Devendra Banhart

Antiwar songs by Devendra Banhart
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Devendra BanhartDevendra Banhart (Born 30 May, 1981 in Houston, Texas) is a psych folk singer/songwriter
(http://en.wikipedia.org/wiki/Devendra_...)

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DEVENDRA BANHART
Un busker sulle rotte del pre-war folk
di Gabriele Benzing

da Onda Rock

Forse è l'alone di leggenda che lo circonda a conferire a Devendra Banhart un fascino tutto particolare: un nome suggerito ai suoi genitori da un mistico indiano, una vita da busker tra Texas, Venezuela, California e New York, una musica che sembra uscire da un tempo dimenticato… A poco più di vent'anni, questo strampalato hobo sembra essere uscito da qualche surreale scena della Grande Depressione immaginata dai fratelli Coen di "O Brother, Where Art Thou?".
Nato nel 1981 in Texas, Devendra Banhart è ancora un bambino quando i genitori divorziano e la madre lo conduce con sé a vivere a Caracas. Un'esperienza che oggi Banhart ricorda come quella di un luogo in cui si rischiava la pelle anche soltanto a uscire di casa, ma che gli ha lasciato un gusto tutto particolare per quello svagato canto in spagnolo che sfodererà in alcuni episodi dei suoi dischi.
Fin dalla tenera età di dodici anni, pare che Devendra Banhart si dilettasse a comporre canzoni. Suo padre, racconta, gli regalò una chitarra e il giorno stesso Devendra venne lasciato dalla sua ragazza di allora: quale coincidenza migliore per iniziare una carriera di songwriter?
Quando la madre si risposa, Devendra si trasferisce insieme alla famiglia in California, dove nel 1998 si iscrive al San Francisco Art Institute, dedicandosi soprattutto alla pittura e al disegno. E i frutti si vedono negli strambi schizzi dalla tremolante grafia che illustrano l'artwork dei suoi dischi e che, secondo il loro autore, sono una componente visiva inscindibile dalla sua musica.

Si dice che la vocazione musicale vera e propria sia giunta a Devedra mentre cantava il gospel "How Great Thou Art" e "Love Me Tender" al matrimonio di Jerry Elvis e Bob The Crippled Comic, i due amici gay con cui divideva la stanza e a cui dedicherà la sua "Soon Is Good".
Da quel momento Banhart, dopo aver girovagato un po' nella vecchia Europa, comincia a suonare nei locali di San Francisco e Los Angeles. E proprio nella città degli angeli, una sera si avvicina a lui dopo un concerto Siobhán Duffy, la fidanzata dell'ex cantante degli Swans, Michael Gira. Colpita dalla prorompente personalità delle canzoni di quell'eccentrico giovanotto, la ragazza compra per un dollaro un cd-r di Banhart che porta subito a Gira, impegnato con la sua etichetta discografica Young God. E per Michael è amore al primo ascolto. "Non avevo mai sentito nulla del genere", ricorda oggi, "era come trovarsi di fronte a canzoni lasciate abbandonate in una soffitta dagli anni Trenta".

Michael Gira va a sentire Devendra in un sushi bar: e qui di nuovo cronaca e leggenda si mescolano, perché pare che tra gli avventori del locale ci fosse anche l'ex cantante dei Van Halen, Sammy Hagar, che, infastidito dal folk trasognato e acidulo del giovane texano, decide di mettere sul juke-box un vecchio brano della sua band… Per tutta risposta, Devendra avrebbe smesso di suonare e sarebbe andato tranquillamente a sputare nel piatto di Sammy: della rissa che ne è nata non è dato sapere di più, ma non è difficile immaginare che il giovane texano abbia dovuto filarsela a gambe levate…
Quello che è certo è che, da quel giorno, Michael Gira ha deciso di prendere Devendra Banhart sotto la sua ala protettiva e di fargli registrare un disco per la sua etichetta.
Banhart si trasferisce così a New York, prima in uno squat e poi in una casa vera e propria, e comincia a raccogliere le proprie canzoni su qualunque mezzo gli capiti tra le mani, da un registratore a quattro tracce fino alle segreterie telefoniche degli amici, che chiama alle ore più disparate per canticchiare qualche melodia appena passatagli per la testa, pregandoli di non cancellare il nastro…

