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Miniera

Claudio Villa
Lingua: Italiano


Claudio Villa

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Claudio Villa, Miniera.


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[1931]
Musica di Cesare Andrea Bixio
Testo di Bixio Cherubini




Altri interpreti: Luciano Tajoli, Gianmaria Testa e recentemente Riccardo Tesi & Banditaliana. La attribuiamo qui a Claudio Villa, che ne diede senz'altro l'interpretazione più famosa. [CCG/AWS Staff]

"Un classico degli anni '30, scritta da Bixio e Cherubini, interpretato da Luciano Tajoli, Claudio Villa e molti altri, e ripreso recentemente anche da Gianmaria Testa nel suo album Da questa parte del mare.



Il brano (degli anni '30) è probabilmente ispirato alla grave tragedia nella miniera di carbone della Fairmont CV Company di Monongah, in West Virgina (USA). In questa città mineraria, nel 1907, una esplosione innescò una reazione a catena agevolata anche dai vapori di carbone, che si risolse in uno dei più gravi incidenti minerari di tutti i tempi. Ufficialmente le vittime accertate furono 362, ma secondo successive ricerche storiche dovrebbero essere rimasti uccisi nelle gallerie quasi 1000 minatori (956, secondo questi studi). Come in molti altri luoghi di fatica degli Stati Uniti, in vorticosa espansione economica ad inizio del secolo XX, buona parte dei lavoratori erano italiani (nella foto, alcuni di essi). I morti italiani accertati sono stati almeno 171, dei quali uno, di nome Giovanni Colarusso, aveva solo 10 anni, e non era presente per qualche casualità o errore, ma perché all'epoca in miniera e in altri lavori gravosi erano impiegati anche i bambini. Praticamente tutti i minatori italiani venivano da regioni del Sud, in maggior parte dalla Calabria, ma anche dagli Abruzzi e dal Molise. Per questo probabilmente la canzone parla di un "minatore bruno", emigrato o esiliato. Riguardo a quest'ultimo termine non è chiara la ispirazione, teoricamente nessun italiano era costretto all'esilio all'epoca per motivi politici, ma casomai all'emigrazione, per sfuggire alle ristrettezze economiche dell'arretrata economia italiana."
(Alberto Truffi da Musica e memoria, dal quale è ripreso anche il testo, con un'integrazione).
Allor che in ogni bettola messicana
ballano tutti al suono dell’hawaiana
Vien di lontano un canto così accorato
È il minatore bruno laggiù emigrato
La sua canzone è il canto di un esiliato

Cielo di stelle, cielo color del mare
Tu sei lo stesso cielo del mio casolare
Portami in sogno verso la patria mia
Portale un cuor che muore di nostalgia

Nella miniera è tutto un baglior di fiamme
Piangono bimbi, spose, sorelle e mamme
Ma a un tratto il minatore dal volto bruno
Dice agli accorsi: se titubante è ognuno
Io solo andrò laggiù che non ho nessuno

E nella notte un grido solleva i cuori
Mamme son salvi tornano i minatori
Manca soltanto quello dal volto bruno
Ma per salvare lui non c’è più nessuno

Va l'emigrante ogn'or con la sua chimera
Lascia la vecchia terra, il suo casolare
E spesso la sua vita in una miniera

Cielo di stelle cielo color del mare
Tu sei lo stesso cielo del mio casolare
Portami in sogno verso la patria mia
Portale un cuor che muore di nostalgia.

inviata da Riccardo Venturi - 22/1/2009 - 21:14



Lingua: Francese

Version française de Marco Valdo M.I. – 2008

Chanson de mine, chanson d'exil, chanson d'émigré... À tous les mineurs delà, d'ici et d'ailleurs qui n'en sont jamais revenus... autres victimes de la guerre sociale.

Chanson italienne – Miniera – Bixio et Cherubini (1931)

LA MINE EN FLAMMES

Alors que dans chaque auberge mexicaine
ils dansent tous au son de l'hawaienne
Un chant vient de loin, si effroyablement triste.
C'est le mineur brun là-bas émigré.
Sa chanson est le chant d'un exilé.

