Eurialo e Niso
GangOriginale | Eneide, Libro IX, nella versione italiana classica di Annibal... |
EURIALO E NISO La notte era chiara, la Luna un grande lume Eurialo e Niso uscirono dal campo verso il fiume. E scesero dal monte lo zaino sulle spalle, Dovevano far saltare il ponte a Serravalle. Eurialo era un fornaio e Niso uno studente, Scapparono in montagna all'otto di Settembre I boschi già dormivano, ma un gufo li avvisava C'era un posto di blocco in fondo a quella strada. Eurialo disse a Niso asciugandosi la fronte "Ci sono due tedeschi di guardia sopra al ponte." La neve era caduta e il freddo la induriva ma avevan scarpe di feltro, e nessuno li sentiva. Le sentinelle erano incantate dalla Luna, Fu facile sorprenderle tagliandogli la fortuna, Una di loro aveva una spilla sul mantello, Eurialo la raccolse e se la mise sul cappello. La spilla era d'argento, un'aquila imperiale Splendeva nella notte più di un aurora boreale. Fu così che lo videro i cani e gli aguzzini Che volevan vendicare i camerati uccisi. Eurialo fu bloccato in mezzo a una pianura, Niso stava nascosto coperto di paura Eurialo lo circondarono coprendolo di sputo, A lungo ci giocarono come fa il gatto col topo. Ma quando vide l'amico legato intorno a un ramo, Trafitto dai coltelli come un San Sebastiano Niso dovette uscire, troppo era il furore Quattro ne fece fuori prima di cadere. E cadde sulla neve ai piedi dell'amico, E cadde anche la Luna nel bosco insanguinato, Due alberi fiorirono vicino al cimitero, I fiori erano rossi, sbocciavano d'inverno. La notte era chiara, la Luna un grande lume Eurialo e Niso uscirono dal campo verso il fiume. | EURIALO E NISO Niso, d'Irtaco il figlio, ad una porta era preposto. Da le cacce d'Ida venne costui mandato al troian duce, gran feritor di dardo e di saette. Eurïalo era seco, un giovinetto il piú bello, il piú gaio e 'l piú leggiadro che nel campo troiano arme vestisse; ch'a pena avea la rugiadosa guancia del primo fior di gioventute aspersa. Era tra questi due solo un amore ed un volere; e nel mestier de l'armi l'un sempre era con l'altro, ed ambi insieme stavano allor vegghiando a la difesa di quella porta. Disse Niso in prima: «Eurïalo, io non so se dio mi sforza a seguir quel ch'io penso, o se 'l pensiero stesso di noi fassi a noi forza e dio. Un desiderio ardente il cor m'invoglia d'uscire a campo, e far contr'a' nemici un qualche degno e memorabil fatto: sí di star pigro e neghittoso aborro. Tu vedi là come securi ed ebri e sonnacchiosi i Rutuli si stanno con rari fochi e gran silenzio intorno. L'occasione è bella, ed io son fermo di porla in uso: or in qual modo, ascolta. Ascanio, i consiglieri e 'l popol tutto, per richiamare Enea, per avvisarlo, e per avvisi riportar da lui, cercan messaggi. Io, quando a te promesso premio ne sia (ch'a me la fama sola basta del fatto), di poter m'affido lungo a quel colle investigar sentiero, onde a Pallanto a ritrovarlo io vada securamente». Eurïalo a tal dire stupissi in prima; indi d'amore acceso di tanta lode, al suo diletto amico cosí rispose: «Adunque ne l'imprese di momento e d'onore io da te, Niso, son cosí rifiutato? E te poss'io lassar sí solo a sí gran rischio andare? A me non diè questa creanza Ofelte mio genitore, il cui valor mostrossi ne gli affanni di Troia, e nel terrore de l'argolica guerra. Ed io tal saggio non t'ho dato di me, teco seguendo il duro fato e la fortuna avversa del magnanimo Enea. Questo mio core è spregiatore, è spregiatore anch'egli di questa vita, e degnamente spesa la tiene allor che gloria se ne merchi, e quel che cerchi, ed a me nieghi, onore». Soggiunse Niso: «Altro di te concetto non ebbi