Il risultato è un disco dal logorroico titolo Oh Me Oh My… The Way The Day Goes By The Sun Is Setting Dogs Are Dreaming Lovesongs Of The Christmas Spirit, pubblicato nel 2002, che si presenta come una raccolta di stralunati bozzetti acustici a bassa fedeltà scritti più per sé stesso che non per un vero pubblico.
"Erano come frammenti di una seduta dallo psicanalista", ricorda oggi Devendra. E così, tra fruscii degni di un polveroso vinile, fischiettii stonati e sbilenchi battimani, Oh Me Oh My… snocciola scampoli di un folk minimale, denso delle stravaganti simbologie che si agitano nella mente del loro autore.
La voce vibrante, ma impastata di follia di Devendra Banhart richiama subito alla memoria il volto di Daniel Johnston e Rocky Erickson, che sembrano specchiarsi tra le acque increspate di questa musica fatta di filastrocche ancestrali.
Nella maggior parte dei casi si tratta di motivi appena abbozzati, lasciati volutamente incompiuti nella loro scarna veste originale, visto che quello che Banhart dice di preferire è la poesia breve e la musica non troppo affollata, in modo che ci sia sempre spazio tra i suoni e le parole.
Ma in un pugno di occasioni le composizioni di Oh Me Oh My… raggiungono una forma più compiuta, ed è allora che risplendono come pagliuzze nel setaccio di un vecchio cercatore d'oro. E' il caso di "The Charles C. Leary", dedicata da Devendra ai ricordi della propria famiglia, attraverso l'immagine della barca che possedeva il suo bisnonno e di cui suo padre conservava un vecchio dipinto, oppure della folle e febbricitante "Nice People", che si alterna alle più classifiche atmosfere da ballata di "Cosmos And Demos" e alla leggerezza ipnotica di "Michigan State" e di "Pumpkin Seeds".
A conferire profondità alle bizzarrie di Oh Me Oh My… è l'eco delle vecchie ballate rurali della più antica tradizione, che riecheggiano con tutta la loro inconfondibile mitologia nella voce di questo loro nuovo figlio, ora saggio come un centenario, ora fragile come un bambino.

La critica giunge presto a coniare l'etichetta di "pre-war folk" per definire la musica di questo barbuto freak texano e della scena che intorno a lui si è illuminata improvvisamente di luce riflessa. Del resto, non è difficile riconoscere nelle canzoni di Devendra Banhart i demoni e i fantasmi che popolano le ballate dell'American Anthology of Folk Music.
La purezza di sguardo con cui sembra rivolgersi alla tradizione della sua terra ricorda da vicino quello che Bob Dylan racconta parlando dei propri esordi nel primo volume della sua recente autobiografia, "Chronicles", dove definisce la musica folk come "un universo parallelo, basato su valori e principi più arcaici (…) un mondo invisibile che torreggiava dall'alto con mura di corridoi scintillanti (…) una realtà fatta di una dimensione più splendente", che "eccedeva la comprensione umana e una volta che si veniva chiamati alla sua presenza si poteva finire risucchiati dentro e scomparire".

