La domenica delle salme
Fabrizio De AndréOriginale | ...DISSE A "BAFFI DI SEGO", CHE ERA IL PRIMO... |
LA DOMENICA DELLE SALME Tentò la fuga in tram verso le sei del mattino dalla bottiglia di orzata dove galleggiava Milano non fu difficile seguirlo il poeta della Baggina [1] la sua anima accesa mandava luce di lampadina gli incendiarono il letto sulla strada di Trento riuscì a salvarsi dalla sua barba un pettirosso da combattimento. I polacchi non morirono subito e inginocchiati agli ultimi semafori rifacevano il trucco alle troie di regime lanciate verso il mare i trafficanti di saponette mettevano pancia verso est chi si convertiva nel novanta era dispensato nel novantuno la scimmia del quarto Reich ballava la polka sopra il muro e mentre si arrampicava le abbiamo visto tutto il culo la piramide di Cheope volle essere ricostruita in quel giorno di festa masso per masso schiavo per schiavo comunista per comunista. La domenica delle salme non si udirono fucilate il gas esilarante presidiava le strade. La domenica delle salme si portò via tutti i pensieri e le regine del tua culpa affollarono i parrucchieri. Nell'assolata galera patria il secondo secondino disse a "Baffi di Sego" [2] che era il primo si può fare domani sul far del mattino e furono inviati messi fanti cavalli cani ed un somaro d annunciare l'amputazione della gamba di Renato Curcio il carbonaro il ministro dei temporali in un tripudio di tromboni auspicava democrazia con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni - voglio vivere in una città dove all'ora dell'aperitivo non ci siano spargimenti di sangue o di detersivo - a tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade [3] eravamo gli ultimi cittadini liberi di questa famosa città civile perché avevamo un cannone nel cortile. La domenica delle salme nessuno si fece male tutti a seguire il feretro del defunto ideale la domenica delle salme si sentiva cantare - quant'è bella giovinezza non vogliamo più invecchiare -. Gli ultimi viandanti si ritirarono nelle catacombe accesero la televisione e ci guardarono cantare per una mezz'oretta poi ci mandarono a cagare -voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio con i pianoforti a tracolla vestiti da Pinocchio voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti per l'Amazzonia e per la pecunia nei palastilisti e dai padri Maristi voi avevate voci potenti lingue allenate a battere il tamburo voi avevate voci potenti adatte per il vaffanculo - La domenica delle salme gli addetti alla nostalgia accompagnarono tra i flauti il cadavere di Utopia la domenica delle salme fu una domenica come tante il giorno dopo c'erano segni di una pace terrificante mentre il cuore d'Italia da Palermo ad Aosta si gonfiava in un coro di vibrante protesta. | SANT'AMBROGIO Vostra eccellenza che mi sta in cagnesco Per que’ pochi scherzucci di dozzina , e mi gabella per anti-tedesco perché metto le birbe alla berlina, o senta il caso avvenuto di fresco a me, che girellando una mattina, càpito in Sant’ Ambrogio di Milano, in quello vecchio, la fuori di mano. M’era compagno il figlio giovinetto D’un di que’ capi un po’ pericolosi, di quel tal Sandro, autor d’un romanzetto ove si tratta di Promessi Sposi… Che fa il nesci, Eccellenza? O non l’ha letto? Ah, intendo: il suo cervel, Dio lo riposi, in tutt’altra faccende affacendato, a questa roba è morto e sotterrato. Entro, e ti trovo un pieno di soldati, di que’ soldati settentrionali, come sarebbe Boemi e Croati, messi qui nella vigna a far da pali: di fatto se ne stavano impalati, come sogliano in faccia a’ generali, co’ baffi di copecchio e con que’ musi, davanti a Dio diritti come fusi. Mi tenni indietro; ché piovuto in mezzo Di quella marmaglia, io non lo nego D’aver provato un senso di ribrezzo Che lei non prova in grazia dell’impiego. Sentiva un afa, un abito di lezzo: scusi, Eccellenza, mi parean di sego, in quella bella casa del Signore, fin le candele dell’altar maggiore. Ma in quella in quella che s’appresta il sacerdote a consacrar la mistica vivanda di sùbita dolcezza mi percuote su, di verso l’altare, un suon di banda. Dalle trombe di guerra uscian le note Come di voce che si raccomanda D’una gente che gema in duri stenti e de’ perduti beni si rammenti Era un coro del Verdi; il coro a Dio Là de’ Lombardi miseri, assetati; quello: O Signore, dal tetto natio, che tanti petti ha scossi e inebriati. Ricominciai a non esser più io E, come se que’ cosi doventati Fossero gente della nostra gente, entrai nel branco involontariamente. Che vuol ella, Eccellenza, il pezzo è bello, poi nostro, e poi suonato come va; e coll’arte di mezzo, e col cervello dato all’arte, l’ubbìe si buttan là. Ma cessato che fu, dentro bel bello Io ritornava a star come la sa; quand’eccoti, per farmi un altro tiro da quelle bocche che parean di ghiro, un cantico tedesco lento lento per l’aer sacro a Dio mosse le penne: era preghiera, e mi parean lamento, d’un suono grave, flabile, solenne, tal che sempre nell’anima lo sento; e mi stupisco che in quelle cotenne, in quei fantocci esotici di legno, potesse l’armonia fino a quel segno. Sentia nell’inno la dolcezza amara De’canti uditi da fanciullo; il core Che da voce domestica gl’impara, ce li ripete il giorni del dolore; un pensier mesto della madre cara, un desiderio di pace e d’amore, uno sgomento di lontano esilio, che mi faceva andare in visibilio. E quando tacque, mi lasciò pensoso Di pensieri più forti e più soavi. Costor, dicea tra me, re pauroso, schiavi gli spinge per tenerci schiavi; gli spinge di Croazia e di Boemme, come mandre a svernar nelle maremme. A dura vita, a dura disciplina, muti, derisi, solitari stanno, strumenti ciechi d’occhiuta rapina che lor non tocca e che forse non sanno; e quet’odio, che mai non avvicina il popolo lombardo all’allemanno, giova a chi regna dividendo, e teme popoli avversi affratellati insieme. Povera gente! Lontana da’ suoi, in un paese qui che vuol male, chi sa che in fondo all’anima po’ poi non mandi a quel paese il principale! Gioco che l’ hanno in tasca come noi. Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale, colla su’ brava mazza di nocciòlo, duro e piantato li come un piolo. |
[1] Baggina: Così viene chiamata a Milano la casa di riposo per anziani "Pio albergo Trivulzio"
[2] Baffi di sego: gendarme austriaco in una satira di Giuseppe Giusti
[3] De Andrade: vedi Serafino Ponte Grande di Oswald De Andrade.