io mai, né tal sei tu ch'io deggia averlo in altra guisa. Cosí Giove vittorïoso mi ti renda e lieto da questa impresa, o qual altro sia nume che propizio e benigno ne si mostri. Ma se per caso o per destino avverso (come sovente in questi rischi avvène) io vi perissi, il mio contento in questo è che tu viva, sí perché di vita son piú degni i tuoi giorni, e sí perch'io aggia chi dopo me, se non con l'arme, almen con l'oro il mio corpo ricovre, e lo ricuopra. E s'ancor ciò m'è tolto, alfin sia chi d'esequie e di sepolcro lontan m'onori. Oltre di ciò cagione esser non deggio a tua madre infelice d'un dolor tanto: a tua madre che sola di tante donne ha di seguirti osato, i comodi spregiando e la quïete de la città d'Aceste». A ciò di nuovo Eurïalo rispose: «Indarno adduci sí vane scuse; ed io già fermo e saldo nel proposito mio pensier non muto. Affrettiamoci a l'impresa». E, cosí detto, destò le sentinelle, e le ripose in vece loro; e l'uno e l'altro insieme se ne partiro, e ne la reggia andaro. Tutti gli altri animali avean, dormendo, sovra la terra oblio, tregua e riposo da le fatiche e dagli affanni loro. I Teucri condottieri e gli altri eletti, che de la guerra avean l'imperio e 'l carco, s'erano e de la guerra e de la somma di tutto 'l regno a consigliar ristretti: e nel mezzo del campo altri agli scudi, altri a l'aste appoggiati, avean consulta di che far si dovesse, e chi per messo ad Enea si mandasse. I due compagni d'essere ammessi e 'ncontinente uditi fecer gran ressa e di portar sembiante cosa di gran momento e di gran danno se s'indugiasse. A questa fretta, il primo si fece Ascanio avanti, e, vòlto a Niso, comandò che dicesse. Egli altamente parlando incominciò: «Troiani, udite discretamente, e quel che si propone e si dice da noi, non misurate da gli anni nostri. I Rutuli sepolti se ne stan da la crapula e dal sonno; e noi stessi appostato avemo un loco da quella porta che riguarda al mare, atto a le nostre insidie, ove la strada piú larga in due si parte. Intorno al campo sono i fochi interrotti; il fumo oscuro sorge a le stelle. Se da voi n'è dato d'usar questa fortuna, e quest'onore ne si fa di mandarne al nostro duce, al Pallantèo n'andremo, e ne vedrete assai tosto tornar carchi di spoglie de gli avversari nostri, e tutti aspersi del sangue loro. E non fia che la strada ne gabbi, ché piú volte qui d'intorno cacciando, avemo e tutta questa valle e tutto il fiume attraversato e scórso». Qui d'anni grave e di pensier maturo Alete, al ciel rivolto: «O patrii dii, - disse esclamando - il cui nome fu sempre propizio a Troia, pur del tutto spenta non volete che sia mercé di voi, poscia che questo ardire e questi cori ne' petti a' nostri giovini ponete». E stringendo le man, gli omeri e 'l collo or de l'uno or de l'altro, ambi onorava, di dolcezza piangendo. «E qual, - dicea - qual, generosi figli, a voi darassi di voi degna mercede? Iddio, ch'è primo degli uomini e supremo guiderdone, e la vostra virtú premio a se stessa sia primamente. Enea poscia useravvi sua largitate, e questo giovinetto che d'un tal vostro merto avrà mai sempre dolce ricordo». - «Anzi io, - soggiunse Iulo - che senza il padre mio la mia salute veggio in periglio, per gli dèi Penati, per la casa d'Assaraco, per quanto dovete al sacro e venerabil nume de la gran Vesta, ogni fortuna mia ponendo, ogni mio affare in grembo a voi, vi prego a rivocare il padre mio. Fate ch'io lo riveggia, e nulla poi sarà di ch'io piú tema. E già vi dono due gran vasi d'argento, che scolpiti sono a figure; un de' piú ricchi arnesi che del sacco d'Arisba in preda avesse il padre mio; due tripodi, due d'oro maggior talenti, ed