Ma, in realtà, il fenomeno Devendra Banhart, per essere compreso davvero, non può essere ridotto semplicemente alla tradizione dei bluesman e dei folksinger della Grande Depressione. C'è una molteplicità di elementi, intessuta nella particolarissima personalità di Devendra, dalla quale non si può prescindere nell'affrontare la sua musica: dal folk hippie della Summer of love all'eccentricità del genio di Daniel Johnston, sino al gusto per certe atmosfere da orchestrina dei ruggenti anni Venti, è una sarabanda di voci fuori dal tempo quella che riecheggia nella voce del folksinger texano.
Sull'onda dei primi, entusiastici riscontri della critica, nel 2003 la Young God pubblica un EP diretto al mercato inglese e intitolato The Black Babies, come il nome di una delle band create da Devendra durante le sue precedenti peregrinazioni artistiche.
Accanto a due dei brani più rappresentativi del proprio album d'esordio, "The Charles C. Leary" e "Cosmos And Demos", qui riproposti in differenti take, Banhart offre una mezza dozzina di nuove composizioni, che rimangono rigorosamente fedeli allo spirito sghembo di Oh Me Oh My….
Ancora una volta, quindi, si passa da divertissement giocosi ad arpeggi capaci di divenire prima lievi e pastorali e poi ombrosi come quelli di un Robert Johnson apocrifo, raggiungendo in "Long Song" un'inattesa dolcezza sixties.
The Black Babies è insomma un perfetto corollario del disco precedente, che non fa altro che incrementare ulteriormente la curiosità intorno al personaggio di Devendra Banhart e alle sorprendenti potenzialità delle sue intuizioni.

"Sing child sing, sing your song"

La conferma di ciò che le prime spigolose registrazioni avevano lasciato prevedere arriva puntuale nel 2004, quando Devendra Banhart dà alle stampe ben due nuovi album, Rejoicing In The Hands e Niño Rojo, a distanza di appena pochi mesi l'uno dall'altro.
Nel primo, la bassa fedeltà rimane ancora un marchio di fabbrica, ma le composizioni di Banhart suonano per la prima volta molto più compiute e ricche di personalità, riuscendo a colpire al cuore con la loro spontanea pazzia.

Registrato nella vecchia villa georgiana di Lynn Bridges a Westpoint con una strumentazione rigorosamente vintage, Rejoicing In The Hands sembra voler ripercorrere i confini della repubblica invisibile di Greil Marcus, prendendo le mosse dai primi canti intonati alla luna dagli avi appena giunti nel Nuovo Mondo. Basta sentire lo svagato "lalalala" di "This Beard Is For Siobhán" per rendersene conto e venire trasportati in una realtà parallela in cui Syd Barrett si ritrova chiuso in una cantina della vecchia America a incidere i Basement Tapes.
A definire i contorni del mondo del ragazzo texano è sempre il fingerpicking con cui accarezza la sua chitarra acustica, anche se stavolta c'è il velo di tulle degli archi di "A Sight To Behold" a risvegliare il fantasma di Nick Drake, insieme al pianoforte di "Will Is My Friend", alle percussioni di "Fall" e al crescendo di batteria di "This Beard Is For Siobhán".
I brani di Rejoicing In The Hands sono brevi e fulminanti illuminazioni, che nel solo caso di "Insect eyes" si dilatano fino ai cinque minuti di lunghezza. Ma basta un minuto e mezzo di commovente semplicità per permettere a una canzone come "Autumn's Child" di entrare nell'animo per non uscirne più.
Il titolo del disco, che nella sua versione completa avrebbe dovuto essere "Rejoicing In The Hands Of The Golden Empress", si riferisce all'abbraccio della Madre Natura, a quella sorta di vaga "riconciliazione con il tutto" che ispira la visione animista e ingenua che Devendra ha del mondo. E in effetti, inseguendo questa idea di maternità della terra, Devendra indulge, alla sua personale maniera, sui tratti del proprio lato femminile, sottolineato anche dall'uso di un falsetto incline al vibrato che molti hanno paragonato al timbro del primo Marc Bolan.
Non è certo un caso, allora, che a duettare con lui si ritrovi la storica folksinger inglese Vashti Bunyan, "lo spirito della saggezza e della purezza" secondo Banhart, e addirittura il motivo stesso del suo fare musica. E' quasi sempre a modelli femminili, infatti, che Banhart dichiara di ispirarsi, visto che, secondo lui, la maggior parte della musica al maschile sarebbe accomunata da un mascherato egocentrismo, mentre quella creata dalle donne avrebbe la capacità di essere "honest, revealing, and strong and soulful all at once"…