Ciel d'étoiles, ciel couleur de mer
Tu es le même ciel que sur ma terre
Ramène-moi en rêve vers ma patrie
Rapporte-lui un cœur qui meurt de nostalgie

Dans la mine, tout est en flammes
Pleurent enfants, sœurs, mères et femmes
Mais le mineur au visage brun subitement
dit aux sauveteurs, si chacun est chancelant
J'irai seul en bas moi que personne n'attend

Et dans la nuit, un cri soulève les cœurs
Mamma, ils sont saufs, ils reviennent, les mineurs
Il manque seulement celui au visage brun
Mais pour le sauver lui, il n'y en a aucun.

Ciel d'étoiles, ciel couleurs de mer
Tu es le même ciel que sur ma terre
Ramène-moi en rêve vers ma patrie
Porte-lui mon cœur qui meurt de nostalgie.

inviata da Marco Valdo M.I. - 22/1/2009 - 21:32



"Mi raccontava anni fa Francesco Mongiardo (gli americani lo pronunciavano “Frank Majority”), scalpellino, figlio di minatore immigrato dalla Campania in West Virginia: “Mio padre sbarcò a New York nel 1902. Dopo passato il controllo immigrazione, l’hanno mandati alla stazione centrale e lì nessuno sapeva l’inglese, e gli hanno messo delle targhette al collo con la destinazione – come bestiame, insomma. E li hanno marcati per il West Virginia. L’hanno messi sul treno, e spediti in West Virginia.” Li chiamavano blue trains: treni con i finestrini verniciati di blu, così che gli immigrati spediti a destinazione ignota non vedevano neanche dove stavano andando. Continua Frank Majority: “Arrivarono che era notte. A Beckley, credo, nel centro dei giacimenti di carbone. E lì accanto, lungo i binari, c’erano fornaci aperte che bruciavano il carbone per fare il coke. I fuochi accendevano il cielo e mio padre non aveva mai visto niente del genere. Vedevano quei fuochi e quando scesero dal treno videro un nero, grande e grosso, con una sbarra d’acciaio in mano, tutto sudato, che lavora il coke, e pensarono: Siamo arrivati all’inferno, e questo è il diavolo. Erano ragazzi, non avevano mai visto una cosa simile, in un paese sconosciuto…”
L’inferno in West Virginia c’era per davvero: nel 1903, il console d’Italia protestò presso il governo americano (erano altri tempi!) per le condizioni di semi-schiavitù in cui erano tenuti gli immigrati italiani in West Virginia. Non solo loro: “Medievale West Virginia!”, inveiva Mary “Mother” Jones, leggendaria sindacalista dei minatori americani: “Quando arrivo in paradiso, voglio parlare a Dio del West Virginia.” In West Virginia, nel 1921, c’era la guerra civile: i minatori in rivolta armata si scontravano con gli eserciti privati dei padroni (i “contractors” di allora), e la nascente aviazione militare americana sperimentava su di loro la guerra aerea e i bombardamenti (per fortuna, in modo fallimentare). Nel 1912, a Paint Creek e Cabin Creek, i minatori si erano ribellati contro il potere feudale delle compagnie minerarie, la complicità delle istituzioni, la violenza della repressione, e per la prima volta avevano conquistato i diritti sindacali. E il 6 dicembre 1907, a Monongah, West Virginia, il più tragico disastro minerario della storia degli Stati Uniti aveva ucciso 361 uomini, di cui 171 italiani, provenienti soprattutto dal Molise, dall’Abruzzo, e poi da tutte le regioni dell’Italia meridionale.
Il Ministero degli Esteri ricorda il centenario di questa “tragedia dimenticata” (non da tutti, non da tutti!) con una ricca e documentata pubblicazione. Mi fa un po’ dissonanza la carta patinata, il 'comitato per le celebrazioni' (celebrazioni?) zeppo di autorità. Ma mi commuove la poesia in epigrafe, del poeta immigrato Efrem Bartoletti, figlio di mezzadri umbri, per la fosca ingenuità del tono (“Quale bocca infernal fumida e nera \ e ripiena di Morte e di sciagura…”) ma anche perché è datata Hibbing, Minnesota, 1912 – lo stesso anno dello sciopero di Pant Creek e Cabin Creek, e la stessa città mineraria dove, trent’anni dopo, sarebbe nato Robert Zimmerman, detto Bob Dylan.
Soprattutto, sono di grande utilità l’appendice documentaria e molti dei saggi che costituiscono la parte più importante del libro. Così, Norberto Lombardi colloca Monongah in un contesto terrificante di massacri sul lavoro, con migliaia di vittime, compresi tantissimi italiani: “La tragedia di Monongah è… solo l’apice di un percorso cadenzato di lutti e di dolore… che denota una strutturale esposizione ai rischi e la mancanza di efficaci regole d protezione e di controlli.” Potrebbe averlo scritto adesso: Monongah non è lontano da Newurgh, dove morirono 38 mintaori nel 1886, o da Fairmont, dove nel 1968 ne morirono 78 minatori. Il disastro più recente, in Wet Virginia, è del 2006: dodici morti. Ma ho fra le mani il ritaglio di un giornale di quelle parti che dice, i disastri con molte vittime fanno notizia, ma in miniera si muore uno alla volta, tutti i giorni (ci vuole la strage della Thyssenkrupp a Torino perché media e politici si accorgano dei nostri morti quotidiani).