un tazzone antico de la sidonia Dido. E se n'è dato tener d'Italia il desïato regno, e che preda sortirne unqua mi tocchi, quello stesso destrier, quelle stesse armi guarnite d'oro, onde va Turno altero, e quel suo scudo, e quel cimier sanguigno sottrarrò dalla sorte, e di già, Niso, gli ti consegno; e ti prometto in nome del padre mio che largiratti ancora dodici fra mill'altri eletti corpi di bellissime donne e dodici altri di giovini prigioni, e l'armi loro con essi insieme, e di Latino stesso la regia villa. Or te, mio venerando fanciullo, abbraccio, a gli cui giorni i miei van piú vicini. Io te con tutto il core accetto per compagno e per fratello in ogni caso; e nulla o gloria o gioia procurerommi in pace unqua od in guerra, che non sii meco d'ogni mio pensiero, e d'ogni ben partecipe e consorte; e ne le tue parole e ne' tuoi fatti somma speme avrò sempre e somma fede». Eurïalo rispose: «O fera o mite che fortuna mi sia, non sarà mai ch'io discordi da me: mai non uguale lo mio cor non vedrassi a questa impresa: ma sopra agli altri tuoi promessi doni questo solo bram'io: la madre mia che dal ceppo di Prïamo è discesa, e che per me seguire ha, la meschina non pur di Troia abbandonato il nido, ma 'l ricovro d'Aceste, e la sua vita stessa (a tanti per me l'ha rischi esposta), di questo mio periglio, qual che e' sia, nulla ha notizia; ed io da lei mi parto senza che la saluti e che la veggia. Per questa man, per questa notte io giuro, signor, che né vederla, né la pieta soffrir de le sue lagrime non posso. Tu questa derelitta poverella consola, te ne priego, e la sovvieni in vece mia. Se tu di ciò m'affidi, andrò, con questa speme, ad ogni rischio con piú baldanza». Si commosser tutti a tai parole, e lagrimaro i Teucri; e piú di tutti Ascanio, a cui sovvenne de la pietà ch'ebbe suo padre al padre; e disse al giovinetto: «Io mi ti lego per fede a tutto ciò che la grandezza di questa impresa e 'l tuo valor richiede. E perché mia sia la tua madre, il nome sol di Creusa, e null'altro, le manca. Né di picciolo merto è ch'un tal figlio n'aggia prodotto; segua che che sia di questo fatto. Ed io per lo mio capo ti giuro, per lo qual solea pur dianzi giurar mio padre, ch'a la madre tua, a tutta la tua stirpe si daranno i doni stessi che serbar mi giova pur a te nel felice tuo ritorno». Cosí disse piangendo; e la sua spada, che di man di Licàone guarnito avea d'avorio il fodro, e l'else d'oro, distaccossi dal fianco, e lui ne cinse. Memmo al tergo di Niso un tergo impose di villoso leone; e 'l fido Alete gli scambiò l'elmo. Cosí tosto armati se n'uscîr da la reggia; e i primi tutti, giovini e vecchi, in vece d'onoranza fino a la porta con preconi e vóti gli accompagnaro. Il giovinetto Iulo con viril cura e con pensier maturi innanzi agli anni, ragionando in mezzo giva d'entrambi: ed or l'uno ed or l'altro molto avvertendo, molte cose a dire mandava al padre: le quai tutte al vento furon commesse, e dissipate a l'aura. Escono alfine. E già varcato il fosso, da le notturne tenebre coverti, si metton per la via che gli conduce al campo de' nemici, anzi a la morte. Ma non morranno, che macello e strage faran di molti in prima. Ovunque vanno veggion corpi di genti, che sepolti son dal sonno e dal vino. In carri vòti con ruote e briglie intorno, uomini ed otri e tazze e scudi in un miscuglio avvolti. Disse d'Irtaco il figlio: «Or qui bisogna, Eurïalo, aver core, oprar le mani, e conoscere il tempo. Il cammin nostro è per di qua. Tu qui ti ferma, e l'occhio gira per tutto, che non sia da tergo chi n'impedisca; ed io tosto col ferro sgombrerò 'l passo, e t'aprirò 'l sentiero». Ciò cheto disse. Indi