L'altro disco pubblicato da Devendra Banhart nel 2004, Niño Rojo, si presenta a tutti gli effetti come il secondo capitolo dell'album precedente. Non un'appendice, insomma, ma un vero e proprio gemello, proveniente dalle medesime sessioni di registrazione.
Il panorama che si presenta è quindi un orizzonte dai confini già familiari, delineati dal labirinto di nitidi arpeggi con cui Banhart accarezza le corde della propria chitarra. E' vero che, rispetto a Rejoicing In The Hands, sono più numerosi i frangenti in cui gli arrangiamenti vanno oltre il semplice binomio voce/chitarra, ma si tratta comunque di rifiniture che non vogliono intaccare la sostanza del disegno, ma semplicemente arricchirne i tratti con qualche sfumatura di piano, qualche accento di batteria, qualche volteggio di archi…
Sin da subito, però, l'atmosfera che si respira tra le tracce di Niño Rojo appare più lieve e rilassata rispetto a quella dell'album precedente, persino più godibile, come testimonia l'aria giocosa e svagata di brani come "We All Know", con i fiati del suo sgangherato finale, e l'irresistibile "At The Hop", che rappresentano i momenti più coinvolgenti del disco.
A dire di Devendra Banhart, se Rejoicing In The Hands doveva rappresentare la madre, Niño Rojo sarebbe il figlio, "exuberant and foolish"… E mai come stavolta Devendra pare proprio voler affrontare il mondo con gli stessi occhi di quel bambino del titolo, che si guarda intorno pieno di un'insaziabile curiosità, la bocca spalancata di fronte all'evidenza di ciò che lo circonda, incurante della propria fragilità. Non può stupire, quindi, che l'album si apra con "Wake Up, Little Sparrow", cover di un brano della leggendaria autrice di nursery rhymes e canzoni per bambini Ella Jenkins.
A emergere con più evidenza rispetto al capitolo precedente, poi, è il senso di appartenenza di Banhart a una sorta di comunità artistica dell'era dell'Acquario: una trama di rapporti che dà i suoi frutti in "At The Hop", scritta e interpretata insieme a Andy Cabic dei Vetiver, e "Be Kind", dedicata a una "lovely Bianca" che ovviamente - per chi ancora ignorasse il gossip sulla sua liaison con Devendra - altri non è che Bianca Casady delle CocoRosie.
Insomma, dell'eredità dei Sixties Devendra Banhart sembra in questo disco essere riuscito a trattenere solo l'originaria ingenuità, senza portare con sé quella perdita dell'innocenza che ha presto trasformato in utopia la positività dello slancio iniziale.
Rispetto al diligente scimmiottamento del passato che sembra oggi andare per la maggiore, quella di Devendra Banhart non è una semplice imitazione, ma una vera e propria immedesimazione. Un atteggiamento, questo, perfettamente racchiuso nei versi di "It's A Sight To Behold", da Rejoicing In The Hands: "It's like finding home/ in an old folksong/ that you've never ever heard/ still you know every word/ for sure you can sing along".

Considerati nel loro complesso, i due album gemelli si presentano quindi come il compimento di quanto frammentariamente anticipato da Oh Me Oh My… e, nonostante la loro essenziale monocromia di fondo, appaiono come un'opera dalla portata ben più ponderosa di quanto ci si potesse attendere da un quasi-esordiente: un punto dal quale difficilmente si potrà prescindere nel raccontare le vicende del folk americano del nuovo millennio.