Ancora: Andreina De Clementi collega la vicenda degli italiani di Monongah alle ragioni storiche dell’emigrazione dalle campagne italiane; Rudolph Vecoli riassume la storia delle lotte e descrive le condizioni feudali a cui si ribellavano i minatori (“In queste company towns i baroni del carbone controllavano tutto, le capanne, le botteghe, i servizi sanitari, le scuole e le chiese, e talvolta anche lo stesso pensiero dei lavoratori. La paga degli operai non era in dollari correnti ma in script della compagnia”, redimibili solo allo spaccio aziendale dove ogni aumento di salario era compensato da un equivalente aumento dei prezzi). Stefano Luconi allarga lo sguardo a tutte le lotte degli operai italiani negli Stati Uniti, dai sigarai siciliani in Florida alle operaie tessili di Lawrence in Massachusetts (dove inventarono la frase “vogliamo il pane, e vogliamo anche le rose”): una storia davvero cancellata da un’immagine oleografica, conservatrice e sbagliata degli italo-americani promossa da associazioni “etniche” e governanti interessati (d’altronde già molti anni fa Bruno Cartosio aveva parlato di queste vicende come componente di quel movimento operaio internazionale che troppo spesso viene spezzettato nelle narrazioni storiche paese per paese). E poi, l’appendice documentaria, con quei laceranti elenchi di nomi, le lettere, la scrittura faticosa delle lettere dei migranti riprodotte anastaticamente e quella burocratica delle istituzioni, il tira e molla sugli indennizzi fra Washington, Stati Uniti e comuni come Duronia del Sannio o Torella del Sannio, le fotografie, le lapidi, i monumenti commemorativi…
Una classica canzone di Alfredo Bandelli, Partono gli emigranti, li chiamava “i deportati della borghesia.” Deportati, importati, contrabbandati, rispediti indietro, ammazzati, archiviati se va bene con duecento dollari alle vedove o ai figli. Il paragone fra gli italiani emigrati e i rumeni o senegalesi immigrati è troppo inevitabile per avere bisogno di sottolinearlo. A me invece viene in mente un’altra cosa. Nello stesso anno in cui l’aviazione bombardava i minatori in West Virginia, gli aerei inglesi bombardavano a tappeto la città di Baghdad. Io credo che anche i morti di Monongah nel 1907 e quelli nell’Irak di oggi sono collegati, parte dello stesso processo: una rivoluzione industriale, una modernità, un dominio di classe che fin dall’inizio hanno mangiato energia, e per continuare a mangiarne massacrano le persone, dell’alto con le bombe nelle guerre per il petrolio in Medio Oriente o nel profondo delle miniere per il carbone. Ne sono morti ancora un centinaio, pochi giorni fa, in Cina."


Alessandro Portelli, Monongah, 1907: l'inferno in West Virginia, articolo pubblicato su Il Manifesto del 13 dicembre 2007.

Alessandro - 28/7/2009 - 23:14


Interpretazione di Aurelio Cimato, in arte Gabrè (1890-1946)


B.B. - 19/4/2020 - 21:57




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