Rannete assalse, il superbo Rannete, che per sorte entro una sua trabacca avanti a lui in su' tappeti a grand'agio dormia e russava altamente. Era costui al re Turno gratissimo, ed anch'egli rege e 'ndovino; ma non seppe il folle indovinar quel ch'a lui stesso avvenne. Tre suoi famigli, che dormendo appresso giacean fra l'armi rovesciati a caso, tutti in un mucchio uccise, ed un valletto ch'era di Remo, e sotto i suoi cavalli lo stesso auriga. A costui trasse un colpo che gli mandò giú ciondoloni il collo: indi al padron di netto lo recise sí, che 'l sangue spicciando d'ogni vena, la terra, lo stramazzo e 'l desco intrise. Tàmiro estinse dopo questi e Lamo, e 'l giovine Serrano. Un bel garzone era costui, gran giocatore, e 'n gioco insino ad ora avea sempre vegliato. Felice lui per lo suo vizio stesso, se giocato e perduto ancora avesse tutta la notte! Era a veder tra loro il fiero Niso, qual da fame spinto non pasciuto leone un pieno ovile imbelle e per timor già muto assaglie, che d'unghie armato, e sanguinoso il dente traendo e divorando ancide e rugge. Né fe' strage minor da l'altro canto Eurïalo, ch'acceso e furïoso tra molta plebe molti senza nome e quasi senza vita a morte trasse; sí dal sonno eran vinti: e de' nomati occise Ebèso, Fabo, Àbari e Reto. Questo Reto era desto: onde veggendo con la morte degli altri il suo periglio, per la paura appo d'un'urna ascoso quatto e queto si stava. Indi sorgendo gli fu 'l giovine sopra, e 'l ferro tutto entro al petto gl'immerse, e con gran parte de la sua vita indietro lo ritrasse; sí che tra 'l vino e 'l sangue ond'era involta, gli uscí l'alma di purpura vestita. Con questa occisïon di buia notte e di furtivo agguato il buon garzone fervidamente instava. E già rivolto s'era contro a la schiera di Messapo là 've 'l foco vedea del tutto estinto, e là 've i suoi cavalli a la campagna pascean legati, allor che Niso il vide che da l'occisïone e da l'ardore trasportar si lasciava. E brevemente: «Non piú, - gli disse - ché 'l nimico sole ne sorge incontra. Assai di sangue ostile fin qui s'è sparso: assai di largo avemo». Molt'armi, molt'argenti e molt'arnesi lasciaro indietro. I guarnimenti soli del caval di Rannete e le sue borchie Eurïalo si prese, con un cinto bollato d'oro, un prezïoso dono che Cèdico, un ricchissimo tiranno, a Rèmolo tiburte ospite assente fece in quel tempo. Rèmolo al nipote lo lasciò per retaggio e questi in guerra ne fu poscia da' Rutuli spogliato; quinci gli ebbe Rannete, e quinci preda fûr d'Eurïalo al fine. Egli gravonne i forti omeri indarno. Appresso in campo s'adattò di Messapo un lucid'elmo d'alto cimiero adorno: e 'n questa guisa se ne partian vittorïosi e salvi. Intanto di Laurento eran le schiere uscite a campo, e i lor cavalli avanti precorrean l'ordinanza, ed al re Turno ne portavano avviso. Eran trecento tutti di scudo armati; e capo e guida n'era Volscente. Già vicini al campo scorgean le mura; quando fuor di strada videro da man manca i due compagni tener sentiero obliquo. Era un barlume là 'v'era l'ombra; e là 'v'era la luna, a gli avversi suoi raggi la celata del male accorto Eurïalo rifulse. Di cotal vista insospettí Volscente, e gridò da la squadra: «Olà, fermate. chi viva? A che venite? Ove n'andate? Chi siete voi?» La lor risposta incontro fu sol di porsi in fuga, e prevalersi de la selva e del buio. I cavalieri ratto chi qua chi là corsero a' passi, circondarono il bosco; ad ogni uscita posero assedio. Era la selva un'ampia macchia d'elci e di pruni orrida e folta, ch'avea rari i sentieri, occulti e stretti. E gl'intrichi de' rami e de la preda ch'era pur grave, e 'l dubbio de la strada tenean