Francesco CurràFrancesco Currà si definisce oggi un“ex operaio metalmeccanico, un poeta popolare di lotta e d'erotismo di evasione e un musicista sperimentale dagli accenti prog.”

Nato nell’immediato dopoguerra a Lamezia Terme, si trasferisce presto a Genova dove trova lavoro come fresatore nella colossale fabbrica siderugica Ansaldo, che di li a poco assorbirà anche l'Italtrafo, la SIMEP, la Breda, la Tecnosud.

Currà però è anche un poeta e a 29 anni viene reclutato dall’Ultima Spiaggia di Ricky Gianco e Nanni Ricordi per concretare un progetto artistico senza eguali in Italia che vide la luce nel dicembre del 76 sotto forma di disco e di libro (edito nel 1977 per la SquiLibri editore) con il nome di “Rapsodia Meccanica”.

In se, il concetto portante dell’opera non era poi così originale: restituire e denunciare attraverso suoni e parole i pressanti ritmi di lavoro in fabbrica e la conseguente alienazione del soggetto operaio: un tema già abbondantemente sfruttato da scrittori, intellettuali e poeti sin dai tempi dell’”operaio massa” e comunque sempre all’ordine del giorno anche nelle produzioni più pop (es: “A gente e’ Bucciano” di Napoli Centrale del 1975 e “Il banditore”, album monofonico di Enzo del Re del 1974 contenente la storica “Lavorare con lentezza”).

In questo senso, per saperne di più, ci si riferisca al n° 730 de “Il calendario del popolo” del maggio 2008, espressamente dedicato ai poeti operai in cui accanto a Currà, compare un esaustivo elenco di artisti tra cui Ferruccio Brugnaro (“la fabbrica è come la trincea di Ungaretti, che uccide e mutila. Anzi è peggio, perché la guerra prima o poi finisce, mentre nelle fabbriche si continua a morire ogni giorno”), Franco Cardinale che racconta il lento ma inesorabile avanzare della malattia contratta in fabbrica e che lo ha ucciso e Sandro Sardella in cui invece prevale l’ironia dolce-amara sulle fobie e i vezzi dei capi reparto.

francesco currà testiCiò che invece rese “Rapsodia meccanica” un lavoro decisamente fuori dal comune, fu il modus con cui quelle alienazioni vennero trasmesse all’ascoltatore, ossia sovrapponendo la voce asciutta e lancinante di Currà agli stridenti rumori di una fabbrica vera, ai quali un team musicale guidato da Roberto Colombo sovrappose in studio dei patterns e della basi strumentali ottenendo così un output assolutamente inedito anche ben oltre il panorama italiano.

Di fatto, con questa operazione, Currà oltrepassò coraggiosamente le classiche formule delle protest songs (che da Woody Guthrie in poi si imperniavano sostanzialmente sul binomio cantante - messaggio), aggiungendovi un fattore ambientale, restituito tra l’altro nella maniera più realistica possibile. Il tutto, al punto che persino i suoi strumenti di lavoro vennero accreditati tra i musicisti.

Il disco è una sorta di viaggio allucinato all’interno di un ambiente ancor più allucinato: quello cioè che a fronte della riconversione produttiva e della violenta divaricazione tra partito comunista e avanguardie sociali, stava estromettendo dalle fabbriche chiunque fosse legato all’autonomia.
Uno statu quo in cui il proletariato non era più la “parte sana della società opposta alla borghesia corrotta”, ma viveva il proprio ruolo come fonte di ossessioni: “la macchina, insomma, aveva preso forma per divorare l’operaio”.

Mentre dunque di fronte ai cancelli della Innocenti centinaia di giovani autonomi licenziati premevano per riconquistarsi il posto di lavoro (autunno ’76), dentro le fabbriche i lavoratori diventavano sempre più vittime di un padronato meteoropatico e di un sistema ormai basato sull'automazione e sul nascente liberismo. E tutto questo è perfettamente leggibile in “Rapsodia meccanica” laddove “la precarietà è un cuneo nelle ossa ed io preferirei essere un pizzicotto internazionalista piuttosto che un kapò della via nazionale (cfr Currà)”.

L’ossessione e la ripetitività dei ritmi lavorativi sono gli stessi dei patterns di Colombo (“Quanto dura il mio minuto se devo fare settantacinque secondi in sessanta?); le sole aspettative del lavoratore sono implose tutte in quella busta paga a fine mese che nel disco viene sbattuta elegantemente in copertina (“il salario è una garrota: se non è morte, è martirio”); l’ineluttabile ciclo produttivo è riflesso nella continuità dei brani che non lasciano pause o respiri; il rumore della fabbrica che divora anche i dialoghi e i rapporti umani è quello che Currà tenta di sovrastare dinamizzando al massimo la sua voce.

Ciò che resta al di là di quelle paure di quel disagio, sono sogni e poesia: pulsioni che ancora oggi sono certamente insufficienti a lenire la fatica del quotidiano, ma che hanno catalizzato opere di straordinario valore.
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