvviso abbiamo sentito forte l’esigenza di portare fuori dal nostro piccolo microcosmo quello che componevamo. E siamo andati avanti senza alcuna pretesa, senza forzare – noi stessi per primi – a credere in quello che stavamo facendo. È stato come un ozio che va a buon fine, che si sostanzia di qualcosa in più. Così abbiamo deciso di incidere i brani e di iniziare questo percorso condiviso, l’ensemble si è costruito un passo dopo l’altro e oggi siamo ancora qui, a vivere questa continua evoluzione umana e artistica».

Ora che li conoscete, è bene sapere che sono assolutamente piantati nella terra, nei luoghi che celebrano con la musica. Danno voce a ciò che resta alla fine della mietitura delle emozioni: le stoppie, le scorze, gli scarti. Scrivono e cantano in un napoletano antico, che sgorga dall’idioma dei Monti Lattari e si innesta col calitrano, dialetto delle terre dell’osso: «Non crediamo che la scelta del dialetto sia un limite, è il nostro metodo per spronare le persone ad andare oltre l’italiano e per dare valore ad altre lingue, di altri posti, che stanno sparendo. Non potremmo escluderlo dalla nostra concezione di musica, ci viene dalle viscere, per noi è naturale comporre in questo modo. Come una sorta di esercizio culturale, lo facciamo naturalmente, è una questione di musicalità ma anche di innovazione, potrebbe essere un limite sul piano della produzione, non lo è però rispetto all’ascolto. Andando avanti proveremo a decostruire ulteriormente i nostri testi, per slegarli dal bisogno di conoscerne il senso letterale, perché secondo noi il dialetto è capace di esprimere significati che in italiano risulterebbero più complessi, a volte addirittura intraducibili».

Mettono in pratica un folk sporco, antico, calato in una realtà che è quella dei campi. E infatti musica e paesaggio sono inscindibili per i Friestk: «Non è una caratteristica che abbiamo forzato, i nostri brani hanno sempre uno sfondo, un’immagine, una scenografia da attraversare, la visualizziamo in fase di composizione e poi caliamo le note e il testo in questo contesto visivo. Siamo cresciuti in aree dominate dal paesaggio, dove i paesini sono arroccati e fitti, non c’è dispersione, ma una grande concentrazione dell’urbanizzazione, terre modellate dall’uomo con le sue attività da cui prendiamo ispirazione. Il paesaggio ci circonda, è una dimensione che entra in maniera dirompente nella nostra musica e l’ascolto spesso corrisponde alla visione, è una grande spinta creativa quella dell’ambiente che attraversiamo».

Rural sound, per corpi senza polpa. Indomiti e selvaggi. Suonano così le aree interne? Anche questo abbiamo chiesto ai Friestk che qui hanno casa: «Forse non è la musica che le rappresenta, concettualmente sono ancora molto legate ad un folklore classico, ma se intendiamo la musica come radice, allora probabilmente si. La nostra è più scarna, quindi potrebbe ricordare l’osso, però va ad innestare al suo interno una serie di elementi tra viaggi, esperienze, ricerche che può ampliarsi fino a superare le montagne per arrivare al mare. Ci troviamo dentro le aree interne, sia per una questione geografica che per il nostro esordio musicale, abbiamo anche creato delle sinergie sul territorio, collaborando con realtà diverse, sarebbe bello adesso andare dal particolare del piccolo paese al generale della città, avere una cassa di risonanza capace di amplificare queste idee e queste situazioni che sono alla base della nostra formazione musicale e culturale».

Amalgamati, intrecciati come si farebbe con un cesto, liberi che sembra di guardare il grano nel vento. Nel futuro dei Friestk ci sono progetti da realizzare e sogni da riprendersi: «Siamo proiettati verso i nuovi brani che dovranno uscire, ci dedichiamo alla composizione e lavoriamo sull’immagine di questo album distrutto, a brandelli, che arriva al pubblico in pezzi, poco alla volta. La nostra intenzione è sempre quella di produrre una musica che si può anche vedere. Con il nuovo anno daremo alla luce due brani scritti con Filomena D’Andrea, poetessa di Aquilonia conosciuta come Makardia, il suono arriverà dalla pancia dell’Africa per approdare distrutto alle nostre coste. Con lentezza usciremo sempre più dalla nostra tana, una lentezza costruttiva che porterà ad un disco fatto di tanti parti lenti, dilatati nel tempo. E speriamo di poter raggiungere finalmente una dimensione live più intensa, il nostro desiderio sarebbe quello di fare più concerti possibile, purtroppo il Covid ha ridotto se non annullato del tutto questa opportunità, avremmo bisogno di salire su un palco per farci sentire e recuperare anche relazioni con le persone».