sovente Eurïalo impedito. Niso disciolto e lieve, e del compagno non s'accorgendo ch'era indietro assai, oltre si spinse. E già fuor de' nemici era ne' campi che dal nome d'Alba si son poi detti Albani. Allor le razze e le stalle v'avea de' suoi cavalli il re Latino. E qui poscia ch'un poco ebbe il suo caro amico indarno atteso, gridando: «Ah! - disse - Eurïalo infelice, u' sei rimaso? U' piú (lasso!) ti trovo per questo labirinto?» E tosto indietro rivolto, per le vie, per l'orme stesse di tornar ricercando, si rimbosca. Erra pria lungamente, e nulla sente; poscia sente di trombe e di cavalli e di voci un tumulto; e vede appresso Eurïalo fra mezzo a quelle genti, qual cacciato leone. E già dal loco e da la notte oppresso si travaglia, e si difende il poverello invano. Che farà? Con che forze, e con qual armi fia che lo scampi? Avventerassi in mezzo de' nimici a morir morte onorata? Cosí risolve, e prestamente un dardo s'adatta in mano; e vòlto in vèr la luna, ch'allora alto splendea, cosí la prega: «Tu, dea, tu de la notte eterno lume, tu, regina de' boschi, in tanto rischio ne porgi aíta. E s'Irtaco mio padre per me de le sue cacce, io de le mie il dritto unqua t'offrimmo; e se t'appesi, e se t'affissi mai teschio né spoglia di fera belva, or mi concedi ch'io questa gente scompigli, e la mia mano reggi e i miei colpi». E ciò dicendo, il dardo vibrò di tutta forza. Egli volando fendé la notte, e giunse ove a rincontro era Sulmone, e l'investí nel tergo là 've pendea la targa; e 'l ferro e l'asta passogli al petto, e gli trafisse il core. Cadde freddo il meschino; e, con un caldo fiume di sangue, che gli uscio davanti, finí la vita, e con singhiozzo il fiato. Guardansi l'uno a l'altro; e tutti insieme miran d'intorno di stupor confusi e di timor d'insidie. E Niso intanto via piú si studia; ed ecco un altro fiero colpo, ch'avea di già librato, e dritto di sopra gli si spicca da l'orecchio, e per l'aura ronzando in una tempia si conficca di Tago, e passa a l'altra. Volscente, acceso d'ira, non veggendo con chi sfogarla, al giovine rivolto: «Tu me ne pagherai per ambi il fio» - disse, e strinse la spada, e vèr lui corse. Niso a tal vista spaventato, e fuori uscito de l'agguato e di se stesso (che soffrir non poteo tanto dolore): «Me, me, - gridò - me, Rutuli, uccidete. io son che 'l feci, io son che questa froda ho prima ordito. In me l'armi volgete; ché nulla ha contro a voi questo meschino osato, né potuto. Io lo vi giuro per lo ciel che n'è conscio e per le stelle, questo tanto di mal solo ha commesso, che troppo amato ha l'infelice amico». Mentre cosí dicea, Volscente il colpo già con gran forza spinto, il bianco petto del giovine trafisse. E già morendo Eurïalo cadea, di sangue asperso le belle membra, e rovesciato il collo, qual reciso dal vomero languisce purpureo fiore, o di rugiada pregno papavero ch'a terra il capo inchina. In mezzo de lo stuol Niso si scaglia solo a Volscente, solo contra lui pon la sua mira. I cavalier che intorno stavano a sua difesa, or quinci or quindi lo tenevano a dietro. Ed ei pur sempre addosso a lui la sua fulminea spada rotava a cerco. E si fe' largo in tanto ch'al fin lo giunse; e mentre che gridava, cacciogli il ferro ne la strozza, e spinse. Cosí non morse, che si vide avanti morto il nimico. Indi da cento lance trafitto addosso a lui, per cui moriva, gittossi; e sopra lui contento giacque. Fortunati ambidue! Se i versi miei tanto han di forza, né per morte mai, né per tempo sarà che 'l valor vostro glorïoso non sia, finché la stirpe d'Enea possederà del Campidoglio l'immobil sasso, e finché impero e lingua avrà l'invitta e fortunata Roma. |