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Caminanti

Michele Gazich
Lingua: Italiano (Veneto veneziano)


Michele Gazich

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2018
Temuto come grido atteso come canto


Dopo Non al denaro non all’amore né al cielo, che la genialità di Fabrizio De André portò all’attenzione del pubblico italiano, questo lavoro si può definire, a buon titolo, l’autentica ‘Spoon River’ italiana. Si parla di morti, questo è chiaro, ma i personaggi coinvolti non sono “morti e basta”. Loro sono morti due volte: la prima volta perché malati ed internati in un manicomio; la seconda volta perché ‘gli ospiti’, i reclusi, di origine ebraica, furono deportati ed uccisi. Tutti i personaggi raccontati nell’album hanno vissuto, o meglio, abitato, nell’isoletta di San Servolo, pittoresca oasi di terra della laguna veneta. Abitavano in una struttura molto antica, adibita a monastero per circa mille anni, ma che nel 1715 venne adibita ad ospedale militare e dopo neanche dieci anni venne trasformata in ‘manicomio’. E con questa destinazione è rimasta, nonostante vari passaggi, fino al 1978 quando fu chiuso definitivamente. In questi 253 anni, in quelle mura, è l’umanità intera che vi è passata e che lì, si è frantumata. Vi abitavano perché qualcuno ve li aveva portati, con la forza, perché ritenuti “matti”, inadatti alla vita sociale, inadatti alla vita, inadatti e basta.
Michele Gazich ha vissuto sull’isola per circa un mese ed ha deciso di leggere quel luogo con gli occhi di oggi ma cercando di andare indietro nel tempo, raccogliendo le storie presenti nelle schede personali delle migliaia di persone che in quel luogo di tormento vennero recluse; cercando di leggere, in quelle carte, l’umanità dolente e sofferente che in quel luogo è transitata, ha vissuto, ha vegetato, ci ha perso la vita. Un’umanità problematica e, magari, non necessariamente malata ma solamente vittima di depressioni, di esaurimenti nervosi, di difficoltà relazionali. Malati o forse solamente ‘disturbati’, oppure semplicemente necessitanti di un piccolo aiuto che, magari, pur richiesto non gli è mai arrivato. Un aiuto che forse li avrebbe aiutati a liberarsi dalle angosce del quotidiano, o almeno a sopportarle, vivendo un’esistenza ‘normale’ (qui sotto una foto d'archivio di qualche anno fa di San Servolo).

Tante le storie raccolte, fatte di dolore e di paure, di angosce e di spaventi, di silenzi e di urla notturne, di fantasmi interiori e di speranze interrotte. Con uno sguardo Gazich, come i reclusi, poteva osservare il mare e l’anelito di libertà racchiuso nell’orizzonte tra il cielo e l’acqua. Con un altro poteva scrutare le mura scrostate e piene di quelle “ombre” che in quel luogo persero la sanità mentale, l’intelletto, l’emozione, la dignità, la vita interiore per essere, in seguito, prelevate e condotte al macello, come capri espiatori di peccati mai commessi.
Per scrivere un album come questo, non poteva essere sufficiente la lettura di uno o più libri, l’osservazione di fotografie, la memoria composta grazie a qualche lontano e consumato articolo di giornale. No, la realtà andava affrontata, guardata negli occhi, con la paura di non poterle resistere. Le foto dei pazienti lì reclusi dovevano essere osservate e penetrate con attenzione, squadrate, interiorizzate. Quegli sguardi assenti, oppure furibondi, dovevano essere portati all’interno del sé più interiore per comprendere, fino in fondo e semmai fosse possibile, come quelle vita sono state spente, lentamente, e con inquietante metodo. Insieme alla visione delle fotografie, Gazich ha letto anche miriadi di cartelle cliniche, tra cui quelle relative alle persone raccontate nelle canzoni, i cui testi sono riportati nel bel libretto che accompagna quest’opera (un plauso al bel lavoro curato da Alice Falchetti).
È evidente che Temuto come grido, atteso come canto non è un album dalle tinte morbide, dai colori pastello, dai toni colmi di tenera poesia, che comunque è presente ma non è mai tenera, anzi… No, in queste canzoni (?) c’è la presenza dell’umanità straziata e crocifissa, c’è la presenza di chi è ”disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima” (Isaia 53,3), c’è la presenza di chi, ancora oggi, prosegue nel reclamare la sua dignità di persona ma non ne possiede più i diritti; c’è l’immagine dell’uomo che viene trasfigurato nello strazio di una vita senza più speranza, senza luce, priva di orizzonti, destinata all’oblio dell’oscurità. C’è l’uomo nella sua immensità negata. C’è l’uomo deturpato ed offeso, senza più neppure la parvenza di una salvezza, seppure lontana, imminente, possibile…
Questo lavoro, lo si sarà compreso, non è certamente di semplice fattura ma intrinsecamente composto da sofferenze e disperazioni, dal male che ha pervaso ogni spazio della vita e che, dopo la sofferente reclusione, ha fatto subire a quegli uomini ed a quelle donne, colpevoli di essere figli di Abramo, la deportazione verso le camere a gas. Un evento che ha piantato, in quei poveri corpi, in quelle devastate menti, un altro chiodo, un'altra lama tagliente penetrata ad offendere il cuore. E, pare una bestemmia dirlo, forse in quel viaggio, in quell’ultimo viaggio, qualcuno di loro avrà anche pensato, forse per un istante, che l’approdo di quel treno, era la libertà. Ma così non fu.