"Ride the song that ends right when it starts"

A questo punto, per riuscire ancora a stupire, a Devendra Banhart non bastano più il suo vibrato ubriaco e la nudità della sua chitarra. E così, per il suo debutto lontano dall'ombra familiare della Young God di Michael Gira, il folksinger texano pensa bene di smarcarsi dall'ingombrante etichetta pre-war folk cucitagli addosso dalla critica e di dare libero sfogo a quell'eclettismo che aveva già lasciato intravedere nei dischi precedenti. Accasatosi alla XL Recordings, la stessa etichetta degli White Stripes, Banhart pubblica nel 2005 un nuovo album dal titolo Cripple Crow, che si affranca dal lo-fi degli esordi e si presenta molto più come la festa di uno zingaresco collettivo che non come il solitario delirio di un folksinger: un approdo, questo, che risente senz'altro dell'esperienza live maturata nel 2004. Stavolta Devendra il Guru ha deciso di abbandonare gli anni della Grande Depressione e di tuffarsi a capofitto nella magia dei favolosi anni Sessanta: il suo approccio da giullare allucinato, però, non cambia neppure in questo nuovo lavoro, ma si veste soltanto di abiti più sgargianti, senza preoccuparsi di poter apparire pacchiano.

L'apertura di "Now That I Know", con il suo lieve passo da Nick Drake trasognato, illude che Banhart sia ancora lì soltanto con la propria chitarra ed un palpito di violoncello. Ma bastano pochi brani per imbattersi nella stoccata kinksiana di chitarra e batteria di "Long Haired Child", che con i suoi squarci acidi sembra voler guardare ai Sixties attraverso le lenti colorate dei Coral. Ed è proprio in questo sghimbescio rock 'n' roll che esce allo scoperto il volto del nuovo corso inaugurato da Cripple Crow, un baccanale in cui le filastrocche stonate di "Feel Just Like A Child" e "Chinese Children" sembrano affidate a un Elvis reduce da un'indigestione di peyote. Ma non ci sono solo gli anni Sessanta, tra le fonti cui attinge Cripple Crow. Non mancano infatti i numeri degni di un'orchestrina da saloon, come il ragtime di "Some People Ride The Wave", e neppure le ballate rubacuori da juke-box anni Cinquanta, come quella che nasce in coda a "Long Haired Child" o come il lento alla Roy Orbison di "Little Boys", che si trasforma nel bel mezzo in un siparietto degno del Rocky Horror Picture Show. Nonostante tutto, però, è solo quando Devendra Banhart lascia parlare ancora una volta la semplicità della sua anima country-folk che il disco riesce davvero a convincere. È facile allora scoprire nell'intreccio di piano, batteria e coretti di "Heard Somebody Say" una leggerezza impalpabile che sembra appartenere ai Belle & Sebastian del "periodo verde". E nell'incantevole dolcezza di "Queen Bee" e "Korean Dogwood" o nelle trame felpate di "Cripple Crow" sembra quasi di riuscire a intravedere Donovan impegnato a fumare uno spinello in compagnia di Neil Young…

La maggiore ricchezza di arrangiamenti di Cripple Crow non significa però che Banhart abbia deciso di rinunciare a quell'inconfondibile senso di obliqua incompiutezza che rappresenta una delle costanti della sua musica. Ma rispetto all'equilibrio raggiunto in Niño Rojo, stavolta le sfilacciature non mancano nelle ben ventidue canzoni dell'album. A Cripple Crow bisogna riconoscere il coraggio di una volontà di cambiamento che riesce a non rinnegare l'identità del suo autore. Ma non si può neppure fare a meno di riconoscere che la nuova strada intrapresa da Banhart sconta ancora qualche incertezza di troppo, pur consentendo a Cripple Crow di presentarsi come il disco di più immediato impatto tra quelli sinora pubblicati dal texano. Come quel bambino che dichiara orgogliosamente di essere, a volte Devendra sembra non voler distinguere il gioco dalla realtà, la verità dalla parodia: c'è solo da chiedersi se la sua Arcadia floreale continuerà a rimanere un giardino dell'Eden fuori dal tempo o se l'ombra del primo serpente ha già cominciato a profilarsi ai suoi cancelli.