L’album è strutturato in tre parti: un prologo, un gruppo di canzoni dedicato ad alcune persone recluse (i cui nomi sono di fantasia, ma sempre ispirati dalla storia personale di ogni paziente) e un saluto, per un totale di undici brani a comporre un mosaico di prodigiosa suggestione. Ma se ogni persona ha un senso ed un valore, ancor di più lo possiede chi ha vissuto in situazioni difficili, di tormento, di disintegrazione della propria umanità. Tutto comincia da quell’isola, San Servolo, dove il grido dei reclusi nel manicomio si perdeva verso le mura o, talvolta, verso il mare, senza che nessuno potesse ascoltarlo.
isolachenoncera



Nasce dallo sguardo di alcune fotografie illustranti l’ora d’aria nel manicomio di San Servolo il brano Caminanti. Ma non solo, perché lo sguardo “diverso” nei confronti di queste fotografie nacque al seguito della visita di una mostra di pittura che Serena Nono, figlia del compositore Luigi Nono, propose nel suo studio veneziano. La mostra era incentrata sulla declinazione della frase “Caminantes, no hay caminos, hay que caminar” (da una poesia di Antonio Machado). Basta poco, a volte, per comprendere l’esatta declinazione di un luogo, di un evento, di un’immagine. Basta poco, ma ci vuole tanto e tanta capacità immaginativa per scrivere, poi, liriche precise per raccontare il vagare senza meta dei reclusi nel cortile della ‘prigione’, prima fisica e poi mentale, di San Servolo. In un mix di italiano e veneto, si srotolano parole che diventano immagini come “Viandanti senza una via, vostro è solo l’andare, fuoco che non sa bruciare, parola che non si può dire…” oppure “L’amore del primo giorno è sempre senza ritorno. Lacrima nasci di notte, lacrima apri le porte…”, perché se non c’è una direzione, ogni passo porta ad un futuro vano, se non c’è un’intenzione è inutile ogni ipotesi di futuro.
Il flauto contralto barocco allieta l’introduzione di questo brano. Ma non ci si può illudere d’essere al riparo dalle avversità perché il suono è salmodiante ed accompagna, sì, il cammino ma al contempo non è chiaro dove questo camminare terminerà e quale sarà la sorte dei “caminanti”. L’atmosfera creata dagli arrangiamenti è delicata, struggente e il brano termina con un canto fermo che pare voglia cristallizzare ogni cosa intorno a sé. Incluse le emozioni, incluse le speranze.
Viandanti senza una via
vostro è solo l'andare
fuoco che non sai bruciare
parola che non si può dire

Un anno intero a camminare
un anno intero ad aspettare
è tornato il tempo dei fiori
camminare oggi già come ieri

Caminanti che non gà il camino
Caminanti che non gà il camino
Caminanti che non gà il camino
i gà da caminar

Se gavè da mandar qualcosa
no mandè par l'infermiera
che la gà le man de cera
e de cera encerarà

Se non avè da darme niente
dimelo prestamente
camineremo ancora qua
Dio ve daga sanità

Caminanti che non gà il camino
Caminanti che non gà il camino
Caminanti che non gà il camino
i gà da caminar

L’amore del primo giorno
è sempre senza ritorno.
Lacrima nasci di notte,
lacrima apri le porte…

Luna portata dal vento
che appoggi al mio davanzale
Luna raccogli il mio pianto
poi scendi e lo porti nel mare

Caminanti che non gà il camino
Caminanti che non gà il camino
Caminanti che non gà il camino
i gà da caminar

Caminanti che non gà il camino
Caminanti che non gà il camino
Caminanti che non gà il camino
i gà da caminar

Caminanti che non gà il camino
Caminanti che non gà il camino
Caminanti che non gà il camino
i gà da caminar

inviata da Dq82 - 13/9/2018 - 11:13




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